A tavola con i Del Carretto - Capitolo I - Agricoltura (cereali, legumi, orto, alberi da frutta)

Agricoltura

Parlare di alimentazione significa parlare, anzitutto, di agricoltura e di tecniche agricole. La coltivazione dei campi ha consentito all'uomo, fin dalla preistoria, di ottenere, su piccole porzioni di terreno, una quantità di cibo impensabile ed irraggiungibile con la semplice raccolta dei frutti spontanei delle piante selvatiche. Con l'addomesticamento e la selezione delle piante, i risultati ottenuti vengono migliorati, anche se le rese sono ancora, come vedremo, ben lontane da quelle attuali.

Nel Medioevo, tuttavia, i prodotti agricoli che si coltivano sono limitati e ruotano attorno al binomio cereali-legumi, a cui vanno aggiunti i prodotti dell'orto, un appezzamento di terreno molto importante, su cui dovremo soffermarci in modo particolare.

I cereali

È quasi superfluo sottolineare l'importanza che i cereali hanno avuto nella storia della alimentazione umana: il ritrovamento in Egitto di grano risalente a circa 7.000 anni fa ne è la prima, esplicita testimonianza .

La Val Bormida non sfugge ovviamente a questa regola e i cereali costituiscono uno dei cardini della alimentazione del tempo. Come abbiamo già notato, la produzione agricola è strettamente condizionata dai capricci del tempo: così l'abbondanza o la scarsità di pioggia possono influire drasticamente sul raccolto e ancora peggio possono le gelate invernali, specialmente se scarseggia la neve. Le colture agricole, e nella fattispecie quelle cerealicole, non sono derrate sicure e una delle preoccupazioni costanti del contadino del Medioevo è quella di cercare di attenuare gli effetti catastrofici delle possibili carestie, specie in una economia chiusa come era quella medioevale dove difficilmente si potevano avere soccorsi dai territori vicini: l'autosufficienza alimentare è tanto più determinante quanto meno la famiglia dispone di mezzi finanziari per potere acquistare gli alimenti. I contadini imparano perciò a diversificare il più possibile le proprie produzioni, in modo che, se il gelo ha distrutto un raccolto, un'altra produzione possa fornire un parziale, ma determinante, sostentamento. Le coltivazioni cerealicole vengono dunque abitualmente suddivise in due categorie: la "invernengha" (di semina autunnale) e la "marzengha" (di semina primaverile). Questo accorgimento ha un doppio vantaggio: da una parte aumenta la probabilità di ottenere almeno un raccolto dall'altra consente al contadino di suddividere il tempo della aratura - operazione piuttosto lunga e faticosa con i mezzi del tempo - in due periodi diversi, anziché concentrare tutto il lavoro in autunno, una stagione particolarmente condizionata dalle avversità atmosferiche.

Troviamo parecchie citazioni di questa suddivisione anche in Val Bormida: così gli statuti di Calizzano stabiliscono che nessuno potrà essere rimosso da massaro di un terreno "se priam non haverà levato e preso tre raccolte, cioè due invernenghe e una marzengha, ò due marzenghe e una invernengha" (1). Sempre a Calizzano, nelle Convenzioni del 1444, si stabilisce che vengano pagate le decime nella misura di "duodecim sextarium de vuernenchis, e mercenchis"; anche negli Ordini e Capitoli di Osiglia e Bormida (1634) si distingue tra grano, segale e Marsenghi, distinzione che si ritrova ancora negli statuti di Dego (1620), dove si citano separatamente messi, legumi e marsenghi (2),

Oltre a queste sono molte le citazioni riguardo ai cereali che si trovano nei documenti dei nostri archivi: siano essi Statuti, cartolari di notai o le tante liti, proteste, suppliche che costellano la storia dei nostri antenati.

Da questi documenti possiamo anche dedurre la distribuzione prevalente dei vari cereali sul nostro territorio. E, se a Bardineto ed Osiglia la produzione cerealicola sembra limitarsi al frumento ed alla segale, già a Calizzano si aggiunge l'orzo. Ad Altare, Pallare e Dego troviamo in prevalenza grano e biada, mentre a Millesimo, Roccavignale e Cairo sono presenti tutti i cereali già citati, segno che si tenta la massima diversificazione, ricercata anche attraverso la semina di misture di cereali come il "barbagliato" - misto di grano e segale - che si trova ricordato nel libro dei conti della Compagnia del Suffragio di Biestro (3).

