Giuseppe Cesare Abba

Il ritorno del cavalleggero

di Giuseppe Cesare Abba (scritto nel 1864 a Pisa in un taccuino di Mario Pratesi: restò inedito fino al 1909, quando lo stesso Pratesi lo pubblicò in un volume di scritti in onore di Abba per il venticinquesimo del suo magistero in Brescia)

Moriva l'ottobre del 1859. Nel piccolo villaggio di Melzo, a poche miglia da Milano, stavano, come si dice nelle milizie, accantonati i primi due squadroni dei Cavalleggeri d'Aosta. Era a questo Reggimento che sette mesi innanzi io mi ero ascritto a Pinerolo, portando meco tutte le splendide illusioni che a vent'anni fan battere il cuore d'un montanaro.
Un bel mattino, molt'ora prima che la tromba rompesse i sonni de' miei commilitoni, io stavo già pronto a partire. Le mie due camicie, rammendate le tante volte dalla mia mano, era l'unico fardello che doveva accompagnarmi.. Più povero io non poteva essere davvero. Eppure nel mio petto era una soave allegrezza, e le diciotto lire della mia borsa, mi sembravano un tesoro invidiabile dal più felice mortale. Era la somma che mi occorreva, non un centesimo di più, per giungere a casa mia.
Io me ne scesi alla scuderia. Il mio grande amico pareva mi avesse atteso tutta la notte, perché nel sentire il mio passo, nitrì di contento. M'accostai con affetto inesprimibile, e stazzonandogli il collo superbo e lisciandogli la criniera, gli dissi addio. Forse mi avrà compreso; ma ad ogni modo quel giorno non ebbe più pane, né sale dalla solita mano, epperò avrà pensato che io non v'era più. All'alba me ne partiva con la via ferrata, abbandonando per sempre quella vigorosa famiglia di cavalieri; solo, senz'arme, vestito soltanto della bassa tenuta, e con le due camicie nella logora sacca. Milano, Magenta, Novara. Qui faccio sosta per rammentarmi che visitai l'amico mio Edgardo, soldato di fanteria, ed allievo della scuola militare. E seguitando il mio viaggio, povero quanto allegro, una sera all'Avemmaria giunsi a Savona. Mi rimanevano quindici centesimi appena. Le viscere latravano davvero; eppure non v'era pane, ed era forza imporre silenzio ai loro lamenti. M'avviai lentamente sulla strada che mena ai miei monti, e quell'aria già fredda che a buffi frequenti mi percuoteva nel volto, ristorava il mio petto. Camminava spedito, e il rumore degli sproni distraeva la mia mente come una soave armonia. Alla solitaria taverna che fiancheggia la strada poco distante dalla città, bevvi tanta acquavite quanta me ne fu data per i miei centesimi, e rinvigorito ripresi la via. La luna splendeva bellissima sopra il mio capo, ed io guardavo la mia ombra che rapidamente scorreva sul margine della via. Rividi così ad una ad una le cime de' monti feconde di memorie infantili; Cadibona mi parve più bella colla sua torre cupa, fredda e pesante; in Altare passai attraverso come ad un cimitero. Ma a Carcare il mio cuore si commosse profondamente. Cinque anni innanzi quel villaggio mi aveva veduto spensierato e felice, ora conforto, ora disperazione de' miei maestri. Le vie erano solitarie, e in faccia al Collegio m'arrestai lungamente. Battevano le due. Oh! quante volte quella ora m'aveva scosso trovandomi col capo reclinato su' mio Virgilio, a mormorare le cento volte un esametro che mi rivelava delle melodie divine! E per la prima volta pensai alla fuga degli anni, e rimpiansi il passato che come folgore mi balenava dinanzi...
M'appoggiai al muricciuolo del pozzo e l'anima mia si fece triste. Quando suonarono le tre io stavo ancora in quell'atto. Ripresi la via lentamente come chi si stacca da cosa caramente diletta. Dopo un'ora battevo alla porta modesta del padre mio. M'aperse mia sorella. Io non dimenticherò più mai l'impressione provata ripassando quella soglia dopo tanti mesi di lontananza, che allora mi parevano tanti davvero! Abbracciai, baciai la sorella mia che a stento poteva parlare, e dopo pochi minuti la fiamma guizzava lieta nel focolare tanto invocato, e rischiarava tutta la famiglia festosa e raccolta d'intorno a me. Mi guardavano con aria d'orgogliosa compiacenza, e mia Madre ad ogni istante, a mirarla, pareva ringiovanita. Povera donna! quanto aveva sofferto! Ma quando alla luce del focolare guardai più attentamente mio Padre e vidi i suoi capelli che avevano incominciato a incanutire nella mia lontananza, sentii una stretta al cuore, e mi parve di piangere. Ma essi non se ne avvidero, e sedemmo e ragionammo fino alla punta del giorno. Mio Padre fumava la sua pipa campagnola, mia Madre preparava il caffè, andava, tornava, rideva, m'interrogava, piangeva e pareva nno credesse d'essere desta. Tutti gareggiavano a farsi narrare la storia di quei sette mesi. Io fumava, e mi guardava gli sproni...