A tavola con i Del Carretto - Introduzione

Introduzione

Le abitudini alimentari dei popoli sono il risultato della sommatoria di molti fattori: geografici, ambientali, politici e sociali. Ogni epoca è stata condizionata nella sua gastronomia dal modificarsi di una o più di queste variabili. Il cambiamento non è stato sempre cosciente - anzi il più delle volte è stato strisciante ed operante nel lungo periodo - ma non per questo gli effetti sono stati meno significativi. Senza ricercare esempi astrusi basti pensare a quanto si sono modificate le nostre abitudini alimentari in questi ultimi trent'anni: il cambiamento di organizzazione del lavoro, l'allargamento delle possibilità economiche e di quelle di approvvigionamento, l'interscambio internazionale e l'introduzione di nuove coltivazioni, associate a innovazioni nelle tecniche agricole e nei metodi di conservazione, hanno prodotto un vero e proprio sconvolgimento che ognuno di noi può facilmente verificare. Parole come surgelato, pompelmo, soia, hamburger, wurstel, toast, filetto di pesce, fiocchi di avena, sottilette, kiwi, yogurt, etc. sono oramai familiari nel nostro vocabolario e sulle nostre mense, ma quanti usavano questi prodotti solamente trent'anni fa?

Un fenomeno analogo, sebbene di durata molto più ampia (circa tre secoli), inizia nella prima metà del XVI sec. quando giungono dalle Americhe i nuovi alimenti, che sono destinati ad incidere profondamente nella economia agricola europea e quindi anche ad influire sulle abitudini alimentari delle nostre vallate.

Cristoforo Colombo, quando diresse la prua delle sue navi verso il mare aperto partendo da Palos nel 1492, non poteva certo immaginare anche questi fra gli sviluppi che il successo della sua impresa avrebbe provocato nella vita quotidiana degli abitanti della vecchia Europa. Per limitarci al solo campo agricolo-alimentare determinante fu l'introduzione dalle Americhe del mais, della patata, del pomodoro e di molte specie di fagioli - ma anche dei tacchini, del cacao e del tabacco - che produssero mode alimentari e cambiamenti tali da farci seriamente domandare di che cosa si nutrissero i nostri antenati, prima dell'arrivo di questi prodotti oggi così diffusi.

Le pagine che seguono cercano di fare il punto sulle abitudini e sulle disponibilità alimentari nella val Bormida, prima che questo avvenimento abbia sulla stessa qualche influenza positiva. Lo spazio di tempo considerato abbraccia all'incirca due secoli e va dalla seconda metà del 1400 fino al 1650, un periodo che è generalmente considerato Rinascimento, ma che per le nostre valli mi piace denominare Ultimo Medioevo.

Le fonti a cui ho attinto sono soprattutto documenti e statuti locali, alcuni dei quali inediti, che verranno via via citati in nota.

È bene precisare inoltre che la ricerca fornirà un'analisi qualitativa, ma non quantitativa della alimentazione valbormidese nel periodo trattato. Mentre nei documenti consultati è stato possibile trovare riferimenti a tipi di alimenti e di coltivazioni, non è stato invece mai possibile desumere le quantità e quindi neppure il consumo medio pro-capite; è questo il grosso handicap che presentano tutte le ricerche di questo tipo, comprese quelle più importanti e complete di queste pagine.

Un diverso paesaggio, una diversa alimentazione

Collegare il paesaggio della val Bormida alla alimentazione dei suoi abitanti può sembrare a prima vista bizzarro, eppure se ci fermiamo un momento a riflettere, ci rendiamo subito conto che l'equazione - diverso paesaggio, diversa alimentazione - è sostenibile e risolubile, e questo per almeno due ordini di motivi. Il primo, quello più immediato, consiste nelle sostanziali differenze morfologiche tra la parte alpina e la parte appenninica della vai Bormida, il cui confine è segnato, grosso modo, dalla attuale strada statale che collega Ceva a Savona.

