A tavola con i Del Carretto - Conclusioni

Conclusioni

La storia valbormidese dell'alimentazione, delineata nei capitoli precedenti, si è rivelata piuttosto complessa e condizionata dalle a numerose cesure geografiche, politiche e sociali che in questo periodo, che ha definito di Ultimo Medioevo, attraversano ancora la val Bormida.

Già nella introduzione si era ipotizzata una diversa alimentazione conseguente ad una diversa condizione geografica e storica: cambia, infatti, l'alimentazione sia per le diverse coltivazioni possibili nelle varie realtà locali, sia per la maggiore o minore popolazione che condiziona la percentuale di territorio destinato alle coltivazioni ed all'allevamento. Può cambiare anche l'alimentazione a seconda dell'appartenenza, o affiliazione, ad uno Stato piuttosto che ad un altro: cosa che può aprire o chiudere l'accesso ai porti da cui passano gli approvvigionamenti dei cibi di importazione che, peraltro, abbiamo visto piuttosto limitati.

Più marcate risultano le differenze alimentari dovute al censo, e quindi alle singole disponibilità, specie in questo periodo dove, oltre alla quantità, i ricchi cominciano a distinguersi dal popolo anche per il tipo di cibo e per le nuove mode alimentari. Nei secoli precedenti, infatti, non risultano sostanziali differenze alimentari tra i nobili e i sudditi, se non, appunto, nella quantità che erano illimitate per i primi mentre erano condizionate da innumerevoli fattori per il popolo ed i poveri. Nel periodo considerato, invece, comincia la divaricazione: la cucina popolare rimane staticamente legata ai modelli tradizionali, mentre sulle tavole nobiliari inizia quel fenomeno di "nouvelle cousine" che abbiamo visto teorizzato dal Platina e sopportato dalla scienza medica del tempo - a cui appartengono il Guainerio e il Bario - che sostiene la separazione tra i cibi adatti al popolo a quelli adatti ai nobili. Cambia, per i nobili, anche l'approccio al cibo: si mangia molto non più come simbolo di forza fisica, come avveniva nel Medioevo, ma per il piacere del convivio e dello sfoggio di ricchezza che avviene non solo presentando una gran quantità di portate, ma anche offrendo cibi confezionati in maniera sfarzosa e raffinata.

Una raffinatezza è, ad esempio, la conquista del colore che contrappone la cucina nobiliare agli smorti toni dei cibi popolari. Nei testi gastronomici che ci sono pervenuti sono infatti numerose le ricette che prevedono l'uso del costosissimo zafferano (ancora oggi ingrediente del risotto alla milanese con sola funzione colorante) e che presentano piatti guarniti da multicolori gelatine. Si comincia cioè a mangiare anche con gli occhi: un piacere che non può permettersi la concreta fame dei popolani. Nonostante queste differenze con il precedente modello alimentare è certo che il nobile mangia sempre molto e che, comunque si invertano gli addendi, la somma delle calorie e delle proteine ingerite rimane sempre molto alta e spesso eccessiva. Scarse sono invece le ricette che prevedono il consumo di verdure e di frutta fresche per cui si può ipotizzare un carente apporto vitaminico. Da questo tipo di alimentazione discendono le malattie da abbondanza tipiche dei benestanti tra le quali domina la gotta, la malattia caratteristica dei mangiatori di carne: una preoccupazione questa che non ha mai sfiorato i ceti meno abbienti, anche nelle epoche di massima espansione dell'allevamento. Il pericolo, per il popolo, sono piuttosto le malattie da malnutrizione e da carenza, anche se abbiamo potuto vedere che la dieta della gente comune era meno monotona di quanto ci si potesse aspettare.

Il monofagismo alimentare sarà, infatti, una costante dei secoli successivi: in questo periodo il ventaglio di alimenti a cui ci si può rivolgere è ancora sufficientemente ampio. E se escludiamo i periodi di carestia, possiamo affermare che, nell'arco dell'anno, la dieta popolare è sufficientemente variata e che la monotonia alimentare è piuttosto stagionale, perché dettata dalla necessità di adattarsi a consumare l'alimento che in quel momento è abbondante e che altrimenti andrebbe sprecato. Certo il meno abbiente non può scegliere e mangia ciò che trova e spesso ciò che trova sono i resti o gli scarti di coloro che invece possono scegliere. Ai poveri rimangono dunque le frattaglie, le carni "gramignose" o quelle già stantie, che spesso provocano terribili infezioni ed avvelenamenti.

Il botulismo, l'echinococcosi sono malattie frequenti tra le classi povere, così come (specie in tempi di carestia) il favismo o il latirismo, cioè le malattie da carenza tipiche dei mangiatori di fave o di cicerchie. Anche l'ergotismo, di cui si è già parlato, dovuto alla ingestione di farina contaminata dalla segale cornuta, è una malattia che il povero ha più probabilità di contrarre, perché la farina di segale è meno costosa, specie se di scarsa qualità quale doveva essere quella contaminata dal fungo.

Queste malattie, pur essendo abbastanza diffuse, raramente vengono collegate alla ingestione di cibi avariati od a diete carenti: esse, così come le epidemie, vengono spesso spiegate come effetto del fato o della collera divina e perciò vissute con maggiore rassegnazione. L'uomo medievale si ribella, invece, allo stato di crisi provocato dalle carestie perché non lo vede inevitabile: ecco la caparbia ricerca della autosufficienza alimentare che gli fa coltivare ogni cosa, magari in terreni niente affatto adatti allo scopo. Proprio per questa ossessiva ricerca del cibo, di qualunque tipo di cibo, possiamo affermare che la dieta popolare era sufficientemente equilibrata, se si escludono, ovviamente, i ciclici momenti di carestia o di guerra in cui si poteva morire, letteralmente, di fame. Erano questi i frangenti in cui chi possedeva qualcosa lo impegnava in cambio di qualche manciata di farina o di castagne secche e chi non aveva nulla ricorreva semplicemente al furto, che era punito con pene lievi purché le quantità rubate fossero modeste. Sicuramente la quantità di cibo non soddisfaceva sempre gli appetiti delle persone e possiamo senz'altro immaginarci che i ricchi fossero molto invidiati. Tuttavia possiamo con una certa tranquillità affermare che la quantità dei principi nutritivi era discretamente variata e tale da non presentare un pericolo dal punto di vista sanitario: possiamo anzi dire che la dieta popolare era più equilibrata di quella dei ricchi. Non potendo scegliere e dovendosi arrangiare, i meno abbienti si ritrovano a consumare una varietà maggiore di alimenti che forniscono tutti i principi nutritivi essenziali alla buona salute del corpo. I nobili, invece, prigionieri di abitudini e mode che possono permettersi, snobbano certi alimenti privilegiandone altri con la conseguenza delle malattie poco sopra accennate.

I ceti popolari fanno dunque di necessità virtù e, a parte zone limitate a cui non mi sembra appartenere la val Bormida, sono rare le malattie da carenza (come la pellagra) che, invece, diventeranno frequenti nei secoli successivi, quando l'aumento demografico imporrà la monocoltura cerealicola e il dilagare delle terre castaneate. Ciò comprimerà ulteriormente i terreni adatti all'allevamento e di fatto renderà indisponibile la carne sulle tavole popolari, creando un mitico bisogno che verrà soddisfatto solo nella seconda parte di questo secolo.