Parte seconda: GLI STATUTI, capitolo 2 - Statuta, capitula sive ordinamenta communis Carij

Il contenuto

Istituzioni e cariche pubbliche - Il diritto penale - Il diritto civile - L'agricoltura e la campagna - Attività commerciali

2-1 - Istituzioni e cariche pubbliche

Bisogna subito chiarire che ufficialmente la massima autorità del comune è naturalmente il "Dominus" : "coram Domino" vengono citati i debitori insolventi, è lui che decide se tagliare mani o piedi, o cavare gli occhi ai condannati, sempre lui ha la facoltà di concedere rappresaglie, ed è lui che deve controllare che emende e bandi vengano regolarmente pagati. Questo ufficialmente, perché in realtà egli si occupa ben poco dell'amministrazione del Comune: una volta che ha ricevuto la parte che gli spetta delle varie ammende lascia che altri lavorino per lui. Resta ora da vedere chi questi "altri" siano.

Nei nostri statuti è spesso ripetuta la formula "Dominus, sive Vicecomes, sive Rector", che se da una parte sottolinea la priorità del Signore, dall'altra ci indica anche chi ne fa le veci.

Naturale sostituto del Signore è quindi il Visconte, ma non sempre: in molti casi è direttamente il "Rector" che si assume le sue responsabilità. In pratica è quest'ultimo il vero "amministratore" del Comune.

A questo punto bisogna per aprire una parentesi: secondo quanto scritto nel capitolo CXXXV, che risulta tra l'altro tra quelli aboliti nella revisione del 1353, esistevano a Cairo, in quel periodo, ancora i "Consules". Il consolato era una magistratura risorta con la nascita del comune con il compito di esercitare il potere esecutivo spettante al comune, di amministrare la finanza pubblica, di comandare l'esercito, e di giudicare in materia civile e penale. Era assistito nel suo ufficio da un collegio di giudici e avvocati, e dai "Sapientes". Da un atto del 17 agosto 1323 (21) sappiamo che in quel periodo a Cairo c'erano ancora i Sapienti ("cum consilio sapientis octo fuit in Cario in ecclesiam Sancti Laurentii"), e quindi abbiamo ragione di ritenere che fosse ancora vivo l'istituto del consolato. Nello stesso capitolo, è però nominato anche il "Rector": come possono quindi essere coesistite queste due cariche, visto che l'una è nata per sostituire l'altra?

Il Pertile (22) ci informa che durante e dopo il periodo di Federico Barbarossa (1122-1190) avvenne la sostituzione dei consoli con un unico individuo, il podestà (chiamato anche rettore), ma che il processo che portò alla concentrazione delle responsabilità nelle mani di una sola persona, non fu immediato, ma graduale, e che in molti comuni, prima del definitivo affermarsi del podestà, si verificò l'alternarsi dei due istituti. Sicuramente questo accadde anche a Cairo, anche se al tempo della revisione del 1353 i consoli erano probabilmente già scomparsi.

Ma torniamo al "Rector". Esaminiamo innanzitutto questa figura dal punto di vista generale per poi ritrovare in essa i punti di contatto, ed eventualmente di distacco, con quella di Cairo. Gli eleggibili alla carica non dovevano risiedere nel comune, ne' nei dintorni; era necessaria un'età matura, preferibilmente intorno ai trent'anni, e l'appartenenza ad una casta sociale elevata; non dovevano aver occupato cariche pubbliche l'anno precedente, e nemmeno dovevano averle occupate loro parenti; e parenti non dovevano avere in quel comune. Una volta eletto, il rettore doveva portare con se' un certo numero di ufficiali, forestieri anch'essi e possibilmente di città diverse. Durava in carica un anno e normalmente veniva eletto dal consiglio, ma in alcuni casi accadeva anche che si chiedesse ad un comune amico di mandare il suo miglior cittadino. Aveva potere esecutivo, giudiziario e militare; amministrava la giustizia e le finanze pubbliche. Per i suoi servigi riceveva una paga fissa, il "foedum". Una volta esaurito il mandato doveva rimanere nel comune fino a che una magistratura temporanea appositamente eletta, il "sindacatus", non avesse esaminato la sua gestione ed ascoltato eventuali lamentele da parte dei cittadini.

I nostri statuti non definiscono particolarmente i compiti del "Rector" (e questo vale anche per le altre cariche), ma qualcosa si può desumere attraverso la lettura dei capitoli.

A Cairo il rettore può mandare uomini armati per sedare le risse (23), può stabilire i termini per l'esecuzione delle sentenze (24), custodire le cauzioni degli appellanti (25) e definire l'entità delle spese che il perdente deve restituire al vincitore nelle cause giudiziarie (26). Può inoltre decidere di amministrare la giustizia nei giorni proibiti ("feriae"), se lo ritiene necessario (27), e stabilire la formula dei giuramenti (28). Deve essere presente alle citazioni fatte dai creditori nei confronti dei debitori (29) e far arrestare gli insolventi per debiti superiori a venti soldi (30). Se poi qualcuno di Cairo subisce un danno in terra straniera deve concedere rappresaglia (31), e allo stesso modo deve soddisfare le richieste di "cambio, laudem, vel represalia" da parte di altri comuni (32). Questa rappresaglia era la facoltà che aveva un comune di ottenere il risarcimento di un furto o di un danno subito da un suo cittadino da un forestiero, mediante la richiesta di restituzione del maltolto o del corrispettivo in denaro, e, in caso di rifiuto, di sequestro dei beni del colpevole stesso o di uno dei suoi concittadini. A Cairo il rettore punisce anche i bestemmiatori: chi offende Dio, la Vergine o i Santi, e non paga i due soldi previsti dagli statuti, viene legato con le braccia dietro la schiena, portato in piazza, e poi immerso per tre volte nel fiume "ubi fuerit grossus" (33). Se sorgono questioni sui confini, il rettore ha la facoltà di moltiplicare l'importo della multa a chi non si attiene a quanto stabilito dagli "aterminatores" in seguito a sopralluogo (34). Per tutelare chi subisce un danno, gli statuti stabiliscono poi che il rettore deve accertarsi che venga prima rimborsato chi riceve il torto, e poi pagata l'ammenda (35). Infine il rettore può, se lo desidera, partecipare alle riunioni del consiglio, delle quali deve essere precedentemente informato (36).

Abbiamo prima detto che il rettore viene eletto dal consiglio: questo è l'organo più importante del comune. Esistono due tipi di consiglio: il consiglio "maggiore" e il consiglio "minore". Il primo, un tempo l'adunanza di tutti i cittadini capaci di esercitare diritti politici chiamata pubblico parlamento o pubblica concione, è ora la riunione di tutti i "capita domorum" che si incontrano in "Ecclesia (Sancti Laurenti) vel alibi . . . . . . ad sonum campane, et voce preconis, vel uno ipsorum" (37). Detta adunanza si può' riunire "quandocumque et quotienscumque voluerit", ma deve prima avvertire il Signore, il Visconte, il Rettore e il Vicario affinché possano, qualora ne abbiano desiderio, presenziare alla riunione: la loro assenza non è comunque causa di impedimento. E' in potere del consiglio emettere ordinanze (38) e modificare statuti (39), e sua prerogativa imporre taglie, vendere, alienare, donare e obbligare beni del Comune (40). In generale le decisioni del consiglio potevano avvenire a scrutinio palese, con l'alzarsi o il sedersi dal posto, o a scrutinio segreto con palle o fave. Per quest'ultimo si poteva procedere in due diversi modi: o si utilizzavano due bussolotti, uno per il sì e uno per il no, oppure un'unica urna con fave di diverso colore. A Cairo le decisioni non possono essere votate a voce, "sed ponatur ad partitum fabarum nigrarum et albanum, et maior pars obtineat in praeposta" (41). La maggioranza ottiene cos ragione, ma perché le decisioni possano essere definitivamente approvate occorre che "plus quam duae partes" degli aventi diritto all'adunanza siano presenti alla seduta (42). Esiste poi in Cairo un consiglio minore, formato da persone del consiglio maggiore, e da esso elette. E' composto da "duodecim bonorum, et legalium hominum" chiamati "Consiliares et Iuratores" (43). Poiché è scritto sugli statuti "nomina consiliariorum et iuratorum sunt haec", sono propenso a credere che non siano due termini diversi per definire una stessa carica, ma più probabilmente il consiglio era formato dagli uni e dagli altri. Non ci dicono per gli statuti in quale proporzione fossero divisi. Io azzarderei a sostenere che gli "octo sapientes" che troviamo nominati nel documento del 1323 abbiano in seguito assunto il nome di "Consiliares", e che ad essi rimangano affiancati altri quattro elementi con il nome di "Iuratores". E questi ultimi hanno a Cairo compiti ben precisi: possono e devono controllare regolarmente che, come prevedono gli statuti, i pesi e le misure usate dai commercianti corrispondano a quelli usati in Savona (44), fare i bandi (45), far demolire le costruzioni irregolari (46) e controllare che, per sicurezza, nessuno copra con la paglia i tetti delle case del borgo (47). Sappiamo dal Pertile (48), che il podestà, quando si trasferiva nel comune che lo aveva eletto, portava con sé un certo numero di persone destinate ad occuparsi di precisi incarichi nell'amministrazione del comune. C'era innanzitutto un vicario destinato a sostituirlo quando impedimenti personali, o "assenze di servizio", lo tenevano lontano dal suo ufficio (e questa figura la ritroviamo anche a Cairo); c'era poi un cancelliere, che custodiva le scritture del comune (conti, libri dei banditi, deliberazioni del consiglio, etc. ), un massaio, cui spettava la riscossione e l'erogazione delle finanze pubbliche, e dei procuratori, preposti al controllo dei beni pubblici e dell'igiene delle strade e delle piazze. L'insieme di questi ufficiali formava la cosiddetta "curia potestatis".