Terreni diversi generano prodotti agricoli differenti: ai boschi dell'alta valle - alta anche come altitudine - si contrappongono le aree pianeggianti e collinari della parte appenninica: alle castagne di Osiglia e Calizzano fanno da contraltare i cereali, i legumi e le vigne della parte bassa della valle. Non solo: alle zone pianeggianti, adatte all'allevamento bovino, si contrappongono le parti collinari e montagnose, regno degli ovini e, soprattutto, dei maiali, un tempo generalmente allevati allo stato brado. Già questo può rendere ragione all'ipotesi fatta: risulta evidente che non si mangia egualmente ad Osiglia e Dego, come c'è differenza tra Bardineto e Millesimo, anche se l'interscambio fra paesi vicini attenua ovviamente le differenze. Se si osserva, invece, il modificarsi della vallata non più dal punto di vista geografico, ma da quello storico si può notare, anche in questo caso che il cambiare del paesaggio è strettamente collegato ad un diverso modo di alimentarsi. Per renderci conto di ciò occorre spingerci un po' più indietro rispetto al periodo che stiamo considerando (1450-1650) e precisamente all'Alto Medioevo, in cui le nostre vallate, appena visitate dalle scorrerie saracene, sono così poco popolate da essere definite "deserti Voci". La Val Bormida è allora interamente ricoperta da distese di boschi più o meno fitti, molto adatti alla vita degli animali selvatici, mentre presenta scarse zone pianeggianti vicino ai corsi d'acqua, dove si trovano i rari campi coltivati. L'alimentazione di questo periodo è dunque fortemente condizionata dalla raccolta di dei frutti spontanei dei boschi e dall'allevamento animale (con prevalenza del maiale), mentre sono meno determinanti i prodotti dell'agricoltura. È il tempo in cui la carne, divenuta poi un mito, non è assente dalle tavole e viene accompagnata dai prodotti caseari, da qualche cereale o legume e dalle scarse verdure dei piccoli orti.

La colonizzazione dei territori della val Bormida si sviluppa dopo la fondazione dei vari monasteri - S. Quintino di Spigno (991), Ferrania (1097), Fornelli (1179), S. Stefano di Millesimo (1216) - che esercitano una notevole spinta propulsiva per i nuovi insediamenti sul territorio. Innanzi tutto i monasteri incentivato le produzioni con l'insegnamento e l'introduzione di nuove tecniche agrarie e di nuove colture: forniscono poi, con la loro autorità, anche una buona protezione a coloro che lavorano i terreni dei monasteri.

Il rapporto popolazione/territorio è ancora estremamente favorevole: se si ha bisogno di campi non è ancora il caso di disboscare, basta coltivare le zone pianeggianti che, poste vicino ai fiumi, possono essere irrigate con un conseguente aumento della produttività. Questa situazione perdura almeno sino al XIII secolo, quando Enrico 11 Del Carretto fonda Millesimo nel 1206 e si vede costretto a promettere molte franchigie per invogliare nuove persone a stabilirvisi. La Millesimo di allora, come del resto la maggior parte dei paesi, è infatti costituita da poche case circondate da un esiguo numero di campi, chiamate "Braide" o Graie".

Tutto il resto è l'incolto, sono boschi e chiaggi, dove non domina ancora il castagno che convive con altre essenze, tra cui importante è la quercia, produttrice delle preziose ghiande.

Ben diverso diventerà il rapporto con il territorio nei secoli successivi quando l'aumento della popolazione provoca il fenomeno del "ronzare": la necessità cioè di tagliare parti di bosco per ottenere campi coltivabili, più redditizi, dal punto di vista alimentare, del semplice sfruttamento del terreno per l'allevamento. I toponimi "ronco" sono ancora oggi abbastanza frequenti in Val Bormida - Ronchi di Osiglia, Ronco di Maglio, località Ronco sopra Millesimo, etc. - e risalgono probabilmente tutti a quest'epoca in cui l'agricoltura prende impulso e per ciò ha bisogno di nuove terre.