Con un'altra distinzione tipica del medioevo questi cereali sono chiamati i "grani grossi" - di prevalente semina autunnale - da cui si differenziano i "grani minuti" - il miglio, il sorgo, la spelta, il grano saraceno - che invece sono di semina primaverile o addirittura tardo-primaverile. Nei documenti che ho avuto modo di consultare scarse sono le citazioni di questi "grani minuti" se non nella generica forma di "marzenghi", denominazione che però qualche volta nasconde anche alcuni legumi, che si seminano appunto in primavera. Quasi certamente però, se non tutte, almeno alcune di queste granaglie venivano coltivate nei nostri campi medioevali. Il miglio, ad esempio, è stato un alimento diffusissimo nel Medioevo, sia perché nella alimentazione occupava quel posto che fu poi preso totalmente dal mais, sia perché si poteva facilmente conservare per molti anni (anche 20), costituendo una riserva alimentare su cui si poteva contare nei tempi di carestia(4). La presenza del miglio in Val Bormida è comunque testimoniata da un documento un poco più tardo (1706) rinvenuto nell'Archivio comunale di Millesimo e che si riferisce ad una lunga lista di danni provocati dal passaggio di ottocento Grigioni spagnoli che, tra l'altro, rubano appunto del miglio (5). Nello stesso documento poi, si trova anche un'altra citazione interessante: tra i prodotti danneggiati dai soldati spagnoli compare anche il termine "meliche", che potrebbe essere la prima testimonianza dell'arrivo del granoturco in val Bormida (in dialetto "moria"), cosa possibile visto che siamo nel XVIII secolo. Più probabilmente il termine si riferisce ad un'altra granaglia: il sorgo o saggina, che si ritrova spesso citata sotto il nome di "melega" o "milica", usata già al tempo dei romani principalmente come foraggio per gli animali; essa veniva però anche macinata per farne scadente farina usata per confezionare pane e polente per poveri e miserabili.

Un'altra possibile presenza in val Bormida è quella del farro, un cereale simile alla spetta, elassifieato come sotto specie del frumento, di cui non si è trovata testimonianza diretta nei documenti consultati, ma che G.L. Scavino ricorda ancora coltivato agli inizi di questo secolo in Acquafredda (Millesimo) e usato come ingrediente essenziale di una minestra tradizionale (6).

L'ultimo "grano minuto" citato - il grano saraceno - non è in effetti un cereale, ma appartiene alla famiglia delle Poligonacee, così come l'Acetosa, un'erba dal gambo rossiccio piuttosto comune nei nostri prati. Il grano saraceno è stato molto popolare nel Medioevo soprattutto nelle zone di montagna dove si sostituisce ai cereali, producendo un seme trigono, nerastro e lucente che macinato serve per produrre polente e per integrare altre farine nella panificazione. Pur non avendo trovato riscontri obiettivi nei documenti, è possibile ipotizzare la presenza di questa granaglia almeno nella parte alta della valle, per il semplice motivo che il grano saraceno è coltivato ancora oggi nella confinante val Tanaro (dove viene chiamato "furmentin") che ebbe contatti continui con Calizzano e Bardineto. In particolare a Garessio il grano saraceno entra ancora come componente nella famosa "polenta bianca", che è anche piatto tipico di Calizzano. È quindi piuttosto logico che a tradizioni culinarie comuni corrispondano comuni prodotti agricoli (7).

La presenza dei cereali in val Bormida è dunque piuttosto composita: è preminente però la coltivazione del frumento e della segale, con una prevalenza forse di quest'ultima. La segale, infatti, benché sia un cereale di minor qualità del grano, è di più facile coltivazione, adattandosi meglio ai climi di montagna e soprattutto crescendo egualmente bene anche nei terreni poveri e selvatici come quelli delle "roncate", cioè dei campi ricavati dal disboscamento; ma occorre tenere presente che anche nei normali campi la concimazione è sempre molto scarsa e quindi il terreno è, comunque, piuttosto povero.

La segale pare dunque essere la regina dei cereali: da sola o mista al frumento costituisce la principale fonte di farina da panificazione; possiamo perciò immaginarci il pane del tempo che doveva essere di colore scuro e di sapore meno delicato di quello di grano. Certamente ai valbormidesi dell'epoca doveva sembrare molto gustoso, specialmente se confrontato con i pani della fame, quando si usavano farine di ogni tipo: da quelle di castagne a quelle di sorgo e di ghiande tostate e macinate (8).

La segale in Val Bormida è però importante anche per un altro motivo: sfruttando la lunghezza dei suoi culmi si fanno dei fascetti di paglia con i quali si eseguono le coperture dei tetti che, in tal modo, risultano leggere e nello stesso tempo impermeabili e durevoli. Rari sono infatti i tetti a coppi e anche quelli a scandole di legno che sono presenti in prevalenza nella parte alta della valle; in ogni caso si può capire la cura con cui negli statuti si vieta di portare "bragie accese" in giro per il paese: una sola scintilla può infatti innescare incendi praticamente incontrollabili. Un effetto meno positivo la segale lo da' a causa di un suo parassita, un fungo, che provoca il fenomeno della segale cornuta, cioè la formazione di corpiccioli nerastri al posto dei grani della spiga. L'ingestione delle spore di questo fungo causava l'ergotismo, una malattia, ben nota già nella antichità con il nome di "ignis sacer", che provocava prima atroci dolori, allucinazioni, bruciori e poi la cancrena con la conseguente caduta degli arti colpiti, che diventano neri, proprio come se un fuoco nascosto li avesse consumati. Alla cura di questa malattia si consacrò l'Ordine degli Ospedalieri di S. Antonio, alle cui reliquie fu attribuito il potere miracoloso di guarire da questo male, ribattezzato appunto "fuoco di S. Antonio". L'ordine degli Ospedalieri si espanse in tutta l'Europa tra il Xll e il XIV secolo e la sua presenza è probabile anche in Val Bormida, visto che il co-patrono della parrocchia di Millesimo, e il titolare di una parrocchia di Murialdo, è appunto S. Antonio Abate o "S. Antoni di purzé" (S. Antonio dei maiali) come veniva comunemente chiamato. Questa curiosa denominazione deriva dal fatto che S. Antonio, essendo anche il protettore degli animali domestici, è sempre raffigurato con accanto un maialino, fatto che la dice lunga anche sulla importanza di questo allevamento in epoca medievale.

La presenza di questa terribile malattia è comunque certa e testimoniata dalla formula di giuramento scelta a Calizzano, e riportata nei locali statuti, in cui si invocava, in caso di spergiuro, che "hor hora Nostro Signore mandi sopra di me il fuoco di S. Antonio, che m'abbruggi e consumi", segno che il male era ben conosciuto e temuto come una maledizione di Dio (9).

Un altro cereale molto diffuso in Val Bormida è l'avena o biada come viene comunemente chiamata in statuti e documenti, anche se questo termine non sempre pare indicare solo l'avena, ma anche, genericamente, gli altri cereali.

L'avena è comunque un cereale che, come la segale, si adatta bene ai climi freddi ed inoltre può essere facilmente coltivata nei terreni roncati da poco, in quanto non necessita di arature profonde; è perciò particolarmente indicata per il tipo di agricoltura che si praticava al tempo in val Bormida.

Il suo scarso rendimento in farina ne limita la coltura e ne fa preferire l'uso, sotto forma di grani e paglia, per l'alimentazione animale, anche se è probabile che, nei momenti critici, venga convogliata ai mulini, assieme agli altri "grani", per la macinatura.

Bisogna a questo punto precisare che questa denominazione "grani", spesso usata nei documenti medievali, è piuttosto ambigua, in quanto non rappresenta sempre solo il frumento, ma comprende sovente altre granaglie ivi compresi, a volte, anche i legumi. Abbiamo conferma di questo, ad esempio, in una ordinanza del Conte Nicolò Del Carretto, datata 30 Aprile 1596, dove si vieta "agli Uomini e Particolari di Millesimo di andare a macinare grani ed altri frutti alli molini d'altri...": la frase ci suggerisce chiaramente che ai mulini si macinava una larga gamma di prodotti; certamente cereali e legumi, ma anche altri frutti tra i quali doveva certamente comparire la castagna secca, la cui farina veniva utilizzata in vari modi, non esclusa la confezione del pane, il "pane d'albero", come veniva chiamato nelle regioni montuose della Corsica (10).

Il passo citato ci rende noto anche un altro fatto: che i millesimesi, utilizzando "molini d'altri", tentavano di evadere le tasse di molitura, da sempre riservate al Signore locale, che traeva da esse le sue entrate principali. Il capitolo tasse e balzelli che abbiamo aperto non si conclude certo con la tassa sulla molitura; sui prodotti dei campi gravano anche regalie varie (e per niente spontanee) e soprattutto le "decime", il prelievo cioè di una parte della produzione da devolvere al Signore o all'Autorità ecclesiastica che ha giurisdizione sul luogo.

A Santa Giulia di Dego queste tasse consistono in 1/10 degli animali e dei cereali, e in 1/20 per i legumi e per il vino (11). A Calizzano nelle Convenzioni del 1444 vengono stabilite le decime sugli animali e una tassa annuale sui cereali, finalizzata al sostentamento degli uomini a guardia del borgo. Ricorrenti sono dunque le proteste e le suppliche con cui si chiede di attenuare questa pressione fiscale su una popolazione che è in costante crescita, mentre rimangono più o meno costanti le superfici coltivate. Forse questo fatto, forse un maggior potere contrattuale delle popolazioni - mentre il potere feudale sta indebolendosi - porta, almeno nei due casi citati, ad un allegerimento delle esazioni: per Calizzano questo avviene nel 1481, quando vengono mantenute solo le tasse dovute alla chiesa di Santa Maria; il Marchese si accontenta, invece, di un paio di galline per ogni "ressia" (segheria), da versarsi a Natale. Per S. Giulia il salto di qualità avviene prima e già nel 1434 le decime rimangono tali solo per gli animali, mentre i prelievi passano ad 1/16 sui cereali, ad 1/32 per i legumi e ad 1/30 sul vino.

Tuttavia al di là di queste pesanti tasse, il vero problema della agricoltura medioevale è quello del rendimento delle coltivazioni che si mantiene ancora ad un livello troppo basso, a causa anche delle tecniche agricole inadeguate, nonostante la rotazione delle colture sia passata dalla cadenza biennale a quella triennale. L'appezzamento di terreno di ciascun contadino viene diviso, infatti, in tre parti e ognuna di queste è destinata nel volgere di tre anni a tre colture diverse. Una parte viene seminata in autunno con specie invernali (frumento e segale); un'altra in primavera con specie estive (orzo, avena, legumi), la terza arata a maggese e lasciata a riposo. L'anno successivo le specie invernali passano nella zona precedentemente destinate alle specie primaverili, mentre quest'ultima resta a riposo. Questo schema sarebbe stato sufficientemente equilibrato in presenza di una abbondante concimazione, cosa che, invece, non poteva verificarsi in un'epoca in cui gli allevamenti degli animali erano tutti allo stato brado. Questo equilibrio si raggiungerà solo nel XVIII secolo, quando la rotazione agraria diventa quadriennale: aggiungendo alle precedenti coltivazioni una quarta parte coltivata a prato, si rende possibile anche l'allevamento stanziale all'interno della azienda agricola. Si viene così a rompere l'antica contrapposizione tra agricoltura ed allevamento, che possono ora integrarsi fornendo l'una il foraggio per gli animali e l'altro il concime per rendere più fertili e produttivi i campi. Nel periodo che stiamo considerando invece si è ancora in questo circolo vizioso a cui si cerca di ovviare con letami succedanei costituiti da concimi verdi, foglie marcite, cenere o con il sistema della fornellatura, come si prescrive negli statuti di Calizzano (12). In quasi tutti gli statuti della val Bormida si proibisce esplicitamente di raccogliere il fogliame altrui, che veniva usato come strame per gli animali e trasformato in nutrimento per i campi. Che il letame poi sia un bene prezioso lo si può dedurre dagli statuti di Bardineto e Dego, in cui si regolamenta addirittura la raccolta dello sterco che gli animali lasciano nelle strade: ognuno lo può raccogliere solo davanti alla sua proprietà e fino a metà della via, lasciando l'altra metà al dirimpettaio (13). A Calizzano l'ingresso di animali "forestieri" nei prati è consentito solo se il proprietario deve concimarlo per poi poterlo destinare a campo.

Anche l'aratura dei campi non è molto efficace: l'aratro è ancora piuttosto primitivo e praticamente graffia solo il terreno. L'aratro con il vomere - il "reversatorem" o reversatorio, come si trova negli statuti di Pallare e Bardineto - si sta diffondendo, ma non è ancora di uso comune, anche perché occorre più forza animale per trainarlo, mentre pochi possono permettersi un cavallo od un mulo, ed al bue è preferita la vacca che dà anche vitelli e latte (14), Per tutti questi motivi le rese dei campi sono molto scarse, specie nelle nostre valli già di per se penalizzate dal clima rispetto alle più fertili pianure. Le stime più ottimistiche non assegnano, almeno nell'Alto Medioevo, rendimenti superiori al tre per uno, il che significa che seminando un quintale di grano se ne ottengono - al massimo - tre, ma più spesso il rendimento scende a 1,7 per 1, cioè non si raddoppia neppure la semente (15). Un poco migliori sono le rese nel sec. XV, che pare si attestino - sempre nelle condizioni più favorevoli - attorno al 5 per 1. Se a questo si aggiunge il fatto che le sementi del tempo non erano selezionate e producevano quindi chicchi meno numerosi e più piccoli, si può capire la ricorrente paura della carestia: bastava un'annata cattiva e, per sopravvivere, bisognava consumare anche la semente per l'anno seguente, innescando un processo che proiettava lo stato di carestia anche negli anni successivi all'evento disastroso.

I legumi

L'altro polo a cui si deve necessariamente fare riferimento per il grande ruolo che ebbe nella alimentazione del Medioevo, è quello dei legumi: i grandi fornitori di proteine a basso costo, indispensabili specialmente per i poveri che non si possono permettere l'allevamento. Nell'epoca considerata, la carne tende a diventare un alimento più raro sulle mense e riservato solo a particolari giornate festive come i matrimoni od il battesimo dei figli (vedi ad es. gli statuti di Calizzano) ed i legumi assumono maggiore importanza presso una fascia più larga della popolazione.

I legumi sono stati già citati come una delle produzioni "marzenghe"; abbiamo visto come sovente i documenti li confondano con gli altri grani primaverili anche perché, come questi, diventano sostitutivi dei cereali nelle annate scarse. La farina tratta dai legumi entra allora a far parte delle farine panificabili, seguendo un costume già in uso al tempo dei Romani e che abbiamo visto adottato anche per il miglio, le castagne e le altre granaglie minori. I legumi sono certamente diffusi in tutta la val Bormida: in tutti gli statuti, nei cartulari dei notai e in vari altri documenti, i legumi sono sempre citati almeno sotto la voce generica, ma sovente si citano anche i nomi specifici. Così, ad esempio, a Calizzano nei documenti del notaio Francesco Alaria si trovano spesso transazioni e contratti riguardanti ceci e fave (16); a Mallare, negli "Ordini e bandi campestri" del 1617, si stabiliscono le pene per il furto di un "custo di cizeri verdi" e di ogni "tea d'arbilia" (notare i termini dialettali) (17); a Dego nel 1620 si seminano "erbellias", "vecias", "lupinos", "cicera", "fabe" e "lentigie" (18). L'elenco più completo dei legumi che probabilmente si coltivavano in val Bormida lo troviamo però negli statuti di Cairo del 1604 dove sono citati: "ciceri", "arbilie", "cicergie", fiaba", "vecia", "lintiglias" e "lupinos", cioè ceci, piselli, cicerchie (una specie di cece, ma più piccolo), fave, vezze, lenticchie e lupini (19). Sembrerebbe proprio, dal posto occupato in questo elenco e dai riferimenti prima riportati, che la coltivazione più diffusa fosse quella del cece, cosa che potrebbe spiegare anche la persistente presenza mantenuta nella cucina ligure della farina di ceci, che è l'ingrediente essenziale di due piatti tipici come la "farinata" e la "panizza". La minestra di ceci, tradizionale ancora oggi nel giorno dei morti, è un piatto molto popolare, specie quando l'uccisione del maiale fornisce cotiche e ossa per insaporire questa gustosa vivanda, che viene consigliata anche dai medici del tempo purché il cece usato sia quello dalla pelle rossa, ricercato perché gli si attribuiscono qualità epatoprotettive e perché è di gusto più fine (20), In val Bormida i legumi presentano una maggiore varietà nella parte bassa della valle, Cairo e Dego, rispetto alla parte alpina in cui si trovano citati solamente ceci e fave. Queste ultime dovevano essere di due varietà diverse: a pelle bianca e nera. Per questa particolarità, a Cairo, esse vengono usate, durante le votazioni segrete, al posto delle apposite biglie colorate.

Nell'elenco dei legumi prima riportato si possono individuare anche alcune coltivazioni non più in uso come quelle dei lupini e delle vezze, che servivano essenzialmente per l'alimentazione animale. Questi due legumi venivano seminati a pieno campo in alternanza con i cereali, anche perché si era notato che questo serviva a rinvigorire il terreno, cosa che verrà molto più tardi spiegata scientificamente con l'azione dei batteri azotofissatori associati ai legumi. L'antica coltivazione delle vezze ad uso animale viene curiosamente ricordata in una massima locale che viene ripetuta ai bambini che a tavola fanno gli smorfiosi: "Quandi i curombi i son sevli, anche er vezze i pois amore" (Quando i colombi sono sazi, anche le vezze sembrano amare).

Un discorso particolare lo dobbiamo fare per i piselli, che possiamo identificare nella parola "arbilia" o "erbillia", una parola antica che si trova già citata in un testo anonimo del X secolo - il "Miraeula Sanati Colombani" - dove si parla di "legumen Pis, quos rustici Herbeliam voeant"( 21). La forma popolare per pisello è passata anche nei nostri dialetti dove si è conservata praticamente uguale nella forma moderna "arbia", con le uniche eccezioni di Osiglia e Calizzano dove i piselli sono chiamati "lemmi".

Per concludere il discorso sui legumi occorre soffermarci ancora un momento su un legume che in effetti non compare mai nei documenti citati: intendo parlare del fagiolo; un legume che più di ogni altro oggi identifica il mangiare rustico e povero. La cosa comunque non deve stupire: all'epoca, di fagioli se ne conosce una sola specie e per di più poco importante sul piano alimentare. Sono i "fagioli dell'occhio", così detti per la caratteristica macchia nera posta al punto di inserzione del funicolo embrionale( 22). Tutte le altre specie di fagioli che oggi conosciamo giungono in Spagna dalle Americhe dopo i viaggi di Colombo. Dalla Spagna si diffondono in Europa e, non a caso, una comune varietà di fagioli viene ancora oggi conosciuta col nome popolare di "fagioli di Spagna". Nel periodo considerato la coltivazione dei fagioli, già presente ad esempio in Toscana, non è evidentemente ancora giunta nelle nostre valli o vi è presente solo a livello sperimentale.

L'orto

Tra tutte le terre coltivate l'orto ha una importanza del tutto particolare, sia per la sua diffusione - ogni casa ha il suo orto - sia per la cura che viene prestata a questo appezzamento di terreno. L'orto gode infatti di una caratteristica singolare: i suoi prodotti non sono mai soggetti a canone, cioè al prelievo di una parte di essi per il Signore; per l'orto al massimo si pretendono delle regalie: una gallina o qualche altro prodotto - normalmente da versarsi a Natale - che si possono interpretare più come una conferma dei diritti del Signore, che non vere e proprie tasse. Inoltre questo pezzo di terreno non è pignorabile insieme a poche altre cose (casa, vestiario, maiale, attrezzi agricoli, catena e paiolo) ritenute indispensabili per la sopravvivenza quotidiana (23).

L'orto è dunque una specie di zona franca da far fruttare al massimo, in quanto tutto ciò che vi si produce è di esclusiva proprietà di chi lo lavora. La gente trae da esso una parte notevole del proprio sostentamento, ad integrazione dei cereali e dei legumi su cui abbiamo visto gravare prelievi, decime e tasse di macinazione. È comprensibile perciò che all'orto vengano riservate cure particolari, anche perché è collocato in prossimità delle abitazioni e soprattutto delle stalle, con il cui letame è concimato abbondantemente, cosa che rende l'orto molto fertile e che consente rese che possono, una volta tanto, essere paragonate con quelle attuali.

L'orto è anche una proprietà chiusa, privata, difesa normalmente dalle recinzioni che è proibito asportare e superare, come possiamo verificare nelle generali norme statutarie che sanciscono all'uopo severe pene. All'orto ci si rivolge normalmente per il cibo quotidiano e ancora di più nei periodi di carestia quando cereali e legumi scarseggiano. Non ci dobbiamo stupire, a questo proposito, se le cronache del tempo parlano spesso di gente ridotta a cibarsi di "erbe e radici" in quanto i prodotti dell'orto sono divisi appunto in queste due categorie, a seconda se la parte commestibile è sopra o sotto al terreno. Non dobbiamo quindi pensare a gente raminga intenta a brucare erba come gli animali, ma a persone che si arrangiano a sopravvivere sfruttando al massimo i prodotti ortivi, che sono divenuti l'unico cibo possibile (24).

Già al tempo di Carlo Magno, nel "Capitolare de villis", si elencano ben 72 tipi di piante - alimentari e medicinali - che dovrebbero costituire l'orto ideale.

Tuttavia è molto improbabile che un simile orto sia mai esistito, a maggior ragione nelle nostre valli, dove è anzi probabile, per motivi sia pratici che climatici, che il numero degli ortaggi coltivati fosse piuttosto limitato. Non ci sono molte citazioni in questo senso: si parla genericamente di "hortaglia" e al massimo si citano le rape, che però sono spesso seminate in campo aperto. Solo negli statuti millesimesi del 1580 si citano esplicitamente "caulinas, caulos et rapas", cioè "gabuggi" (forse il cavolo cappuccio), cavoli e rape, che evidentemente erano le uniche produzioni di un certo rilievo in Millesimo (25). Il cavolo, in particolare, è sempre stato considerato il "re degli ortaggi"; alcuni testi addirittura gli attribuiscono ampie proprietà medicinali e con esso si confezionano molte delle minestre e delle zuppe dell'epoca. La rapa, invece, occupa quel posto importantissimo che sarà poi della patata, tanto che Bartolomeo Platina vi dedica un intero capitolo del suo libro "De honesta voluptade et valetudine" (1467), in cui mette in evidenza sia i modi di cottura della rapa (lessa, sotto cenere, fritta nel grasso), che le sue proprietà terapeutiche. La rapa può essere anche essiccata e in questa veste viene facilmente conservata e costituisce una scorta di cibo per le minestre invernali (26). Assieme a questi prodotti possiamo dare per certa l'esistenza nei nostri orti della onnipresente triade - agli, cipolle, porri - che sono da sempre il classico cibo delle persone umili, ma che servono anche per insaporire minestre e pietanze normalmente piuttosto sciapite (27). Un altro ortaggio presente negli orti valbormidesi era la zucca che poteva anche lei essere essiccata: in questa veste la troviamo, nel 1648, ordinatamente registrata dal massaro tra le entrate della Compagnia del Suffragio di Biestro. Oltre alle zucche si può, con una certa attendibilità, ipotizzare la presenza negli orti valbormidesi di qualche tipo di insalata, delle bietole e forse anche della carota, che si presenta di colore violaceo o giallastro, sostituita solo nel XVIII secolo da quella arancione, ottenuta selezionando mutanti della carota violetta ed a questa preferita perché cuocendo non cambia il suo colore (28). Presenti sono sicuramente anche alcune piante aromatiche - le spezie dei poveri - quali la salvia, il prezzemolo e forse anche il basilico, quest'ultimo notoriamente divenuto ingrediente base del pesto, la più tipica delle salse liguri.

Gli alberi da frutta

Attorno agli orti, ai margini delle vigne, nei campi troviamo qualche volta alberi da frutta. Quando il campo viene venduto, essi vengono citati perché fanno aumentare il valore del terreno: come i due alberi di mele che il notaio Franceschino Alaria registra in un atto del 1519 dove Bertino e Mariola Ripa di Murialdo vendono a Tommaso Odella, sempre di Murialdo, un terreno campivo e a vigneto in regione "la Costa" (29),

Di atti del genere sono costellati i cartulari dei notai operanti in val Bormida: gli alberi da frutta si presentano quasi sempre isolati, senza raggiungere la consistenza del frutteto, facendo intuire una coltura marginale e scarsamente importante dal punto di vista economico. Forse è la difficoltà a conservare la maggior parte della frutta che sconsiglia di piantare alberi in quantità maggiori di quelle necessarie per l'autoconsumo o per il commercio in ambito locale. La frutta è consumata soprattutto dal ceto contadino, che da essa trae l'essenziale apporto vitaminico.

I nobili, consigliati anche dai medici del tempo, snobbano questo alimento considerato povero e ad esso preferiscono la frutta secca o quella esotica, che è uno degli "status symbol" dell'epoca. Ciononostante le leggi cercano di stimolare la coltura degli alberi da frutta introducendo delle norme che, come ad Altare, impongono a ciascuno "di piantar o far piantare una giornata di vigna et arbori di pome, pere et altri frutti, secondo la sua possanza" (30). Sempre al Altare gli statuti si occupano di un'altra coltura, quella delle prugne, che doveva qui avere una certa importanza tanto che ad esse viene dedicata la rubrica specifica "Delli Brigni", nella quale, oltre a vietare di battere i frutti per i maiali, si vieta anche di "tagliare le Brigne d'altri allevate". Questa parola, in particolare, fa pensare ad una coltura di prugne domestiche, forse addirittura a dei frutteti. È però questo l'unico accenno ad una coltivazione organizzata, se si escludono ovviamente le vigne ed i castagneti da frutto, di cui parleremo più avanti. Normalmente gli alberi erano posti ai margini dei campi e spesso sui confini tra due proprietà. A dirimere le inevitabili liti sulla raccolta dei frutti devono intervenire quasi tutti gli statuti, sancendo salomonicamente che ciascuno può raccogliere i frutti caduti sul proprio terreno e sui rami pendenti sino al proprio confine: regole che la consuetudine ha reso valide ancora oggi. In particolare, è ai margini delle vigne che troviamo il maggior numero di alberi da frutto. Anzi, a Millesimo, fanno da supporto vivo per le viti, che vi si arrampicano sopra, ottimizzando così lo sfruttamento dello scarso terreno delle fasce. Anche a Dego troviamo lo stesso abbinamento alberi da frutto - vigne, ai bordi delle quali compaiono le "persiche", le ormai mitiche pesche da vigna, alberi selvatici dai frutti piccoli, ma profumati e saporiti. Ancora a Dego troviamo l'elenco più particolareggiato dei frutti presenti nelle campagne, fra questi, oltre alle pesche, troviamo pere, mele, prugne, fichi e anche ghiande, considerate qui un bene di proprietà esclusiva (31). Da notare anche l'unica citazione che abbiamo riguardo ai fichi, una pianta particolarmente adatta ai terreni sedimentari (tufacei, diremmo localmente) della parte appenninica della valle. Alberi di fico compaiono spesso tra i muri a secco delle fasce e i frutti vengono seccati e, conservati in reste, compaiono sulle tavole durante le feste, soprattutto quelle natalizie, assieme all'altra frutta secca - nocciole, mandorle e noci - che si riesce a produrre localmente.

Gli alberi di noci sono un'altra presenza costante nel panorama valbormidese: sono nominati ad Altare, ma anche negli statuti di Osiglia e Bormida, dove il capitolo "De non damnificando alienum nuces" ci rende noto che queste piante erano tenute in particolare considerazione. La produzione delle noci non è infatti vista solo sotto l'aspetto del consumo del frutto secco - che entra come ingrediente anche in saporite salse - ma soprattutto per la produzione di olio che si ottiene dai preziosi gherigli. È stata ancora una volta l'ossessione della autosufficienza alimentare che ha portato alla produzione di quest'olio succedaneo di quello di oliva, che non poteva essere prodotto localmente per le difficili condizioni climatiche.

Sono soprattutto i monasteri - ricordate il manzoniano fra Galdino? - che stimolano e favoriscono la produzione di olio destinata anzitutto ad alimentare la lampada che giorno e notte deve essere accesa nelle chiese a testimonianza della presenza divina. Per evitare che manchi la materia prima, si raccolgono le noci dalle quali si estrae, in piccoli frantoi, un olio denso e piuttosto torbido che, negli anni di abbondanza, entra certamente anche nella dieta alimentare. La produzione di questo tipo di olio doveva essere comunque molto scarsa; si può perciò ipotizzare che esso non sia stato mai un condimento troppo popolare (32).

La vigna

Un'altra coltivazione, in un certo senso collegata alla presenza della chiesa, è quella delle vigne, che sono costantemente presenti vicino ad ogni monastero. La presenza del vino fra le due specie che servono per celebrare l'Eucarestia, obbliga ad essere forniti di questo prodotto, la cui carenza è intollerabile: scatta anche qui la molla dell'autosufficienza. Si introduce la vite anche in terreni e climi che non sono affatto adatti alla sua coltura, si accettano rese scarse e risultati improbabili, pur di assicurare una minima produzione. E dove i contadini nicchiano ci pensa l'autorità ad obbligarli: così ad Altare come a Calizzano, dove tra le convenzioni del 1481 se ne stipula una con la quale i calizzanesi si impegnano a piantare, "pro qualibet foco, ad minus unam cavariatam vinae", con decime a favore dell'Altare della chiesa di Santa Maria "iuxta antiquas et solitas consuetudines".

Le vigne sono comunque presenti in tutta la val Bormida, con la sola eccezione forse di Bardineto. Troviamo accenni alle viti da Pallare a Dego, da Altare a Cairo, ad Osiglia e Murialdo, per non parlare di Roccavignale, il cui stesso nome rivela ampiamente quale fosse la coltura principale. Distrutte dalla filossera, condizionate negativamente dai cambiamenti di clima ed infine vittime dell'abbandono delle campagne, le viti non sono più di nessuna importanza nella economia della vallata. La vigna sopravvive qua e là grazie al lavoro di pochi appassionati, quasi un reperto archeologico di una attività che ha interessato la nostra valle per quasi due millenni (33). Il vino che si produce nel Medio Evo non è legato solo al fenomeno delle molte taverne esistenti: esso si può conservare facilmente ed entra nella dieta quotidiana delle persone come vero e proprio alimento. Debitamente annacquato, il vino viene consigliato dai medici persino nella dieta dei bambini, con la funzione di fornire indispensabili energie (34). Le vigne sono dunque un valore da difendere e tutti gli statuti presentano norme al riguardo. Ci soffermeremo, per una breve analisi, sugli statuti millesimesi del 1580, che sono al riguardo i più completi, ma analoghe norme si trovano già negli antichi statuti di Millesimo e Cosseria del XIII secolo

Come possiamo dedurre da un catasto tardo-quattrocentesco e ritrovato nel locale Archivio comunale, le viti a Millesimo occupano vaste aree, soprattutto sopra il borgo e verso il castello di Cosseria (35): esse sono la coltura principale di gran parte delle fasce poste sulla collina. Qualche volta troviamo le viti a filari, più spesso sono coltivate ad "alteni": vengono cioè appoggiate ad altri alberi, ad esempio quelli da frutta, su cui esse si arrampicano sfruttandoli come sostegni vivi. È un sistema tradizionale, soprattutto in aree in cui il terreno è scarso e deve essere sfruttato al massimo. Una selva di leggi proteggono la vigna da ogni tipo di danno sia esso provocato dagli animali o dall'uomo. Severe le norme che proibiscono l'accesso alle vigne degli animali: bovini, capre, muli, asini e soprattutto i temuti maiali pagano multe salatissime, specialmente se il danno avviene di notte, quando tutte le pene vengono raddoppiate. Una curiosa norma, che si ritrova anche negli statuti di Pallare e Dego, riguarda persino i cani, puniti per danni che possono dare alle vigne, specie se sono sorpresi "sine sonalino", cioè senza il campanellino che segnali la loro presenza. Dalle vigne altrui non si può portare via proprio niente, nemmeno le foglie, e tantomeno l'uva, a meno che non si tratti di un grappolo o due, nel qual caso la pena è molto leggera. Ma se si va oltre i quattro grappoli, specie se trovati "in saculo, vel gremio aut alio vase", il reato si aggrava sino a venire considerato furto se il tutto avviene nottetempo. L'accusa di furto era, allora, un'imputazione molto grave: la apposita rubrica "De furtis" prevede infatti che: "Chi ruba qualcosa di valore maggiore di un fiorino, se non ha da pagare sia frustato per tutto il Borgo di Millesimo e marchiato in fronte con ferro ardente, e se non può essere catturato, venga bandito dal territorio di Millesimo e se poi pervenisse nei forti delI'III. Sign. Conte sia punito come sopra". Più o meno le stesse pene vengono minacciate anche a coloro che fossero trovati a sradicare le viti o a rubare magliuoli già radicati. Queste pene crudeli sono allora considerate l'unico deterrente ai reati: devono perciò essere pubbliche e pesanti, specie per i poveri che "non avendo niente nell'aria", cioè non avendo nulla da sequestrare, devono "espiare nel corpo come sopra".

Attraverso gli statuti di Millesimo possiamo anche conoscere uno dei vitigni coltivati all'epoca. La citazione, che è l'unica in tutti i documenti consultati, si riferisce ad un vitigno particolare, che produce un'uva molto dolce e profumata: si tratta del Moscatello, un vitigno molto famoso in Liguria, per il cui furto gli statuti sanciscono pene raddoppiate (36), Il Moscatello ligure ebbe una lunga vita che cominciò a declinare verso la fine del secolo scorso, per poi sparire definitivamente sotto gli attacchi della filossera. Una labile traccia di questa coltivazione è rimasta, quasi inconsciamente, in un modo di dire millesimese: per indicare una cosa speciale, con caratteristiche particolari, ancora oggi si usa l'espressione "a l'è muscatella", con chiaro riferimento a quella speciale uva medioevale (37).

Un'altra traccia, che potrebbe indicare un modo diverso di utilizzare l'uva, la troviamo negli statuti di Pallare dove si proibisce di asportare dalle altrui vigne uve "agreste", cioè acerbe.

Se da un lato questa può essere una norma di salvaguardia analoga a quella emanata a Millesimo dal Conte Domenico Del Carretto (38), tuttavia pare singolare che si rubassero uve ancora immature per vinificare. Più probabilmente con questa uva si produceva un'altra sostanza: il sapore d'agro o "agresto", un condimento molto diffuso nella cucina medievale e rinascimentale.

Secondo lo storico della gastronomia Emilio Faccioli, l'agresto si otteneva miscelando succo di uva acerba e un pizzico di sale alI'interno di un vaso che veniva esposto al sole per due a tre giorni. L'agresto, così ottenuto, veniva usato normalmente al posto dell'aceto, rispetto al quale presentava una minore acidità ed un gusto più delicato (39).