Negli statuti di Cairo non troviamo queste cariche nominate singolarmente, ma si parla di curia in senso generale (49), o di ufficiali che con la curia hanno a che fare: il "Decanus Curiae" e i "Notarii Curiae". Il decano è incaricato della citazione di coloro che devono comparire di fronte al rettore (50), ha l'obbligo, se richiesto, di tener prigioniero un debitore straniero insolvente o di custodire, quale garanzia, i suoi averi (51), e la facoltà di ordinare il ripristino delle vie, qualora vengano rovinate o modificate. I notai della curia erano coloro che assistevano gli ufficiali redigendo i verbali concernenti i compiti che detti ufficiali svolgevano. Nelle grandi città ogni ufficio era assistito da uno o più di tali notai, mentre nei piccoli comuni uno stesso notaio poteva essere "impiegato" presso uffici diversi. Nei nostri statuti li troviamo nominati in senso generico al cap. XXII, dove, tra i periodi di cui non bisogna tener conto per la decorrenza dei termini nelle cause giudiziarie c' è anche "tempore quo Notarii curiae essent impediti pro exercitibus et cavalcatis": quando il podestà esce << egli stesso con l'esercito per cavalcate, guasti, ecc. , può aver seco notai per la redazione in iscritto degli atti conseguenti a queste sue mansioni, ma soprattutto . . . . . per la tenuta dei conti del mantenimento dell'esercito in campagna >> (52). Attraverso gli statuti non ci è dato di conoscere altri particolari di questa carica.

Queste finora elencate sono le cariche "maggiori" del comune, quelle cioè che si preoccupano di organizzare la vita nell'ambito del comune stesso e di mantenere i rapporti con l'esterno.

Analizziamo invece adesso le funzioni di quegli organi che hanno il compito di controllare che le disposizioni emanate dal consiglio siano effettivamente rispettate da tutti i cittadini.

I capitoli XXXIV, XXXV e XXXVI definiscono in maniera relativamente vaga, ma sufficientemente chiara, i poteri e i doveri del "Curator Generalis": l'eletto deve essere "unus homo bonus et legalis", possedere cioè provate qualità morali ed essere giuridicamente nelle condizioni previste dalla legge. Suo compito è quello di prendersi cura ed amministrare i beni degli assenti chiamati in giudizio e dei defunti privi di eredi. L' "absens de terra" può essere citato solo se la causa della sua assenza è altra che non la cattura e la detenzione da parte di nemici, il pellegrinaggio, il commercio o la malattia. Per presentarsi "coram domino sive rectore pro tempore existente" gli sono concessi cinque giorni prorogabili di cinque, e ulteriormente di altri cinque: dopo di che il curatore requisisce i suoi beni, li pone in inventario, e li custodisce e li amministra come se fosse stato dal proprietario stesso incaricato di questo. Nel secondo caso, invece, quando il querelato muore senza eredi, o questi ripudiano l'eredità, "tunc preconizetur per terram publice" che se qualcuno vuole prendere possesso di quei beni deve farne richiesta entro cinque, più cinque, più cinque giorni. Dopo di che il curatore requisice i beni come sopra. In entrambi i casi il "curator generalis" riceve come compenso per il suo lavoro "den. II pro qualibet libra".

Un'altra carica che riveste particolare importanza all'interno del comune è quella degli "Aestimatores". << Alla stima e all'assegnazione dei beni immobili del debitore l'ordinamento giudiziario comunale provvede a mezzo di un magistrato apposito detto degli stimatori del Comune >>(53). A Cairo sono previsti "tres aestimatores boni et legales" (54): vengono chiamati in causa dal creditore per fare la stima dei beni del debitore insolvente. Una volta avvenuto l'estimo il creditore prende la parte che gli spetta dei beni mobili e ne dispone a suo piacimento "absque contradictione debitores, et sine licentia Domini, vel Rectorem requisitam". Per quanto riguarda invece i beni immobili, il debitore ha tre mesi di tempo per riscattarli ad un prezzo pari alla somma che doveva restituire al creditore prima che fosse avvenuto l'estimo; e comunque deve ripagare il creditore delle spese da lui sostenute per l'estimo più "den. II pro libra omni mense". Gli stimatori ricevono come compenso "infra burgum den. II pro qualibet libra, et extra burgum den. III tantum". Altro impegno che gli stimatori si assumono giurando di fronte al Signore è quello di controllare che le vie e i beni di proprietà del comune siano sempre in ordine. Da un documento del 16 novembre 1315 (55) sappiamo poi che esisteva in Cairo una carica collegata a quella degli stimatori, ma che non troviamo riportata negli statuti: quella dei "Taxatores". Così scritto: ". . . . fodri seu ficti et taxatum per extimatores seu taxatores qui per predictam universitatem seu per illos de consilio aut iuratores communi Carij elligentur ad imponendum et taxandum dictum fodrum seu fictum . . . . ". Detto fodro consisteva in una tassa annuale di 60 lire genovesi ripartita fra tutti gli abitanti. Come ho già detto i tassatori non sono nominati negli statuti, ma al capitolo CXXVII si parla di "Incisoribus fodri", ai quali, si dice solamente, è vietato diminuire il fodro. Anche se non ci sono prove sicure sono comunque dell'idea che gli "Incisoribus fodri" degli statuti altro non siano che i "Taxatores" del documento del 1315 sotto altro nome.

Al capitolo LII, poi, si parla di "Aterminatores". Costoro non fanno parte di un ufficio permanente, ma vengono eletti quando il caso lo richiede: se sorge una qualunque discordia fra vicini a riguardo dei loro poderi, tale discordia viene risolta tramite "bonos homines, qui iurent si aliqua partium requisiverit, ad hoc electos per partem, vel curiam si partes non possunt concordare", e le parti in causa devono attenersi alla sentenza che "per dictos aterminatore fuerit pronuntiata". Non è apertamente specificato al capitolo LXXXVII, ma lo si può comunque dedurre, che questi ufficiali temporanei sono chiamati in causa anche in seguito a manomissione dei termini di confine quando questi debbono essere rimessi al loro posto.

Minuziosamente regolati sono invece i doveri dei "Camparijs". Questo è spiegato dal fatto che a Cairo, comune quasi esclusivamente agricolo, la terra con i suoi prodotti rappresenta la ricchezza principale per i suoi abitanti, e ogni danno arrecato ad essa si ripercuote in modo negativo su tutta la comunità. I campari hanno precisi obblighi: devono sempre restare a guardia delle loro camparie, a meno che una giusta causa non glielo impedisca, e non possono rimanere nel borgo senza licenza del Signore. Dal 1 Settembre al 1 Giugno l'obbligo riguarda solo il giorno, mentre "a calendis Iunii usque ad calendas Septembris teneantur et debeant stare in custodiam rerum campariae suae tam de die quam de nocte". Il campario, inoltre, non può' lavorare per altre persone, sotto pena di 5 soldi da pagarsi sia dal campario che da gli commissiona il lavoro (56). Se il campario trova qualcuno a far danni nella camparia di sua competenza deve informare il Signore, e le sue accuse non necessitano di prove. Ma se dette accuse risultano essere false egli deve "solvere bannum periurij, et expensas restituere accusato in triplo quas fecerit in se defendendo" (57). Se poi, verificatosi un danno, non riesce a fornire precise indicazioni per l'identificazione del colpevole, ne è possibile farlo tramite testimonianza di altra persona, tale campario è tenuto a rimborsare il danneggiato.

E' poi prevista dagli statuti (58), per il Signore (o il Visconte o il Rettore) di Cairo, la facoltà di eleggere delle guardie private "tot quot sibi placuerit" con il compito di accusare "omnes malefactores et devastantes quos viderint et invenerint in toto posse Carij": dette guardie possono essere deposte l'anno successivo. Questa carica, rivolta come pare ad assicurare una relativa tranquillità all'interno del Comune, sembra possa anche essere stata istituita per affiancare i campari nel loro lavoro quando situazioni contingenti lo richiedevano (passaggi di eserciti, carestie, etc. ).

In ultimo, riguardo a tutti gli ufficiali del comune, c'è un capitolo che regola la durata del loro mandato: "Item quod nullus officialis Communis Carij quod elligatur per hominem Carij possit habere officium aliquod in Cario, anno sequenti" (59).

2-2 Il diritto penale

I primi 19 capitoli degli statuti di Cairo prendono in considerazione le norme di diritto penale. Sappiamo dalla "chiusura" presente in fondo al libro, che nel 1353 tutti questi capitoli, insieme ad altri di diversa natura, vengono cassati. Se tutte le norme di diritto penale vengono abolite, viene spontaneo domandarsi dove risiede la ragione di questa decisione (60). Poiché tra il 1333, anno della prima stesura, e il 1353, anno della riforma, Cairo passa dalle mani del marchese di Saluzzo a quelle di Giovannone Scarampi, mi sembra sia cosa scontata dover andare a ricercare i motivi di questi cambiamenti proprio nel passaggio di "proprietà". Nessun documento ci aiuta però in proposito. Si può ipotizzare che gli Scarampi, una volta divenuti padroni del feudo di Cairo, abbiano deciso di amministrare personalmente la giustizia per la parte riguardante le cause penali, cassando di conseguenza gli statuti che prendevano in considerazione i reati ad esse inerenti.

Analizziamo ora in dettaglio il contenuto di queste norme: il primo capitolo prende in considerazione l'omicidio: chi uccide deve essere ucciso. Non sempre però è possibile catturare l'omicida, e allora tutti i beni del latitante vengono confiscati dal Signore e costui viene per sempre esiliato "de tota terra Dominorum". Prima, però, devono essere saldati eventuali debiti e restituita la dote alla moglie (61). Ma all'omicidio non sempre segue la condanna: se chi commette il fatto lo fa per difendersi non deve scontare alcuna tra le pene previste da questo o da altri capitoli. Segue poi un capitolo dedicato al brigantaggio. E' naturale trovare dedicato a quest'argomento un capitolo intero (anche se per la verità molto spiccio), poiché era questo un fenomeno molto diffuso nel Medioevo, e soprattutto in posti come la Valbormida, dove le strade si inoltravano per lunghi tratti in boschi molto folti, e dai quali era più facile portare attacchi a carovane e viandanti facendo poi perdere le proprie tracce. E' stabilito quindi che chi commette rapine o rapimenti su una strada pubblica sia condannato al pagamento di un'ammenda di 25 lire e al rimborso della vittima: a chi non può pagare, ne' rimborsare, venga amputato un piede o una mano ad arbitrio del Signore.

Puniti sono poi i rissosi. Chi interviene in una rissa con armi paghi 10 soldi se le estrae, e 5 se vi mette sopra la mano; naturalmente, e il capitolo lo precisa, è esente chi viene mandato dal Signore per sedare la rissa. Se in detta rissa, invece, qualcuno colpisce qualcun altro con un calcio o con un pugno dal collo in giù sia condannato al pagamento di 10 soldi, se invece "percusserit spalla superius si in capite seu facia, vel eum acceperit ad capillos, vel ad gulam", l'ammenda venga raddoppiata; 40 soldi è la somma che deve sborsare chi percuote un altro con un legno, un bastone o una pietra, e 5 lire se al malcapitato vengono rotte le ossa; chi non paga, secondo il solito rituale, perde un membro ad arbitrio del Signore. Più salate le multe per chi ferisce con armi da taglio: 60 soldi se non esce sangue ne' si rompono ossa, 25 lire in caso contrario (62), a meno che un testimone di provata fede non sia testimone delle legittima difesa. Multa di 50 lire (il doppio di quella prevista per l'omicidio) se in seguito a ferita la vittima perde una mano o un occhio; legge del taglione se il responsabile non può pagare.

I capitoli VI, VII e VIII sono invece dedicati ai furti.

Chi ruba denaro paghi un'ammenda in proporzione alla quantità della somma sottratta, e, naturalmente, se non ha soldi, deve sottostare ad una pena corporale: se l'ammontare della somma non supera i 10 soldi se la cava con la fustigazione e la marchiatura "in fronte cum ferro calido", mentre se il furto è relativo ad un importo superiore "amittas unum membrum" se viene preso, o venga esiliato in caso di latitanza.

Per il furto di cose l'ammenda è di 25 soldi, previa restituzione del triplo del valore del maltolto, mentre gli insolventi "personaliter puniatur in arbitrio Domini", anche se non è specificato come. I ricettatori, infine, vengono puniti con le stesse modalità dei ladri, a meno che l' "acquirente" non sia una persona di chiara fama che giura di non essere stato al corrente della provenienza illegale della merce. Tuttavia è tenuto a restituire l'oggetto e a ricompensare il derubato in ragione del triplo del valore della cosa rubata.

Dall'offesa materiale passiamo ora a quella morale.

Chi offende con epiteti tipo "proditus, latro, periurius", o altre parole ingiuriose paghi per ogni volta 10 soldi (63), e l'offeso possa "dismentiri licite et impune", ma se tali parole vengono pronunciate in presenza del Visconte o del Rettore, l'importo della multa sale a 60 soldi (64). Se poi l'insulto è rivolto a donne sposate con figli legittimi, o non sposate ma di buona fama, colui che lo pronuncia è tenuto a pagare un'ammenda di 20 soldi. Se ad insultare una donna onesta è invece un'altra donna onesta, la multa si riduce nuovamente a 10 soldi; ma se colei che insulta è donna di dubbia reputazione, l'importo lievita fino a 40 soldi (il doppio di quella prevista per gli uomini); e sempre siano fustigati gli insolventi (65).

Anche i falsari vengono severamente puniti.

Chi viene sorpreso a spacciare denaro falso paghi 25 soldi di multa se le monete non superano il valore complessivo di 20 soldi, e subisca l'amputazione di un membro se impossibilitato a pagare. Se il valore è invece superiore a 20 soldi "comburatur ita quod moriatur" (bruciato vivo!) (66). Una multa di 25 soldi, o il taglio della mano destra, sono poi le pene previste per chi gratta le monete d'oro (67). In una società dove le testimonianze, come abbiamo visto, assumono un'importanza rilevante, è naturale trovare precise norme tendenti a regolare questo istituto e a proteggerlo da abusi. Un'ammenda di 40 soldi paga chi giura il falso (68), e di 25 chi produce alla Curia false prove: taglio di un membro per chi non paga (69). Chi presenta invece un falso teste incorre in un'ammenda di 25 soldi, e se non paga "abscindatur ei lingua".

Naturalmente gli statuti non si dimenticano di punire anche chi redige falsi documenti: il notaio che viene accusato e riconosciuto colpevole di aver posto il suo "Signum Tabellionatus" in calce ad un documento non autentico, è condannato a pagare una multa di 50 soldi o, in caso di mancato pagamento, al taglio della mano destra e alla revoca della facoltà di esercitare (70).

Protetti erano i Cairesi dai commercianti disonesti: chi adopera falsi pesi o misure paghi una multa di 60 soldi. Il Signore, il Visconte o i Giuratori possono ogni mese controllare la regolarità di pesi e misure che devono essere "in Cario ad mensuram Savone"(71).

I piromani vengono puniti con la loro stessa arma. Se qualcuno non può pagare i 25 soldi di multa inflittigli perché sorpreso ad incendiare una casa in Cairo, venga egli stesso bruciato vivo(72).

Infine, per tutelare gli abitanti del Borgo tenendo sotto controllo chi va e chi viene, una precisa norma stabilisce che "nullus debeat intrare, vel exire de Castro vel de Burgo nisi per portas" (73).

Come abbiamo visto, le pene previste dalle norme di codice penale sono per la maggior parte corporali, miranti cioè non ad educare il cittadino, ma a scoraggiarlo con il timore di severe punizioni. E' ben vero che viene prima la pena pecuniaria, e che solo in un secondo momento, in seguito al mancato soddisfacimento, questa si commuta in pena corporale, ma è ancor più vero che tali ammende sono talmente elevate che solo le persone abbienti possono permettersi di pagarle. Ne scaturisce così un netto favoritismo verso le classi più elevate, che non dice però niente di nuovo di quella che era la mentalità di quei tempi. In nessuno di questi capitoli è poi previsto l'arresto come mezzo di punizione. Questo non deve stupire, in quanto nel Medioevo la detenzione era concepita solo come mezzo cautelativo, e mai come pena da scontare. Si riesce anche a cogliere, attraverso la lettura di questi capitoli, l'imperfezione degli organi comunali, che quando non riescono ad assicurare alla giustizia il diretto colpevole, tentano di colpirlo per via indiretta. Se viene catturato venga punito, ma "si capi non poterit", vengano requisiti tutti i suoi beni, e a farne le spese sono naturalmente i suoi famigliari. Allargando il discorso al diritto di rappresaglia, vediamo che questo ha proprio lo stesso scopo di coinvolgere più persone per assicurare alla giustizia i delinquenti.

Una certa maturità la ritroviamo invece nella determinazione delle cause e nella considerazione delle attenuanti: "si autem ad tutelam suam, vel defensione sui hoc fecerit", non sia costretto a nessuna pena. La recidiva non è invece, stranamente, presa in considerazione.

Agli stranieri è riservato un trattamento che definirei "civile". In un periodo in cui si vive in borghi protetti da grosse mura, e in cui lo straniero è spesso visto come un nemico, gli statuti di Cairo stabiliscono che una qualunque persona di una terra straniera che commette furti, omicidi, provoca danni, picchia o insulta, deve pagare l'ammenda in ragione del doppio di quella che pagherebbe un Cairese "tam secundum iura, quam secundum capitula et usantiam". Di contro è stabilito che la stessa giustizia che godono in terra straniera gli uomini di Cairo, deve essere resa in Cairo agli uomini di quella terra (74). Sempre in tema di stranieri c'è poi un capitolo che vieta a costoro di far pascolare le bestie e di tagliare legna "in possessione et finibus Carij", e per ogni situazione è prevista un'adeguata pena. Lo stesso capitolo ci informa chi deve essere considerato come straniero: "quilibet sit extraneus de Cario qui non habitaverit in Cario, vel posse Carij" (75).

2-3 - Il diritto civile

Dopo i primi 19 capitoli che prendevano in esame il diritto penale, incontriamo il primo capitolo di procedura civile.

Per snellire la burocrazia è subito stabilito che per le questioni di denaro, non sia dato "libellus", non sia cioè intentata una causa ne' sia fatta lamentela scritta, per somme inferioria 20 soldi, "sed summarie cognoscatur". Per debiti inferiori a 10 soldi, invece, è sufficiente il giuramento di un uomo di chiara fama con un teste anch'egli giurante, e in questo caso non ci sia possibilità di appello. Un ampio capitolo è poi dedicato ai "terminis causarum". L'attore deve presentare querela scritta per cause superiori a 20 soldi, e il querelato ha a disposizione 5 giorni di tempo per rispondere e per muovere le sue obiezioni ("exceptiones"), ma nessuna di queste deve comunque impedire il regolare svolgimento del processo. Trascorsi i 5 giorni, entrambe le parti hanno 6 giorni di tempo "ad faciendum positiones". Altri 6 giorni, trascorsi questi 6, sono ad entrambi concessi "ad faciendum intentiones et ad reddendo Curiae". Di nuovo 6 giorni sono il termine massimo "ad faciendum contratitulos". Trascorso questo tempo sono a disposizione di entrambe le parti 20 giorni per provare "quidquid probare voluerit tam per testem quam per instrumenta". Se succede che una delle due parti vuole controbattere tali prove, gli vengono concessi 10 giorni di tempo per farlo, e su questa "reprobatione" si possono fare "intentiones et contratitulos" ad arbitrio del Visconte. Dieci ulteriori giorni sono il tempo massimo "ad recipiendum scripturas et allegandum". Presentate tutte le scritture il Signore, o il Visconte, deve, entro otto giorni, emettere la sentenza, e sempre, fino alla sentenza definitiva, ci deve essere possibilità di appello. La richiesta di appello deve comunque essere presentata entro 10 giorni dalla sentenza (76). Una volta finita la causa è stabilito che il perdente deve sempre rimborsare al vincitore le spese da lui sostenute durante la causa stessa. Sempre in questo capitolo si precisa che nel conteggio per stabilire i giorni concessi alle due parti per le loro azioni non devono essere considerate le "feriae". E questi giorni sono: il giorno di Natale, fino all'ottavo giorno dopo la Pasqua, i giorni dei santi contemplati nel decreto, il tempo delle messi e delle vendemmie, e i periodi in cui i notai della curia sono impegnati in "exercitibus et cavalcatis" se la causa è presso uno di questi notai. Inoltre, i sopraddetti termini non hanno validità quando interviene un impedimento "iustum et evidens" (77).

Una volta emesso il verdetto definitivo il Signore, o il rettore, è tenuto a stabilire i termini per rendere esecutiva la condanna, non prima di 10 giorni e non dopo i 30.

I capitoli XXV e XXVI sono invece destinati a regolare gli appelli. Se qualcuno vuole appellarsi ad una sentenza definitiva riguardante beni mobili deve versare un'idonea cauzione ed assicurare davanti al Visconte la restituzione delle spese in caso di ulteriore sconfitta. La richiesta di appello deve essere presentata entro 8 giorni, e la causa definita entro 30. Per le liti che riguardano beni immobili la causa d'appello deve cominciare entro 10 giorni e finire comunque entro un mese: sempre vige l'obbligo di versare idonea cauzione. Non si deve tener conto, nel computo di questi giorni, dei periodi in cui il Signore è fuori dalla sua terra. E' infine precisato che non ci si può appellare ad una sentenza definitiva più di una volta. Una serie di capitoli è poi dedicata alla regolazione delle questioni che sorgono per problemi di debiti, le quali, a quanto pare, dovevano essere frequenti se consideriamo l'interesse con cui vengono trattate.

Chi non può restituire un debito per una somma superiore a 20 soldi deve essere arrestato e detenuto dal Signore, o esiliato dalla terra di Cairo, e questo sia a discrezione del creditore. Se il debitore è abitante di altra terra, deve invece essere arrestato e rimanere prigioniero fino a che non salda il suo debito. L'arresto deve essere effettuato dal Decano, ma se questi è impossibilitato a compierlo, allora il creditore può personalmente trattenere lo straniero, e in caso di resistenza può percuoterlo "licite et impune". Naturalmente il solo arresto non può soddisfare il creditore che in qualche modo deve essere rimborsato. Ecco allora che entrano in azione gli stimatori del comune che requisiscono i beni del debitore, li stimano e soddisfano in giusta misura il creditore. Può poi succedere che qualcuno chieda il pagamento di un debito già saldato: in questo caso, una volta provato l'avvenuto pagamento, il truffatore restituisca all'altro le spese sostenute per la causa e lo ripaghi con una somma pari al debito richiesto (78).

Nella maggior parte dei casi chi presta denaro chiede in cambio un pegno a garanzia dell'adempimento dell'obbligazione, e il capitolo XXXIII ci indica come ci si deve comportare in caso di mancata restituzione del denaro prestato.

Il detentore del pegno, in caso di inadempienza, deve citare il suo debitore di fronte al Signore, e quest'ultimo, ascoltate le parti in causa, può decidere di concedere al creditore la libertà di vendere il pegno, trascorsi dieci giorni, se vuole "suum extrahere". Se l'oggetto viene venduto ad un prezzo maggiore della somma dovuta, la differenza in eccesso deve essere restituita al debitore, mentre lo stesso debitore deve rimettere al creditore la somma mancante se il pegno è venduto ad un prezzo inferiore. Se poi non si trovano acquirenti in Cairo il detentore del pegno può portare l'oggetto dove vuole per venderlo. In materia di pegni c'è una rubrica che riguarda i masnenghi, i figli sottoposti all'autorità del padre, e coloro che vivono con un fratello maggiore (79). Questa norma stabilisce che chi riceve in pegno una qualsiasi cosa da uno di questi è tenuto a restituirla al legittimo proprietario, a meno che non l'abbia a sua volta data in garanzia ad un terzo, e questo deve sempre essere confermato, mediante giuramento, da un uomo "bonae famae". Se invece il testimone è un uomo "malae famae", e cioè un giocatore di azzardo, un ricettatore, un puttaniere, un ribaldo, o uno che permette in casa sua il gioco delle carte e dei dadi, allora il pegno sia immediatamente restituito al proprietario. Da questo capitolo veniamo quindi a conoscenza di due notizie "extra": sappiamo chi , a Cairo, è considerato uomo di mala fama, e che i masnenghi hanno una diminuita capacità patrimoniale.

Un ultimo capitolo stabilisce le pene nelle quali incorre chi, citato dal Decano della Curia, non si presenta entro il termine fissato "coram Domino". Per la prima volta paga 1 soldo di multa, per la seconda 2 soldi, per la terza 3 soldi, e se per la quarta volta non si presenta di persona o per procura, si proceda contro di lui come contumace e disobbediente. Le pene non hanno luogo se la causa dell'assenza è un giusto motivo o impedimento.

Veniamo ora alle tasse.

Oltre al fodro che, come abbiamo gi visto, è una tassa annuale da versare al Signore, il consiglio ha stabilito che chiunque abita a Cairo, "in domo propria, vel locata ad ignem cum catena, et qui de bosco, et aqua, et alij commoditatibus Communis usus fuerit", deve pagare al comune secondo le sue possibilità, e secondo ciò che gli viene imposto, e nessuno deve essere dispensato (80).

Due soli capitoli regolano l'istituto del matrimonio, ed entrambi riguardano la dote.

Una donna sposata e dotata dal padre, o dalla madre, o dai fratelli, non può chiedere altro dei beni della famiglia, purché abbia avuto per intero ciò che le spetta. E se non lo ha avuto può chiedere l'integramento, e non di più. Tuttavia, se il padre e la madre vogliono possono farle donazioni e lasciti, e se muoiono senza eredi la donna può chiedere di riscuotere l'eredità (81). In caso di morte di uno dei due coniugi ci si deve comportare come segue: se la donna muore prima del marito quest'ultimo è tenuto a restituire la dote ai famigliari della moglie, salvo il diritto a tenersi il letto matrimoniale e il corredo a quel letto pertinente, oppure, a sua scelta, tre soldi per ogni lira della dote. Se invece il marito premuore alla moglie, possa essa tenersi "unam gonellam, vel cotam, vel clamidem, et omnias bruclas, et camisias, et sistantineas, et omnia calciamenta". Moglie marito possono però farsi donazioni a vicenda e lasciarsi l'eredità "secundum quod ius Romanum postulat": è questo l'unico richiamo esplicito al diritto romano (82).

Relativamente ben definiti sono i rapporti tra vicini.

Se ci sono problemi per l'esatta definizione della linea di confine la questione viene risolta con l'intervento di uomini onesti che giurano di dichiarare tutto quanto è a loro conoscenza. A quello che essi stabiliscono devono attenersi i due confinanti (83). E vicino a questa linea di confine non si può lavorare la terra, ma deve essere rispettata una ben precisa distanza, la cosiddetta "cavezagna": tale distanza, che variava in generale nel diritto statutario piemontese da 8 a 12 solchi, corrisponde a Cairo a uno spazio di 10 solchi. Questa disposizione è certamente di ordine eminentemente pratico: tra due coltivazioni attigue rimane, così facendo, uno spazio di 20 solchi che permette il passaggio di carri e buoi senza incorrere nella eventualità di rovinare le colture (84). Anche i fossati non possono essere scavati vicino al limite di confine, ma il solco deve rimanere ad una distanza minima di "unum palmum cum dimidio ultra rectam lineam". Chi non rispetta tale disposizione paghi un'ammenda di 5 soldi e altrettanti ne rimborsi al vicino, e in ogni caso rifaccia il fossato alla giusta distanza (85). Il perché di una simile disposizione è probabilmente da ricercarsi nella volontà di far sempre rimanere, tra due poderi, una striscia di "terra di nessuno", così da limitare i motivi di litigio. Una precisa norma è relativa al cosiddetto "passo necessario": è stabilito che se una terra non possiede una via d'accesso, appositi ufficiali del comune, gli stimatori, devono provvedere a tracciarla, con l'eventuale supervisione del Visconte, e nessuna opposizione devono fare i vicini sui cui possedimenti detta via andrà a passare (86). Questo capitolo era stato abolito nel 1353, ma nel 1369 gli viene ridata validità. Dà da pensare il fatto che una norma di così grande importanza, che affonda le sue radici direttamente nel diritto romano, sia stata dichiarata nulla, anche se poi ripristinata. Si potrebbe pensare ad un errore, ma i 16 anni che intercorrono tra l'abolizione e la ratifica lasciano poco spazio ad un'ipotesi del genere. Probabilmente è stata effettivamente cassata nel 1353 e poi "rispolverata" perché una particolare situazione lo ha richiesto. Il capitolo precedente sancisce invece il diritto di passare sui terreni altrui quando il proprietario si rende colpevole del danneggiamento, o peggio, della deviazione di una strada pubblica impedendo il regolare transito. E' poi vietato deviare il corso naturale dell'acqua se ciò provoca danni al vicino o alle strade pubbliche (87): poche righe sono dedicate questo argomento che meriterebbe forse una trattazione più ampia. Probabilmente nella frase "quod aliquis non debeat deviare aquas cursu naturali per aliquem locum" sono sottintesi sia il caso in cui la deviazione fatta in un fondo superiore limita o impedisce lo scorrimento regolare del ruscello nel fondo inferiore, sia il caso in cui si porta l'acqua ad un terreno non adiacente al fiume, passando su altrui proprietà, senza informarne il proprietario e le autorità. A questo proposito l'ultimo capitolo degli statuti permette di far passare l'acqua sui terreni altrui quando non se ne può fare a meno, ma sancisce l'obbligo di rimborsare i proprietari secondo quello che stabiliscono gli stimatori del comune. A chi contravviene è comunque inflitta una multa di 5 soldi più il rimborso dei danni provocati. Sempre parlando di vicinato, è vietato piantare alberi ad una distanza inferiore a 10 tese dalla vigna del vicino, a meno che non si tratti di peri, meli, fichi, peschi o salici da vimini. In caso contrario, se il vicino crede che un albero possa arrecargli danno, chiama in causa "bonos homines ad hoc electos per curiam" che decidono se è il caso di sradicare l'albero, o se è sufficiente tagliare alcuni rami. E comunque il proprietario dell'albero deve essere sempre rimborsato (88). Segue poi una norma che impedisce di

tenere le siepi più alte di una tesa (89) se questa confina con il vicino, e, in caso di altezza irregolare, il Signore stabilisce l'entità dell'ammenda in proporzione alla misura in eccesso. Direttamente dal diritto romano deriva un ultimo ordinamento finalizzato a regolare i rapporti di un buon vicinato. Se una casa, o un muro, o una parete minaccia di crollare provocando sicuri danni al vicino, allora il proprietario deve dare garanzia di rimborso dei danni in caso di crollo. L'entità della cauzione viene, anche in questo caso, decisa dalla curia o da uomini di provata fede eletti dalle due parti un causa (90).

Detto questo chiudiamo con il commento di due norme di carattere generale.

Una prima disposizione stabilisce quando e come i minori devono pagare le ammende. I minori di dieci anni, ma maggiori di sette, sono tenuti in ogni caso a pagare metà dell'ammenda prevista per il reato commesso, ma per intero l'eventuale rimborso al danneggiato. I minori di sette anni sono invece dispensati dal pagamento dell'intera ammenda, ma devono sempre e comunque rimborsare il danneggiato (91). Un apposito capitolo ci informa invece quando è vietato a Cairo amministrare la giustizia. Questi periodi sono chiamati "feriae", e comprendono i seguenti giorni: dal 1 Luglio al 1 Agosto, otto giorni prima e otto giorni dopo la festa di S. Michele, la festa del Signore e della Beata Maria Vergine, la festa degli Apostoli, di S. Lorenzo, di S. Martino, di S. Nicola, del Beato Francesco e degli Evangelisti. Giorni di "feriae" sono poi tutte le domeniche. Però, in casi gravi, o se il Signore lo ritiene opportuno, è consentito fare delle eccezioni (92).

2-4 - L'agricoltura e la campagna

Non deve stupire il fatto che la maggior parte delle rubriche che compongono gli statuti di Cairo sia dedicata alla salvaguardia del patrimonio ambientale e alla regolazione dei rapporti fra i lavoratori della terra. Nonostante la fortunata posizione geografica che avrebbe potuto far pensare ad un forte sviluppo commerciale, Cairo è rimasto infatti un paese essenzialmente agricolo, e testimonianza ne sono, appunto, anche gli statuti. Non si discosta comunque in questo dai paesi dei dintorni, i cui statuti dedicano in percentuale un altrettanto cospicuo numero di capitoli all'agricoltura e alla campagna.

Una prima serie di rubriche, dalla LIX alla LXXIII, è dedicata, con una precisa analisi caso per caso, ai danni che gli animali possono provocare nei campi, negli orti e nelle vigne.

E' subito stabilito che si è tenuti a chiudere sempre gli orti "et alias possessiones consuetas" per due ben determinati motivi: innanzitutto perché le proprie bestie non escano dal recinto rischiando di provocare danni alle altrui coltivazioni; poi perché se una bestia entra in un orto, e lo rovina, il proprietario dell'animale non è tenuto a pagare nessuna ammenda se il suddetto orto risulta essere stato lasciato aperto.

Per i danni procurati l'ammenda varia da caso a caso: bisogna tener conto del tipo di animale, del periodo dell'anno in cui accade il fatto, se si verifica di giorno o di notte, e se la bestia è stata condotta di proposito sul podere di altri o se vi è entrata per errore.

Per quanto riguarda le vigne è stabilito che se un bue, una vacca, un cavallo o un mulo entra tra i filari, il proprietario deve pagare, dal 1 Ottobre al 1 Marzo, 1 soldo di multa se il danno è stato provocato di giorno, e 5 soldi se invece accade durante la notte. Nel periodo che va dal 1 Marzo fino al termine della vendemmia l'ammontare dell'ammenda passa a 5 soldi per il giorno e 10 per la notte. Pari all'importo della multa deve essere l'emenda, maggiorata però se maggiore è il danno causato. Raddoppia ogni multa se gli animali "studiose custodirentur". Nel caso invece di arieti, montoni ed ovini in genere, dal 1 Aprile fino a fine vendemmia, per infrazioni come sopra la multa è di 6 denari di giorno e 1 soldo di notte, mentre "in alio tempore anni" 4 denari di giorno e 8 di notte; se è un gregge, cioè un gruppo di almeno 10 animali, ad invadere una vigna, il pastore è tenuto a versare una somma pari a 10 soldi, se il fatto accade alla luce del sole, e a 20 se si verifica nelle ore notturne, per il periodo della vendemmia; rispettivamente 5 e 10 soldi per gli altri mesi dell'anno. Per maiali e scrofe la pena è di 1 e 2 soldi se da soli, e 5 e 10 soldi se in gregge durante la vendemmia; 8 denari e 1 soldo, e 3 e 6 soldi "postquam vinae erunt vindemiatae". "Canis vero, et catulus" paghino di giorno 2 soldi e di notte 4.

Leggermente più lievi sono le ammende comminate per animali trovati a far danni nei campi coltivati. Se il "colpevole" è un becco, un ariete, un montone o un qualsiasi ovino la multa varia da 4 denari a 5 soldi a seconda dei casi sopra analizzati, e il rimborso arriva ad un massimo di 10 soldi. Resta fermo il fatto che se l'invasione è volontaria l'importo dovuto raddoppia. Se invece maiali o scrofe entrano in un campo coltivato pagano 4 denari di giorno e 1 soldo di notte, ma se sono più di sei, ovvero un gregge, la multa sale a 3 e 6 soldi. Pari alla multa deve essere il rimborso al proprietario, aumentato comunque in proporzione al danno. "Bos, vel vacha, vel alia bestia grossa" paga invece 1 soldo di giorno e 2 di notte e altrettanti "pro emenda": il doppio se trattenuto volontariamente. E il doppio ancora se l'infrazione si verifica in un periodo compreso tra il 1 Marzo e il 1 Ottobre. Se l'animale che calpesta le zolle è una bestia dispersa, il padrone è tenuto a pagare solo il minimo della pena, ma per intero il rimborso, e gli sia creduto mediante giuramento se è un uomo "bonae famae". Gli stranieri invece devono comunque pagare 5 soldi di multa.

Passibili di punizione sono anche gli animali che entrano nei prati altrui. Se si tratta di animali grossi, e se il danno è provocato quando l'erba è già stata tagliata, fatta seccare e portata via la multa è di 1 soldo per le invasioni diurne e di 5 per quelle notturne; sempre il doppio in caso di dolo. Riduzione della pena per gli ovini: 4 denari per il giorno e 6 per la notte per i solitari, 3 e 5 soldi per i greggi. Caso a parte è sempre quello dei maiali, ai cui padroni costano 4 denari se scorazzano per i campi durante il giorno e 8 se preferiscono le passeggiate notturne: in più, "si rumaret", 6 denari. Se a rovinare il seminato è invece un intero gregge la multa sale a 2 soldi per il giorno e il doppio per la notte.

Equamente considerati sono porci e bestie piccole quando vengono sorpresi a girovagare nei castagneti durante il periodo della raccolta: 6 denari per i singoli e 5 soldi per i gruppi. E' però stabilito che "si vero quis voluerit tenere manualem suum porcum, vel porcam, unum, vel plures in suo proprio castagneto tenere possit cum uno custode", ma se uno di questi entra in un altro castagneto le multe raddoppiano. Per i danni provocati dalle bestie grosse l'entità delle ammende è uguale a quella prevista per i guai procurati nei prati.

Abbiamo visto che campi, prati, vigne e castagneti sono ben tutelati, e che i padroni devono stare ben attenti a non farsi scappare le bestie se non vogliono pagare salate multe. Ma se adeguatamente protette sono le coltivazioni, non ci dimentica degli animali, elementi altrettanto preziosi nell'ambito di un'economia essenzialmente agricola. Il capitolo LXXI vieta, infatti, di percuotere le bestie trovate a far danni nel proprio podere, e stabilisce come ci si deve comportare in simili occasioni: se si conosce il padrone bisogna, una volta allontanato l'animale dalla coltivazione, rintracciarlo per restituirgli la bestia, e muovergli regolare accusa per essere rimborsati; se invece si ignora a chi appartiene la bestia in questione, si è autorizzati a portarsela a casa e a tenerla fino a che il legittimo proprietario non si fa vivo per riprendersi l'animale e rimborsare il danno. Un trattamento di favore è poi riservato alla bestie lattanti: "quod bestiae lactantes non solvant bannum minores sex mensibus" (93). Multe salate per chi uccide bestie non sue: "si quis studiose interfecerit, vel sbudelaverit, vel arrotaverit" un bue, un cavallo, un mulo o un asino paghi un'ammenda di 40 soldi e rimborsi il doppio del danno, e se li ferisce una multa di 20 soldi (94). Se la vittima è un animale di piccola taglia la multa scende a 5 soldi se muore, e a 2 se viene solo ferita. Però "sit licite percutere, et occidere" i cani trovati nelle vigne dopo che l'uva ha iniziato la sua maturazione (95).

Una lunga casistica è riservata ai danni procurati alle coltivazioni dalle persone. Furti di alberi, di rami, di legna secca, di uva, di frutti; incendi provocati nei boschi, nei prati, nelle vigne e negli orti sono solo alcuni dei reati per i quali è prevista un'elevata ammenda.

Ma analizziamoli con ordine.

Innanzitutto sono praticati severi controlli, e se presso qualcuno viene ritrovato un albero, domestico o selvatico, costui è tenuto a giustificarne il possesso e ad indicarne la provenienza, e se non è in grado di farlo deve pagare una multa e rimborsare colui che dimostra essere detto albero suo (96). Sono previsti 10 soldi di multa, più il rimborso dei danni, per chi rovina o taglia castagni, e altrettanti per chi taglia, sradica, brucia o rovina alberi domestici "ignorante dominus cuius erit": metà di detto importo se l'albero è selvatico, e un soldo per ogni ramo tagliato. Chi rovina una quercia incorre nella stessa pena prevista per gli alberi domestici se la quercia produce frutti, "si vero non fructiferam, vel allevatam solvat bannum pro ut in capitulo de arboribus selvaticis" (97).

Multe salate e pene corporali sono previste per chi rovina le viti. E' obbligato a sborsare 5 soldi chi taglia da 1 a 5 viti, 40 soldi per un numero compreso fra 5 e 10, e 5 lire se la quantità è ancora maggiore. Chi non può pagare sia esiliato da Cairo e marchiato in fronte con un ferro caldo. Oltre le 15 viti, per gli insolventi, la punizione prevede il taglio di un membro (98). Severamente puniti sono anche i furti commessi nelle vigne: chi è sorpreso in una vigna senza permesso dal 1 Agosto fino a vendemmia finita paghi di giorno 2 soldi, e se ruba uno o più grappoli 5 soldi; di notte, invece, sia che rubi o meno dell'uva, paghi 60 soldi. Se il ladro è poi un capofamiglia paghi in ogni caso 60 soldi (99). Per chi entra con l'intenzione di asportare pertiche, o pali, o altro "in toto anno" gli statuti prevedono un multa di 5 soldi se il ladro è sorpreso di giorno, e di 20 se il furto avviene di notte. Nelle vigne è poi sempre vietato portare via l'erba (100).

Punito è anche il ladro di messi e di legumi, e anche in questo caso con particolare severità. L'entità dell'ammenda varia a seconda della quantità della merce rubata, e, come sempre, in relazione al furto diurno e a quello notturno. Come nel caso delle vigne per gli insolventi sono previste severe punizioni corporali: per i ladri, sia diurni che notturni, che non possono pagare la multa prevista, la punizione consiste nella fustigazione per terra e la solita marchiatura a caldo sulla fronte. Il capitolo sottolinea poi che i minori devono pagare solo metà dell'ammenda (101).

Fonte di vita e di lavoro sono i boschi, e fonte di guai per chi non si comporta secondo le disposizioni emesse dal consiglio. Da 2 a 10 soldi variano le ammende per chi taglia legna, verde o secca, nei boschi altrui in proporzione alla quantità tagliata: 2 soldi "pro faxe", 3 soldi "pro somata", 5 soldi "pro cavallata" e 10 soldi "pro carrosata". Permessa è invece la raccolta di "spinas, carpenos, collectas, obinos et zeneveros" (102). Da evitare la raccolta di foglie per non correre il rischio di dover pagare multe altrettanto salate: da 2 a 20 soldi "et tantum plus quantum esset damnum" e la perdita delle foglie raccolte.

Puniti, infine, sono i furti di frutti e ortaggi. Chi coglie indebitamente castagne, ghiande, mele, pere o altri frutti di giorno deve sborsare 5 soldi, e di notte 10. Se però i frutti sono raccolti per terra sulla strada la pena è ridotta. Per il furto di ortaggi in genere sono previsti 5 soldi di multa se di giorno, e 20 se di notte, e comunque deve pagare 2 soldi chi entra senza permesso nell'orto di altri.

Un'ultima particolarità va sottolineata in merito ai danni alla "campagna". Un intero capitolo precisa che sei danni sopra elencati sono commessi in un bosco, in una vigna, in un campo o in un orto appartenente ad un "frater minor", le ammende vengono praticamente raddoppiate, "et quilibet bonae famae possit esse accusator, et habeat tertiam partem banni".

2-5 Attività commerciali

Mugnai, fornai, macellai e tessitori sono le sole categorie commerciali delle quali gli statuti di Cairo si occupano. Questo non deve portare all'affrettata conclusione che fossero le uniche attività del paese: erano semplicemente le più coinvolte nei contatti quotidiani fra i cittadini, e questo giustifica la precisa regolamentazione riservatagli. Stupisce invece l'assenza di un capitolo atto a regolare il servizio dei tavernieri.

<< Nella città come nel villaggio, la taverna è il centro sociale per eccellenza. E siccome il bere scalda gli spiriti, la taverna contribuisce fortemente a dare alla società medievale il tono appassionato, le ebbrezze che ne fanno fermentare ed esplodere la violenza interiore >> (103). In queste poche parole di Le Goff si riesce a cogliere la grande importanza che aveva la taverna nella vita medievale come centro di aggregazione e di ritrovo. Inoltre la taverna fungeva, oltre che da osteria, anche da "trattoria con alloggio". E' veramente inspiegabile, quindi, una tale lacuna nei nostri statuti. Si potrebbe pensare ad un capitolo non riportato nelle copie, ma risulterebbe forzato voler credere ad uno stesso errore commesso da due mani diverse. Tutti gli esercenti un'attività commerciale devono "iurare ad Sancta Dei Evangelia corporaliter, tactis scripturis, in presentia Vicecomitis Cari, et iuratorum Communi" di fare il loro lavoro bene e con coscienza.

Più in particolare, il mugnaio deve tenere il mulino pulito ed in ordine, e macinare il grano a tutti coloro che ne fanno richiesta, e farlo in maniera conveniente. Se sottrae parte del grano portatogli alla macina, o se per qualunque altro motivo la quantità di macinato è inferiore a quella dovuta, è tenuto a rimborsare il padrone (104).

I fornai hanno l'obbligo di rimborsare chi porta il pane a cuocere nel loro forno se brucia, o in qualche modo si rovina, e di insegnare a chi vuole imparare a cuocere il pane in buona fede e "sine fraude, remoto odio, timore, amore, pretio vel aliqua causa". Se poi succede che una persona brucia il pane a causa degli insegnamenti sbagliati del fornaio, quest'ultimo è tenuto a pagare una multa di 5 soldi e a rimborsare il pane perduto. E' inoltre stabilito che il fornaio non deve riscaldare il forno con la propria legna se non gli viene espressamente richiesto, sotto pena di 5 soldi; incorre nella stessa pena se usa più legna del dovuto. Per evitare che il pane venga rubato o rovinato è ordinato che nessun estraneo può entrare nel forno e rimanervi se non per portare legna, alimentare il fuoco, portare o levare il pane, aiutare il fornaio o il proprietario del pane: 1 soldo di multa è previsto per i contravventori. La ricompensa per il lavoro è decisa dal Comune: 1 denaro per ogni staio di pane cotto, e comunque non più di 3 denari per ogni infornata. Il fornaio che chiede di più paghi 5 soldi di multa, e chiunque può muovere l'accusa e abbia la terza parte di detta somma (105).

Sotto severo controllo è anche lo spaccio della carne. Ogni macellaio deve macellare "bene et sufficienter" almeno tre volte la settimana, la domenica, il martedì e il giovedì, sotto ammenda di 10 soldi, e vendere detta carne al prezzo stabilito dai Giuratori. E' assolutamente proibito "inflare cum ore" la carne: 60 soldi è la somma che deve sborsare chi contravviene (106). Infine, il macellaio deve vendere nel suo macello solo la carne da lui stesso macellata, e solo se autorizzato direttamente dai Giuratori, di fronte ai quali deve prestare giuramento ogni anno la domenica delle Palme. D'altro canto il Visconte deve ogni anno, la domenica della Passione, far bandire dal precone per il borgo di Cairo, che se qualcuno vuole fare il macellaio per tutto l'anno seguente deve presentarsi e giurare come sopra. Un breve ordinamento interessa indirettamente la vendita della carne: è disposto che il proprietario di un animale deve seppellirlo immediatamente quando questi muore. Quest'obbligo, dettato principalmente da motivi di carattere igienico, tende anche ad evitare che la carne di animali morti per cause sconosciute venga messa in vendita, con il rischio di danni alla salute per la popolazione (107). La parte che riguarda i tessitori (e le tessitrici) si limita a sottolineare che nessuno deve "texere in Cario tellas lineas, vel laneas nisi primo iuraverit in presenzia Vicecomitis et Iuratorum Carij" entro il 1 febbraio, e che è proibito prendere e tenere per sé, o per altri, le tele fatte o che si stanno facendo. C'è anche un accurato "listino dei prezzi" riportato per in maniera incompleta da entrambe le copie: a questo listino ci si deve fedelmente attenere e non è consentito chiedere ne ricevere come ricompensa farina, lardo, pane, grano, pece o qualunque altra cosa che non sia il denaro previsto (108).

Le attività artigianali non sono prese direttamente in considerazione, probabilmente perché l'artigianato non rappresenta una voce così importante nell'economia del paese. Ho detto direttamente perché in realtà la stesura del capitolo CXXXVIII implica l'esistenza di una fiorente attività per la lavorazione del legno. E' stabilito infatti che per ogni oggetto di legno lavorato venduto ad un estraneo, o comunque portato fuori dal borgo, è obbligatorio versare una precisa cifra al Comune. Per ogni ruota di carro la tassa è di 4 denari per le ruote vuote, e 2 per quelle piene; per ogni "reversatore" 3 denari; per ogni aratro 2 denari; per ogni "timono" 1 denaro; 1 denaro anche per ogni "pertica aratri et reversatori . Per ogni staio di legna 2 denari, e 1 denaro per ogni "mina" e ogni "quartario". Sempre 1 denaro per ogni "12 assellarum pectinorum".

Ci sono due capitoli che non riguardano il commercio in particolare, ma più che altro la compra-vendita in generale, che per comodità riassumerò molto brevemente in questo paragrafo, anche se il contenuto non rispecchia propriamente l'argomento trattato.

Il capitolo XXXVII stabilisce che qualunque contratto riguardante beni mobili, o immobili fatto toccando la merce e dicendo le parole "vestra sint" o frasi simili, deve rimanere "firmum et stabile". In caso di inadempienza di una delle due parti il Signore o il Rettore indaghino, "sine libello et alia solemnitate iuri", come effettivamente sono andate le cose.

Alquanto curioso è il capitolo CXLIII: se qualcuno sta comprando uno staio di grano o di biada, una gallina, un'oca, una pecora, una pernice, del pesce o qualunque frutto, e qualcun'altro lì presente dice di volerlo, costui è obbligato a vendergliene la metà al prezzo che l'ha pagata. Non solo: se le persone interessate alla cosa acquistata sono più di una, l'acquirente è tenuto a dividere la merce per due, per tre, per quattro fino a che è possibile farlo. Chi non rispetta questa disposizione incorre in un'ammenda di 1 soldo se il valore della merce è inferiore ad 1 soldo, e di 5 soldi se il valore è maggiore.


21) Arch. St. To., Langhe-Inv., MAZZO I, 1
22) A. PERTILE, Storia del diritto italiano, pag. 91
23) Statuti, cap. III
24) Statuti, cap. XXV
25) Statuti, cap. XXV
26) Statuti, cap. XXVIII
27) Statuti, cap. XXX
28) Statuti, cap. XXXII
29) Statuti, capp. XIV, XV, XIX
30) Statuti, cap. XX
31) Statuti, cap. XLII
32) Statuti, cap. LXII
33) Statuti, cap. L. A Savona il bestemmiatore subiva una punizione simile: "Teneatur Potestas fecere ei abscindi bragherium et demergi in mari". (Statuti di Savona, Libro II, cap. XXXXVII). A Carcare era prevista una multa per la prima volta, la berlina per la seconda, e la lingua trafitta con un chiodo per la terza (Statuti di Carcare, cap. XXXI). A Millesimo la punizione si limitava alla berlina (Statuti di Millesimo, cap. CXVIII)
34) Statuti, cap. LII
35) Statuti, cap. LXXII
36) Statuti, cap. CXXXIX
37) Statuti, cap. CXXXIX
38) Statuti, cap. CIX
39) Statuti, cap. CXVIII
40) Statuti, cap. CXXVIII
41) Statuti, cap. CXXVIII
42) Statuti, Chiusura
43) Statuti, cap. XCIV
44) Statuti, cap. XVI
45) Statuti, cap. LXXXI
46) Statuti, cap. XCIV
47) Statuti, cap. XCVI
48) A. PERTILE, o.c. pag. 126
49) Statuti, capp. XII, XIII
50) Statuti, cap. XXXV
51) Statuti, cap. XXXVIX
52) P. TORELLI, Studi e ricerche di diplomatica comunale, pagg. 99-100
53) P. TORELLI, Studi e ricerche di diplomatica comunale, pag. 184
54) Statuti, cap. XXXII
55) Arch. St. To., Langhe-Inv., Mazzo I, 1
56) Statuti, cap. LXXXVIII
57) Statuti, cap. LXVII
58) Statuti, cap. LXXXVIII
59) Statuti, cap. XLVIII
60) Ottengono riconferma solo i capitoli inerenti ai furti di prodotti agricoli
61) Gli statuti non ci dicono come avveniva l'esecuzione. Poichè molte delle pene previste erano simili a quelle in vigore a Savona, possiamo supporre che agli assassini fosse riservata la stessa sorte. A Savona il Podestà puniva così l'omicida: "Faciam suspendi vel interfici, aut caput ascindi, si potero ipsum habere, et si ipsum habere non potero, guastari faciam et dissipari omnia bona ipsius ..... et insuper forestabo ipsum de Saona et posse in perpetuum" (Statuti di Savona, Libro II, cap. I)
62) La stessa cifra era prevista a Savona, così come la legge del taglione (Statuti di Savona, Libro II, cap. II)
63) Statuti, cap. IX. A Savona la multa era di 20 soldi (Statuti di Savona, Libro II, cap. XXVIIII)
64) Statuti, cap. IX. La stessa cifra era prevista a Savona (Statuti di Savona, Libro II, cap. XXIX)
65) Statuti, cap. X
66) A Millesimo era previsto il taglio della testa indipendentemente dal valore della moneta (Statuti di Millesimo, cap. CXXX)
67) Statuti, cap. XI. A Savona era prevista la stessa pena pecuniaria, ma gli insolventi erano condannati alla marchiatura a caldo, al taglio del naso, e all'esilio perpetuo (Statuti di Savona, Libro II, cap. XXXVI). Il taglio della mano era la punizione inflitta a Millesimo (Statuti di Millesimo, cap. CXXX)
68) Statuti, cap. XIII
69) Statuti, cap. XIV
70) Statuti, cap. XVI. Uguale era la pena a Savona (Statuti di Savona, Libro II, cap. XXXVI)
71) Statuti, cap. XVII
72) Statuti, cap. XVIII. A Savona l'ammenda era ugualmente di 25 soldi per danni superiori a 100 soldi, mentre si riduceva a 5 soldi per un valore inferiore. Solo l'esilio era contemplato per gli insolventi (Statuti di Savona, Libro II, cap. XIIII)
73) Statuti, cap. XLIX
74) Statuti, cap. XXVI
75) Statuti, cap. LXXXV
76) A Savona erano concessi al massimo 5 giorni (Statuti di Savona, Libro II, cap. XXXXIII), a Millesimo 10 (Statuti di Millesimo, cap. XXXI), e a Carcare 8 (Statuti di Carcare, cap. XII)
77) Statuti, cap. XXII
78) Statuti, cap. XXVIII. A Millesimo il rimborso doveva essere pari al doppio della somma indebitamente richiesta (Statuti di Millesimo, cap, . XXXIX)
79) Statuti, cap. XL
80) Statuti, cap. XLI
81) Statuti, cap. XLVI
82) Statuti, cap. XLVII
83) Statuti, cap. XXXII
84) Statuti, cap. LVIII
85) Statuti, cap. LXXXVII
86) Statuti, cap. LXXIX
87) Statuti, LXXXVI. Lo stesso divieto era imposto a Millesimo (Statuti di Millesimo, cap. CIII)
88) Statuti, cap. IC
89) Questa misura corrispondeva circa all'apertura delle braccia
90) Statuti, cap. LXXX
91) Statuti, cap. LXXVII
92) Statuti, cap. XXX
93) Statuti, cap. LXXIII
94) Statuti, cap. CXI
95) Statuti, cap. CXII
96) Statuti, cap. LXXXXVI
97) Statuti, cap. CIX
98) Statuti, cap. CVII. A Millesimo era previsto l'esilio (Statuti di Millesimo, cap. LXXXXIV)
99) Statuti, cap. CIII
100) Statuti, cap. CIV
101) Statuti, cap. CII. La stessa pena era inflitta a Millesimo (Statuti di Millesimo, cap. CVIII)
102) Statuti, cap. CI
103) J. LE GOFF, La civiltà dell'Occidente medievale, pag. 337
104) Statuti, cap. CXXI. Anche a Savona l'ammenda era di 5 soldi (Statuti di Savona, Libro I, cap. LXXXIII)
105) Statuti, cap. LXXXXIII. Lo stesso a Savona (Statuti di Savona, Libro I, cap. LXXII)
106) Statuti, capp. CXXII, CXXIV. A Savona l'ammenda era di 100 soldi, ed era previsto l'esilio per gli insolventi (Statuti di Savona, Libro I, cap. LXXV)
107) Statuti, cap. CXXXIII
108) Statuti, capp. CXXV, CXXVI