I boschi che rimangono subiscono inoltre una progressiva trasformazione: il castagneto da frutto prende progressivamente piede, fino a divenire onnipresente, per la ossessiva ricerca di una fonte alimentare, le castagne, che diventano l'alimento base ed insostituibile per la maggior parte della popolazione. Questo fenomeno, che è comune a tutte le zone di montagna, è tanto più accentuato in quanto le castagne vengono ad integrare, e spesso a sopperire, le esigue rese dei cereali, che peraltro sono molto basse anche nelle pianure, dove costituiscono, insieme ai legumi, l'unico alimento alla portata del popolo.

Paesaggio diverso dunque nelle due situazioni: pochi campi coltivati, qualche orto e molto incolto - e quindi allevamento - nel primo caso; una incidenza maggiore della agricoltura e la riduzione dell'importanza dei prodotti del bosco nel secondo caso. Conseguentemente varia anche l'alimentazione: nell'Atto Medioevo, assieme ai cereali ed ai legumi, compare la carne, fresca e conservata, il cui consumo consente una dieta molto variata con un apporto equilibrato di tutte le sostanze - carboidrati, proteine animali e vegetali, vitamine e grassi - necessarie ad un corretto sviluppo. Nel Basso Medioevo invece la base alimentare si restringe sia come qualità che come quantità e l'apporto proteico viene affidato quasi esclusivamente alle proteine vegetali, la famosa "carne dei poveri", costituita dai legumi. In certe zone anzi si arriva addirittura al monofagismo alimentare, con tutte le conseguenze ad esso collegate sia per la maggiore incidenza di malattie da carenza, come la pellagra, sia per il pericolo di carestie, molto pia facili a verificarsi quando eventi atmosferici o cattive annate facevano mancare l'unica fonte alimentare.

Autosufficienza o economia della fame?

Una delle convinzioni più consolidate attorno al Medioevo è che la maggior parte della popolazione vivesse di radici e di erbe in uno stato di cronica indigenza: in parole povere che ci fosse una alimentazione al limite della sopravvivenza e poco variata. Studi recenti hanno consentito di puntualizzare meglio i termini della questione e di distinguere situazioni diverse all'interno di quei lunghi secoli che genericamente definiamo "Medioevo". Diverse, come abbiamo visto, sono le situazioni nell'Alto Medioevo - caratterizzato da una popolazione piuttosto scarsa - e nel Basso Medioevo, pressato dalla spinta demografica avvenuta dopo l'ultima grave crisi di peste nera nel XIV secolo.

Quasi impossibile poi risulta il confronto fra l'alimentazione di oggi - che riceve apporti anche da paesi ai nostri antipodi - e l'organizzazione alimentare del Medioevo, in cui il commercio si limita a procurare quegli alimenti o quelle sostanze, tipo il sale, che non è assolutamente possibile reperire in loco. Ben difficilmente un valbormidese del 1200 o anche del 1500 comprenderebbe la nostra organizzazione commerciale che affida le cose più essenziali, come lo sfamarsi o il difendersi dal freddo, alle esigue scorte dei nostri negozi, a loro volta in balia di approvvigionamenti che qualsiasi crisi internazionale, od anche un banale sciopero, possono interrompere, provocando un immediato stato di crisi. Nel Medioevo, ma ancora fino a pochi decenni fa, la maggior parte del cibo viene prodotto in loco; l'autosufficienza, il non avere cioè bisogno che in minima parte dell'esterno per sopravvivere, è l'imperativo categorico che spinge le comunità medioevali ad introdurre colture anche non propriamente adatte ai climi della zona pur di riuscire a fare tutto da sole, racchiuse attorno alla rassicurante presenza del proprio campanile.

