L'allevamento è una attività umana che si perde nella notte dei tempi, anzi è stata certamente una delle prime attività dell'uomo primitivo, quando da nomade divenne stanziale su un territorio. Anche in val Bormida l'allevamento inizia con i primi nuclei abitati, benché sia ipotizzabile che i territori adiacenti alla costa fossero oggetto di un allevamento stagionale limitato alla buona stagione con svernamento degli armenti nelle zone più vicine al mare. Una connessione questa che nel Medioevo continuerà con i contratti di "socida", mediante i quali persone della costa affidavano per uno o più anni gli animali a pastori locali (per lo più di Bardineto e Calizzano) con cui dividevano gli utili (40).
In alcuni studi condotti in zone diverse - ma i cui risultati sono comparabili - si è notato che il numero dei capi allevati tende ad aumentare quando la popolazione diminuisce e viceversa. Così successe, ad esempio, dopo lo spopolamento dovuto alla peste nera nella prima metà del XIV secolo, quando gli animali diventano più numerosi, mentre nel secolo seguente, ripopolatosi il territorio, i capi di bestiame iniziano a diminuire. Come abbiamo già notato, agricoltura ed allevamento si contendono lo scarso terreno disponibile: le coltivazioni conquistano terreni da tempo immemorabile votati all'allevamento, ma sono a loro volta minacciate, e sovente invase, dagli armenti e dalle greggi costrette in territori sempre più limitati. In tutti gli statuti, nei capitoli e ordini sui danni campestri, troviamo meticolose regolamentazioni, che stabiliscono variegate pene ed ammende, se un animale, o peggio un gregge, è sorpreso a danneggiare i raccolti. È, però, importante rilevare che il legislatore, con grande senso pratico, cerca sempre di salvare capra e cavoli, dal momento che, se da una parte impone forti multe per il danno subito, dall'altra si preoccupa che gli animali - bene altrettanto prezioso del raccolto - non vengano feriti e tantomeno uccisi; a volte si proibisce persino di percuoterli, per evitare quasiasi tipo di danno. Anche il cane, fedele aiuto nella guardia degli animali, è salvaguardato, nonostante possa aggredire le persone e arrecare danni alle uve mature (41). Norme al riguardo troviamo negli statuti di Dego e Bardineto: in questi ultimi poi si va persino a sindacare se la percossa inferta al cane lo abbia colpito nella parte anteriore o in quella posteriore, e, in questo se condo caso, poiché il cane stava evidentemente fuggendo, il percuotitore è passibile di multa (42). Solamente per i piccoli animali galline, pollastri, anatre - è consentito un intervento più deciso che per le oche prevede addirittura l'esecuzione sommaria sul campo "senza restituzione di danno o emenda" come recitano lapidariamente gli statuti di Millesimo, Pallare e Altare (43).
Questa differenza di trattamento si evidenzia anche nel diritto di decima dal quale sono normalmente esenti gli animali minuti, che al massimo concorrono a formare le regalie offerte ai Signori nelle feste natalizie (44).
Con il termine "animali grossi" gli statuti denominano, normalmente, i mammiferi - bovini, suini, ovini, equini - che vengono allevati abitualmente in val Bormida. L'unica eccezione è rappresentata dagli statuti cairesi che invece considerano pecore e capre appartenenti agli "animali minuti", termine che abitualmente comprende solo gli animali da pollaio e cioè galline, anatre ed oche (45). Possiamo ritenere che i due tipi di allevamento più importanti fossero quello dei bovini e quello dei suini, anche se abbastanza diffuso dovevano essere pecore e capre. Collegato al problema dei trasporti era l'allevamento degli equini, fra cui primeggiavano muli ed asini, mentre molto rari dovevano essere i cavalli. Il fatto che bovini e suini fossero determinanti per la sopravvivenza è facilmente comprensibile: i primi forniscono la forza motrice per il lavoro nei campi ed anche latte e carne, i secondi sono la riserva di proteine e grassi per l'alimentazione popolare. Ben opportunamente il legislatore si preoccupa di specificare, in due distinti casi, che questi beni non sono pignorabili: così a Millesimo, dove il creditore non può rivalersi sul bue del debitore; così a Calizzano, dove il maiale è salvaguardato nell'elenco di beni franchi che comprende anche l'orto (46).
Anche in questo settore, come già per altre coltivazioni, si può dividere la Val Bormida in zone in cui prevalgono diversi tipi di allevamento. Nell'alta valle, ad esempio, prevale l'allevamento bovino, favorito dalle ampie zone pianeggianti che sono capaci di sfamare anche animali che provengono da zone diverse della Val Bormida (47). Sono molti, infatti, i contratti di "socida" che si ritrovano negli atti dei notai del tempo, stipulati da bardinetesi e calizzanesi con uomini della regione costiera (48). L'allevamento conto terzi risulta perciò una interessante attività economica, una delle poche a Bardineto, dove troviamo citata persino una "mandra delle vache", segno di raggruppamenti considerevoli, e abituali, di bovini (49).
I buoi, le vacche e le manze che costituiscono la mandria vengono sorvegliate da un "Boverale", che non deve avere età inferiore ai dodici anni, al fine di assicurare una guardia qualificata ed evitare così danni alle colture. Dalle citazioni che troviamo negli statuti, l'allevamento dei bovini doveva essere piuttosto diffuso anche a Pallare e Dego (50). A Millesimo, invece, i bovini vengono allevati soprattutto per essere adibiti al lavoro dei campi e il loro numero doveva essere piuttosto limitato.
Una conferma della scarsa presenza di bovini a Millesimo potrebbe essere quella singolare norma, riportata ancora negli statuti del 1580, che mantiene in vigore "l'antica usanza" di offrire ai "Signori Illustrissimi" le lingue dei bovini macellati (51). Si può perciò ipotizzare che la cosa dovesse avvenire piuttosto raramente e il dono, oltre che prelibato, diveniva ricercato e non comune, adatto quindi a persone nobili. Un altro motivo per cui a Millesimo, ma anche, ad esempio, a Osiglia e Bormida, non è probabile un grande allevamento di bovini è la stessa scarsità di prati; ne consegue che pochi possono permettersi di nutrire, specie in inverno, anche un solo bovino, che consuma giornalmente una quantità di cibo ai più indisponibile, nonostante la minuziosa raccolta di ogni tipo di erbe e di fogliame. In questi paesi si preferiscono animali più piccoli, che si adattano meglio alla disponibilità alimentari di ciascuno: pecore, capre e maiali sono infatti allevati, allo stato brado, in greggi e stroppati che percorrono le colline e i monti alla ricerca di cibo; poi in autunno, all'arrivo della cattiva stagione, una parte di essi viene macellata. Si riduce così, drasticamente, il loro numero per l'inverno; in primavera le nuove nascite riequilibreranno il numero degli animali dando inizio ad un nuovo ciclo. Un allevamento caratteristico è dunque quello del maiale, animale simbolo di questi lunghi secoli, alimento principe di ogni ceto sociale dal più povero al nobile.
Il maiale è allevato massicciamente nella parte bassa della valle dove vengono condotti al pascolo in greggi (composti anche da più di 15 elementi), accompagnati per legge da un custode, il "porcarius", che ha il compito di sorvegliarli e che, al tempo delle ghiande, percuote con la lunga pertica i rami delle querce, procurando alle sue bestie un cibo essenziale per l'ingrasso (52). I maiali del tempo sono comunque molto diversi dagli attuali: anzitutto, secondo stime accreditate, non raggiungono più di 80 kg., con una resa in carne di circa 50 kg; più o meno come un piccolo cinghiale attuale. Anche il loro aspetto fisico li fa assomigliare decisamente ai cinghiali: "avevano orecchie corte ed erette, testa più grande ed assai più lunga, che termina con un grifo appuntito... il colore era spesso nero" (53).
L'allevamento del maiale è una attività economica di primaria importanza: del maiale non si spreca nulla, tutto viene utilizzato e la sua uccisione (che avviene dopo due, tre anni di vita) è uno dei pochi momenti di vera festa, l'occasione in cui ci si può veramente saziare. La carne di maiale, inoltre è, particolarmente adatta ad essere conservata, sia sotto forma di salami e di salsicce, che salata. Una volta macellato, il maiale veniva diviso in due parti e poi salato, ottenendo un prodotto che si poteva conservare per l'inverno, ma che poteva anche essere venduto e commercializzato, diventando una delle poche fonti di reddito. Anche i Del Carretto non disdegnavano questo tipo di carne: in un contratto di affitto del 1501, riguardante delle terre adiacenti al castello di Roccavignale, che ho potuto rinvenire nell'Archivio Comunale di Millesimo, i marchesi richiedono all'affittuario, tra l'altro, "mezene due di sei rubbi l'una di carne salata". Dal maiale, oltre alla carne, si trae poi un altro prodotto, il grasso, che sotto forma di lardo o di strutto costituisce uno dei pochi condimenti popolari della nostra cucina medioevale; il lardo, anzi, diventa un vero e proprio companatico, che viene consumato come cibo a se stante.
Pecore e capre, invece, non vengono allevate principalmente per la carne, anche se sui banchi dei macellai del tempo la carne ovina non doveva essere rara. A Bardineto, addirittura, si proibisce l'esportazione dei capretti, a meno che il macellaio non ne approfitti per pagarli poco (54). A Millesimo una norma statutaria punisce il macellaio che spacci carne di pecora per quella più pregiata di castrone (55). A Calizzano, infine, il macellaio è tenuto ad aiutare coloro che vogliono uccidere agnelli e capretti a domicilio, nel qual caso il proprietario "darà al macellare la pelle ovvero porgerà una giana" (la giana era una moneta di colore giallo) (56). Nonostante questo consumo alimentare, gli ovini vengono soprattutto allevati per gli altri prodotti che forniscono, cioè latte e lana. Anche le pelli, come abbiamo visto prima, pur essendo un prodotto secondario, hanno un certo valore: esse vengono usate in loco per confezionare capi di vestiario, oppure inviate come merce di scambio a Savona dove esistono importanti concerie (57). Il latte, sia esso bovino od ovino, non ha molto smercio come prodotto fresco, vista la sua rapida deperibilità; con il latte, opportunamente cagliato, si confezionano però i formaggi: essi costituiscono, assieme alle granaglie, alla carne salata e alle castagne, l'altra faccia della riserva alimentare da consumare nella lunga e fredda stagione invernale, quando la neve blocca ogni comunicazione con l'esterno.
Tra i formaggi prodotti il più tipico è la robiola (o "rebiola" come troviamo a Biestro nel 1651), che è prodotta interamente con latte ovino. Pantaleone da Confienza, medico di casa Savoia, descrive in un un suo trattato - la "Summa lacticinorum" - pregi e difetti dei formaggi piemontesi. Tra questi include ovviamente la robiola e sostiene che le migliori, assieme a quelle di La Morra e del Monferrato, sono quelle prodotte "nei possedimenti montani dei Del Carretto", cioè le robiole della val Bormida. Un buon riconoscimento visto che proviene da un estraneo che scrive a Torino attorno al 1477 (58).
Anche se non espressamente citati nei documenti consultati, dovevano poi esistere due formaggi agli antipodi come gusto: delicato e facilmente digeribile l'uno; piccante ed aggressivo l'altro. Intendo parlare, nel primo caso, della ricotta fresca, composta dal latte appena rappreso, che in dialetto viene chiamata "zuncò" dal nome dei "zùncheiròi", involucri fatti di giunchi in cui il siero rappreso veniva messo a scolare. Il formaggio piccante è, invece, il "brùz" (brocius, o brosus), che fa ancora oggi qualche rara apparizione, nelle feste fra amici, su fette di pane abbrustolito. Allora il "brùz" era molto più popolare; direi che fosse diffuso quasi per necessità, vista la sua derivazione da formaggi non ben conservati, che venivano così salvati con l'aggiunta di acquavite e droghe. Come annota lo stesso Pantaleone da Confienza, il "brùz", o "bruss" alla piemontese, era certamente il saporito companatico delle persone più povere (59).
A giudicare dalle ricorrenti rubriche presenti in quasi tutti gli statuti, gli ovini dovevano essere diffusi in tutto il territorio valbormidese, con particolare densità a Bardineto, Osiglia e Cairo (60). Particolarmente temute sono le capre, sia per la dannosa abitudine di cimare i germogli delle piante impedendone la crescita, sia per il penetrante odore, che risultava sgradevole anche in un'epoca in cui si doveva essere abituati a effluvi piuttosto pesanti. Alle capre è perciò tassativamente proibito l'accesso nella cinta del paese di Osiglia, Dego e Altare, con la sola eccezione forse della capra che fa da "bayla", cioè fornisce il latte ad un neonato, nel caso la mamma ne fosse sprovvista (61).
L'allevamento in val Bormida è una realtà che presenta diverse sfaccettature, tutte importanti per l'economia locale e, come tale, è un bene da difendere e da preservare dai pericoli che incombono su questo tipo di attività: prima di tutto le malattie, particolarmente temute sia per il danno economico, sia per il sospetto che le infezioni dell'uomo fossero direttamente collegate con le epidemie animali per ingestione di carni infette. I macellai sono per questo obbligati a macellare pubblicamente, come è stabilito a Millesimo e a Osiglia "acciò si possa sapere la qualità della carne" (62). Non è infrequente, ad esempio, il caso di maiali "gramignosi" e allora la carne non può essere venduta nello stesso locale dell'altra, ma deve essere separata e venduta altrove, diventando appannaggio, insieme alle interiora, delle classi meno abbienti. Anche le bestie malate non vengono abbattute, ma, come stabilito in Altare, rinchiuse in uno spazio apposito scelto dai Giuratori del luogo (63).
Sempre ad Altare si stabilisce che "morendo ad alcuno qualche bestia grossa, sia tenuto subito farla tirar fuori di casa, et quella sepelir in luogo remotto, talmente li cani o lupi non la possino di scoprire".
La parola lupo ci introduce al secondo tipo di rischio a cui sono soggetti gli armenti: quello dei danni provocati dagli animali feroci. Il lupo era un animale che danneggiava soprattutto le greggi, ma che poteva assalire i bovini ed anche l'uomo. L'età minima per essere pastori è stabilita in dodici anni a Bardineto, ma a Calizzano è elevata addirittura a venticinque e si ammonisce che se le bestie "fossero devorate, ò guastate da animali feroci per difetto del custode, ò pastor impotente, pagheranno tali bestie devorate, ò guaste alli patroni con ogni danno ed interesse" (64).
La caccia al lupo è dunque sempre aperta e incentivata, come ad Osiglia e Bormida, dove per la cattura di un lupo o di una lupa vengono promessi ben venti soldi di Genova. E se il lupo è l'animale feroce per eccellenza - resiste sui nostri monti sino agli inizi di questo secolo - un'altra ombra minacciosa, da tempo scomparsa, riappare attraverso i documenti: è quella dell'orso, ricordato negli statuti di Osiglia del 1340, là dove si promette un premio non solo per la sua uccisione, ma anche per la sua bastonatura, purché provata "per idoneos testes" (65).
L'allevamento numericamente più consistente e diffuso è senz'altro quello degli "animali minuti": galline, polli, anatre e oche appartengono allo scenario di ogni casa, anche nel centro dei paesi. L'allevamento dei polli è semplice e redditizio, facilmente adeguabile alla quantità di becchime di cui ogni famiglia può disporre. Oltre alla carne - peraltro consumata raramente, nelle feste o per malattia - le galline producono le uova, il cui commercio costituisce un piccolo, ma sicuro reddito per la famiglia contadina. Nei giorni di mercato dalle campagne si scende al borgo a vendere i propri prodotti fra cui, ovviamente, polli e uova. Una curiosa norma degli statuti di Millesimo e di Pallare si preoccupa anche di questo aspetto, impedendo ai Polleroli (i commercianti di polli) l'acquisto della merce dai contadini prima dell'ora nona, cioè le tre del pomeriggio; forse il legislatore intendeva salvaguardare il reddito dei venditori, evitando monopoli nelle mani dei commercianti (66). Un discorso particolare occorre fare sulle uova, particolarmente per quanto riguarda il periodo pasquale. L'uovo di Pasqua - oggi di costosissima cioccolata - ha una tradizione antica: anche nel Medioevo si usava regalare beneaugurali uova (di gallina) rassodate magari in acqua colorata da erbe (67). In questa veste all'uovo vengono associati simboli diversi e suggestivi; in queste pagine, però, interessa soprattutto l'aspetto alimentare di questa usanza pasquale. Bisogna ricordare che, almeno fino al XV secolo, l'uovo, essendo un prodotto animale, veniva equiparato alla carne e perciò strettamente proibito durante tutto il periodo quaresimale (68). Questo divieto, associato al fatto che in primavera le galline iniziano a produrre le uova per la cova, portava ad avere a Pasqua una considerevole quantità di uova disponibili che il mercato non assorbiva completamente. Il periodo pasquale era dunque il momento in cui, usciti dal periodo di digiuno, si poteva fare festa e la si faceva con le cose disponibili: ecco dunque la tradizione dei canestrelli, delle torte pasqualine, dell'uovo augurale che abbiamo già citato (69).
In autunno le uova vengono invece conservate per il periodo invernale, quando le galline normalmente non depongono uova. Secondo la tradizione, le uova più adatte alla conservazione erano quelle non fecondate; esse venivano immerse in sostanze atte a diminuire l'evaporazione, attraverso i pori del guscio, dei liquidi interni. Le uova venivano così affondate nella segatura, nella cenere, oppure in crusca e sabbia. Un altro metodo consisteva nel ricoprirle di grasso o nell'immersione in acqua di calce, assicurando così una conservazione più sicura e lunga.
Assieme alle galline vengono allevate anche anatre e oche; queste ultime, soprattutto, sono citate in quasi tutti gli statuti per riaffermare che, se producono danni in orti e coltivi, esse possono essere impunemente uccise (70).
L'oca infatti è molto dannosa e la val Bormida non ha la fortuna di Alessandria dove un certo Baudolino, già nel VII secolo, liberò le campagne dal flagello delle oche (selvatiche) semplicemente chiedendo loro di allontanarsi. Per questo miracolo, Baudolino fu addirittura proclamato Santo e ancora oggi, in segno di imperitura riconoscenza, la città piemontese lo venera come Patrono.
Il coniglio, invece, oggi tipico degli allevamenti domestici, non e mai citato nei documenti consultati. Da studi analoghi che riguardano la zona piemontese, viene confermata l'impressione che il suo allevamento fosse molto limitato e la sua carne poco apprezzata (71). Redditizio e frequente doveva essere l'allevamento dei colombi, un animale dalla carne molto gustosa e che, oltrettutto, è in grado di sfamarsi da solo nelle campagne per gran parte dell'anno. Una caratteristica questa che possiede anche un altro uccello utilizzato a scopo alimentare: il rondone, volgarmente detto "sbirro". Non si può parlare in questo caso di un vero e proprio allevamento, perché ai rondoni viene offerto un semplice rifugio costituito da delle torrette che si possono ancora vedere nel centro storico di Millesimo. In esse trovavano rifugio i rondoni, i cui nidi venivano poi sistematicamente depredati dei piccoli ancora implumi.
Lo storico millesimese V. Paladino nelle sue "Memorie storiche del Santuario di N.S. del Deserto" (Savona 1904) riferisce che ancora nel 1864 il Conte Gustavo del Carretto, durante le migliorie apportate al suo Palazzo di Millesimo (ora sede del Comune) fece innalzare di circa sei metri la torre per "formare un uccellatoio". Esso era appunto costituito da ricoveri da cui i rondoni avevano accesso attraverso fori di circa cinque centimetri di diametro (72). Un altro allevamento tipico, tanto da essere ancora oggi in auge, è quelle delle api. In val Bormida troviamo una sola citazione, al riguardo, negli statuti di Calizzano, ma la cura delle api doveva essere una pratica piuttosto diffusa (73). Le colline della valle dovevano essere costellate di "bogli segnati", cioè di tronchi di castagno cavi adattati a questo particolare uso e personalizzati dal proprietario che tracciava su di essi un particolare segno di riconoscimento onde evitarne il furto. Le "schiere d'api" che abitavano questi primitivi alveari erano ancora le api "liguri", le api dal buon carattere, che consentivano agli apicoltori di avvicinarsi senza protezione alcuna (74).
Prodotto tipico dell'alveare è il miele, allora l'unico dolcificante alla portata di tutti: lo zucchero, introdotto in Occidente solo dopo le Crociate, viene sì importato (soprattutto dall'isola di Madera), ma è ancora un prodotto di lusso che raggiunge solo le tavole dei signori (75). Da non scordare poi un prodotto secondario dell'alveare: la cera d'api, che veniva impiegata in molti usi, tra i quali il più importante era la produzione di candele per l'illuminazione delle chiese. Dai documenti del notaio Francesco Alaria, studiati da Furio Ciciliot, risultano, nel periodo 1518/1539, parecchie partite di miele e cera d'api che venivano esportate da Calizzano sia verso la costa ligure che verso le vicine valli piemontesi (76).