Certamente questo rinchiudersi su se stessi significa anche disporre di un'area molto ristretta su cui contare, significa che non c'è quasi possibilità di compensazione in periodo di carestia.

L'economia dell'autosufficienza è dunque sovente anche l'economia della difficile sopravvivenza e in definitiva della possibile fame.

Le comunità, non potendo contare sull'esterno, devono trovare dei metodi interni di riequilibrio ed opportunamente negli statuti vengono dettate norme che impediscano (o almeno attenuino) le situazioni più gravi.

A questo ambito si possono fa risalire le norme che vengono recepite in alcuni statuti: così a Millesimo nel 1580 si stabilisce che nessuno possa acquistare scorte di cereali ed altri alimenti in quantità superiori alle proprie necessità. Si fa anzi obbligo a quanti disponessero di eccedenze di metterle a disposizione, benché a pagamento, di coloro che ne facessero richiesta. Anche negli Statuti di Pallare del 1539 troviamo la stessa preoccupazione esplicitata nel Cap. N. 41 - De grano, et aliis rebus contribuendis eodem pretio - in cui si stabilisce che coloro che abbiano comprato in paese grano, biade o legumi, sono tenuti a conferirli allo stesso prezzo agli abitanti di Pallare che volessero comprarli.

Ancora più esplicita la norma degli statuti di Carcare del 1602: il giudice "non procederà per cose rubbate per mangiare in tempo di fame o necessità, se il rubbatore non ne facesse arte e pigliasse più delle necessità".

Non sappiamo se queste norme siano esclusive dell'epoca o comparissero già in statuti precedenti come quelli di Millesimo del XIII secolo (giunti a noi mutili di più parti), ma il fatto stesso che esse vengano riprese dagli statuti di epoca più recente è di per se indice allarmante di necessità e di situazione ricorrente. Questo conferma lo stato di perenne difficoltà che abbiamo già collegato con l'aumento demografico e con il diffondersi di una economia più legata alla agricoltura e per ciò soggetta a carestie e periodi "di fame" dovuti anche alle distruzioni delle guerre.

Le fonti statutarie valbormidesi

Gli Statuti locali venivano di volta in volta concessi o confermati dal Signore del luogo e avevano una struttura abbastanza simile che derivava, forse, da un modello standard a cui facevano riferimento i Notai del tempo. È probabile che ogni paese avesse una raccolta di leggi o consuetudini di questo tipo mediante le quali si regolavano i rapporti tra privati o tra lo stesso Signore e le Comunità locali. Spesso la redazione di queste norme diveniva un vero e proprio momento di contrattazione con i Marchesi, fossero essi i Del Carretto o gli Scarampi, e le Comunità con maggiore peso, economico o strategico, riuscivano spesso a strappare concessioni più ampie e favorevoli.

È evidente perciò che, benché simili nell'impostazione generale, gli Statuti non erano perfettamente identici in quanto dovevano interpretare realtà diverse e situazioni particolari che non erano le stesse a Dego, a Millesimo, ad Altare o a Calizzano.

Dal confronto dei testi che ci sono pervenuti - molti, per fortuna - e dalla analisi delle loro analogie e differenze scaturiscono interessanti notizie su ogni aspetto della vita sociale e, in particolare, si possono desumere informazioni riguardo all'agricoltura, al commercio e quindi all'alimentazione, che è il tema di questo lavoro.

Ho preso in considerazione tutti gli Statuti di cui sono venuto a conoscenza: conservati ora in archivi pubblici, ora in possesso di privati che con pazienza li hanno ritrovati e raccolti.

Degli Statuti analizzati - giunti a noi ora manoscritti ora in edizioni a stampa di epoca tardomedievale o addirittura protomoderna - verrà data qui di seguito una breve notizia, indicando anche le sigle con cui verranno citati nelle note al testo.

Gli Statuti della Val Bormida: