Abbiamo già più volte notato che nel XV secolo abbiamo una maggiore consistenza dei terreni coltivati che si sono espansi a scapito di quelli incolti. Tuttavia, come possiamo constatare a Millesimo mediante il catasto quattrocentesco, il bosco e la selva sono ancora maggioritari rispetto ai terreni agrari. Un tipo di sfruttamento di questa grande risorsa è stato l'allevamento allo stato brado che abbiamo già analizzato. Certamente, però, questo non era l'unico modo di utilizzo dell'incolto: senz'altro esso forniva legname per il riscaldamento, per la costruzione di case e di attrezzi da lavoro; da esso si traeva il prezioso carbone di legna che alimentava, ad esempio, le fucine delle ferriere.
Per ritornare nel campo alimentare, al bosco ci si rivolgeva soprattutto per la raccolta dei frutti spontanei e per la caccia, tanto più che questo terreno, formalmente di proprietà del Signore, era praticamente accessibile a tutti per via di consuetudini o per antichi privilegi e franchigie, come quelle concesse ai millesimesi all'atto di fondazione del paese nel 1206 (77).
Quando si parla di raccolta di frutti spontanei, è logico ed inevitabile pensare alle castagne, frutto per eccellenza del bosco e parte importante delle diete, specie invernali, dei nostri antenati. È rimasta nella nostra cultura questa dipendenza, quasi patologica, dalla castagna: farsi una buona scorta di castagne voleva dire passare l'inverno, togliersi la fame. Non sempre, però, il castagno è stato diffuso a macchia d'olio come lo si ricorda fino a una cinquantina di anni fa. Il fatto stesso che nei nostri boschi stiano nuovamente moltiplicandosi essenze arboree diverse dal castagno, dimostra che questo albero ha avuto il predominio sugli altri solo perché oggetto di una coltura forzata dall'uomo, alla ricerca del cibo necessario per soddisfare una popolazione che stava crescendo. Il bosco generico viene così limitato dai "ronchi" e dall'estendersi del castagneto da frutto: in ambedue i casi si è alla ricerca di un rapporto più favorevole fra il terreno a disposizione e la quantità di cibo che se ne può trarre.
Una conferma di questa supposizione la possiamo trarre, almeno per Millesimo, dal locale catasto del XV secolo (78): in esso le "terre castaneate" sono una minoranza rispetto agli altri appezzamenti di terreno definiti genericamente "bosco". Pur senza voler trarre arbitrarie conclusioni - il documento è mutilo di molte pagine e non sono indicate le misure delle superfici - sembra corretto sostenere, almeno statisticamente, che il castagneto da frutto non è ancora così ossessivamente presente come alcuni secoli dopo. Il caso di Millesimo, da leggersi come tendenza e non come valore assoluto, non esclude ovviamente che percentuali maggiori di castagneti si possano trovare in comuni con terreni più adatti a questo tipo di coltura. Basta comunque scorrere uno qualunque degli statuti valbormidesi per accorgersi che, domestiche o selvatiche, le castagne occupano un posto importante nella economia locale. Come già la raccolta delle messi, anche il "tempo delle castagne" segna il periodo delle grandi ferie - quando non si possono celebrare i processi - per lasciare libera la popolazione di accudire ai vitali raccolti. Tuttavia mentre il "tempo delle messi" è uguale per tutti (S. Giovanni Battista - S. Lorenzo), il "tempo delle castagne" (che coincide con quello delle uve) subisce delle variazioni. Nella maggior parte dei comuni l'intervallo di tempo va da S. Michele fino a S. Martino, per Calizzano, invece, esso, è dilatato fino a S. Andrea "salvo impedimento di neve o di tempi cattivi", nel qual caso il periodo è ulteriormente allungato (79). Se tutto va bene, dopo S. Andrea la raccolta diventa libera a tutti, anche alla gente più povera, che non possedendo terreni proprii, attende con ansia la fatidica data che le permetterà di racimolare qualcosa per l'inverno. A Dego, invece, la rubrica "De spoliatoribus castanearum" stabilisce che gli "spoliatori" possano accedere al bosco non appena il raccolto sia stato completato.
La conservazione delle castagne avveniva in diversi modi: uno era quello della essicazione naturale alla luce del sole, metodo non molto sicuro per l'alta percentuale del prodotto che andava a male. Un altro sistema era quello della "novena", che ho visto ancora in uso ad Osiglia, consistente nell'immergere le castagne, scelte e perfette, in un tino pieno d'acqua che viene cambiata due volte al giorno per nove giorni. Le castagne vengono poi conservate coperte di fogliame secco (fuiach).
Il metodo più usato e più sicuro è la seccatura forzata che avveniva nel "tectum" o seccatoio (in dialetto "tec" o "schév"), che troviamo in gran numero nei boschi, dove le castagne venivano direttamente lavorate (80). Il seccatoio era composto di due locali, separati da un piano di graticci; le castagne venivano disposte sopra questi, mentre nel vano sottostante venivano poi accesi grandi ceppi di legna al cui calore le castagne lentamente seccavano. Dalla loro battitura si ottenevano le castagne "albae" (bianche), che erano facilmente commerciabili, come risulta anche dai molti contratti di vendita stipulati, ad esempio, a Calizzano (81). Le castagne bianche venivano consumate bollite, al naturale o accompagnate da latte fresco; oppure potevano essere trasformate in farina per produrre pappe, polente, castagnacci, od anche pane, integrate alle altre farine. Nei momenti di carestia le castagne sono uno dei pochi rifugi sicuri. Gli atti dei notai registrano questi tragici momenti in cui padri e vedove impegnano tutto il loro misero avere, pur di ottenere qualche pugno di castagne secche con cui sfamare i propri figli (82).
L'importanza del bosco e dell'incolto in genere non si esaurisce certo con la raccolta delle castagne. Come abbiamo già visto, negli statuti di Dego, anche le ghiande sono considerate un bene privato (83). Normalmente le ghiande servono come cibo per gli animali, ma, in periodi particolari e debitamente trattate, possono essere usate anche per l'alimentazione umana. Con la macerazione in acqua la ghianda perde un po' del suo amaro e con la tostatura in forno si ottiene un prodotto simile alla castagna. Se poi la si macina, si produce una farina con la quale si può confezionare un pane pessimo, ma che toglie pur sempre la fame (84).
Al giorno d'oggi la raccolta delle erbe selvatiche, un altro prodotto tipico dell'incolto, è una attività legata alle virtù terapeutiche delle piante, che erboristi e "settimini" stanno riscoprendo e rilanciando. Nel Medioevo, invece, quando tutti, anche i più poveri, potevano facilmente accedere ad un prato o ad bosco, il consumo alimentare delle erbe era una cosa comune e la conoscenza delle loro proprietà veniva tramandata di padre in figlio, o meglio di madre in figlia, visto che questa incombenza doveva essere tipicamente femminile (85).
Si calcola che, delle circa tremila specie spontanee che crescono dalle nostre parti, almeno cinquecento fossero utilizzate in qualche modo come piante alimentari o medicinali. Piante come il finocchio selvatico, il ginepro, l'origano, il timo erano usate soprattutto come aromi in sostituzione delle carissime spezie. Con le bacche di ginepro, anche visivamente così simili al pepe, si produce, ad esempio, una salsa tipica, la "zenevrada", usata per accompagnare le carni in genere ed in particolare quella di gatto, che veniva consumata specie durante il Carnevale, forse anche con scopi magici propiziatori. La "zenevrada" era raccomandata anche dai medici che vedevano nel suo gusto pungente un aiuto nella profilassi contro la peste (86).
Usati a scopo alimentare erano certamente i frutti di alcune piante come le fragoline, i mirtilli, le nocciole, le more, i cornioli; altre piante invece erano raccolte soprattutto con scopo medicinale come l'assenzio (in dialetto: bon me), la camomilla, la malva, la piantaggine, il sambuco, il tiglio, usati per la produzione di decotti ed infusi, spesso panacea di tutti i mali.
Soprattutto in primavera, quando l'orto è ancora improduttivo, la maggiore attenzione era rivolta alle erbe alimentari che, consumate di preferenza crude, fornivano l'apporto vitaminico necessario, dopo una lunga stagione invernale in cui si erano consumati solo cibi conservati. Acetosa, borragine, cicoria (in dialetto: radiccia), crescione (citato a Calizzano), luppolo (vértisci),ortica, pimpinella, primula, rosolaccio (papavero dei campi), tarassaco (denci ed can), costituiscono un breve elenco di erbe che ancora oggi si raccolgono e si consumano.
Nel Medioevo, quella che oggi è una pratica un po' inconsueta, era invece una normale abitudine e persino i testi di gastronomia riportano ricette con l'uso di queste erbe tratte dai terreni non coltivati (87). Crude o bollite che fossero, le erbe selvatiche erano frequenti sulle tavole medioevali: abituale era anche il loro impiego in minestre e frittate. Più raro invece l'uso come componenti per i ripieni, tra cui tradizionale è quello delle torte pasqualine, dove l'abbondanza di uova del periodo pasquale si sposa perfettamente al gusto delicato delle erbe e dei germogli primaverili. Probabilmente con ripieni simili si farciscono anche i ravioli, che troviamo già citati in testi (non locali però) del XV secolo (88).
Un utilizzo del bosco che non si limita solo a soddisfare il consumo familiare lo possiamo trovare nella raccolta dei funghi; un pro dotto tipico delle nostre valli, che già allora sembra molto quotato. Gli stessi Del Carretto li apprezzano, tanto da richiederli esplicitamente tra le regalie che vengono fatte loro in occasione delle feste natalizie. Nel già citato contratto di affitto delle terre del castello di Roccavignale del 1501, viene richiesto all'affittuario anche "barile uno de fongi salati" (89). È questa l'unica citazione locale che ho potuto trovare riguardo ai funghi, essa è però molto significativa in quanto, oltre a confermarci un uso alimentare dei funghi, ci suggerisce anche un metodo di conservazione alternativo a quello della seccatura sui graticci. Con la salatura del prodotto si applica ai funghi una tecnica usata per molti altri alimenti e quindi ben conosciuta e soprattutto possibile. È da escludere, ad esempio, la tecnica della conservazione sott'olio, un prodotto troppo pregiato per essere usato in quantità significative. La stivatura in barilotti poi, oltre che la conservazione, favorisce anche il trasporto del prodotto, facendo intravedere un circuito artigiano che confeziona i funghi e li commercializza, realizzando un introito non disprezzabile, anche se forzatamente stagionale.
I funghi dovevano quindi entrare nella dieta di un gran numero di persone a dispetto dell'alone di diffidenza che gastronomi e medici alimentano con i loro scritti.
Bartolomeo Platina, cremonese, autore di uno dei più famosi testi di gastronomia della seconda metà del '400, così scrive al riguardo: "Benché soddisfino la gola, i funghi sono da considerare quanto mai dannosi. Si digeriscono con difficoltà, generano umori perniciosi e determinano quella insensibilità alle membra che i Greci chiamano apoplessia, provocano dolori di ventre, difficoltà nell'urinare e senso di soffocamento" (90). Un quadro veramente terrificante, che è significativo esempio della scarsa conoscenza del tempo a proposito di questa specie vegetale. Anche molte delle credenze popolari, che ancora oggi circolano riguardo ai funghi, le ritroviamo, già in questa epoca, "ufficializzate" e diffuse dagli scritti di questi autorevoli autori. Lo stesso Platina, appena citato, sostiene che sono mortiferi i funghi che nascono vicino al ferro e alle tane dei serpenti. Pure il Guainerio - professore di medicina della seconda metà del XIV secolo, pavese - sostiene nel suo trattato "Opus preclarum..." che i funghi sono pericolosi <<massimamente quelli che nascono in vicinanza di ferri rugginosi o vicino a cose putride" (91).
Anche i cuochi dell'epoca, pur riportando ricette a base di funghi, si dimostrano piuttosto diffidenti verso di loro "perché di natura sonno venenosi", come ammonisce Mastro Martino, un famoso cuoco vissuto attorno al 1450 (92). Di conseguenza si consigliano metodi per eliminarne, o almeno diminuirne, la pericolosità: il più comune dei quali è la maceratura o la bollitura in acqua con l'aggiunta di mollica di pane, pere, o picciuoli di pere. "Alcuni vi mettono anche l'aglio, ritenendo che sia un rimedio contro il veleno" suggerisce sempre il Platina, progenitore di una superstizione ancora molto attuale.
Per rimanere poi nel campo dei funghi, non si può fare a meno di accennare ai tartufi, le "callosità del terreno", come ebbe a chiamarli il Platina. L'uso di questi tuberi non ci viene confermato da documenti valbormidesi, ma da un conto relativo ad un viaggio compiuto nel 1577 da un gruppo di cittadini di Garessio che si debbono recare a Roma (93). Passando per Ceva e Carcare, dove pernottano, questi garessini, giungono a Savona. Qui, facendo di necessità virtù, comprano da "uno di Bagnasco, il quale era a Savona, libbre 5 di trifole (quasi due chili di tartufi), che si sono date per presente al Cardinale, per ottenere lettere di favore per Roma".
La qual cosa, oltre a confermarci che il mondo non è poi così cambiato, ci assicura anche che le "trifole" erano già allora piuttosto pregiate, se vengono scelte come "presente" di riguardo per il Cardinale buongustaio. La ricerca dei tartufi avveniva soprattutto sfruttando il fine fiuto della scrofa che - citiamo ancora il Platina - "li lascia intatti, quali li ha trovati, non appena il contadino le accarezzi l'orecchio". La deliziosa immagine bucolica prelude ad una stuzzicante ricetta nella quale i tartufi vengono prima lavati con vino, poi cotti sotto la cenere e quindi serviti ai commensali ancora caldi e cosparsi di pepe. "È questo un cibo molto nutriente, come crede Galeno, ed è eccitante della lussuria. Il che, se è fatto al fine di procreare - ammonisce ancora il Platina - è cosa lodevole, mentre se si fa a scopo di libidine, come sono soliti fare gli oziosi e gli intemperanti, è quanto mai detestabile". Sarebbe interessante ricercare per quale di questi due scopi il nostro cardinale savonese abbia usato i due chili di "trifole", gentile omaggio degli abitanti di Garessio.
"Poiché la caccia è una pratica che distoglie i contadini del lavoro, è bene proibirgliela nell'interesse loro e della comunità tutta". Frasi come queste, rileva lo storico Massimo Montanari, cominciano ad essere presenti in molte ordinanze legislative a partire dal XVI secolo (94).
Millesimo, ad esempio, non fa in questo eccezione, anche se il processo di espropriazione di questo antico diritto inizia il suo capitolo conclusivo solo il giorno dei Santi del 1762, quando un ennesimo manifesto proibitivo della caccia e della pesca, affisso per ordine del feudatario Conte Stefano Nicolò del Carretto, viene addirittura strappato dall'albo pretorio. Il processo che ne segue si conclude cinque anni dopo con la definitiva sconfitta della Comunità millesimese. Essa viene così privata di un antico privilegio che nel passato aveva avuto la sua importanza proprio per la possibilità di accedere liberamente al patrimonio di selvaggina che l'incolto allora offriva (95). Ancora negli statuti del 1580 la Comunità millesimese era riuscita a far introdurre la rubrica "De retibus et aliis ingeniis non amovendis" con la quale, vietando di rimuovere le reti e altre trappole, si sanciva, sebbene implicitamente, il diritto alla caccia e alla pesca.
Abbiamo già visto, però, che la pressione demografica sul territorio si stava facendo massiccia e la quantità di prelievi di selvaggina via via più consistente. Nel tentativo di limitare questo prelievo incontrollato, già il 30 Aprile 1596, il Conte Nicolò del Carretto fa affiggere al secolare olmo esistente allora nella "pubblica piazza di Millesimo" (l'attuale piazza Italia) una Grida in cui si "proibisce di pescare nelli fiumi, e cacciare nelle fini d'esso luogo, salvo con espressa licenza ed ordine suo". La reazione a questo provvedimento è immediata: il Consiglio riunitosi nell'abituale sala della Casa dei Disciplinanti, rigetta le proibizioni e appellandosi agli antichi privilegi e franchigie, costringe il Conte a "far cassare i Comandamenti emessi", cosa che viene materialmente eseguita dal Notaio David il 13 Maggio "apponendo sopra detta Grida un segno di croce". Rimane al Conte il diritto di caccia esclusiva per le lepri e le pernici e la riserva nelle "possessioni delle Gorrette e da S. Bernardo in giù"; rimane inoltre proibita la pesca "a tanto che non sia passato il mese di Maggio e di Giugno".
Come si vede chiaramente, le proibizioni da un lato cercano di escludere la massa dall'uso di questa risorsa per riservarla a pochi, dall'altro contengono anche un sincero spirito di salvaguardia: come quando si vieta la pesca a Maggio e Giugno, momento presumibile della riproduzione per molte delle specie ittiche presenti nel nostro fiume.
Un analogo provvedimento di salvaguardia lo troviamo a Calizzano, riguardante però le pernici che non si possono cacciare "tempore nivis existentis super terram", in un momento cioè in cui sono particolarmente vulnerabili.
Le norme che il Conte cerca di far passare a Millesimo con il colpo di mano della Grida affissa all'olmo, a Calizzano erano già state oggetto di contrattazione nel 1481, quando si ridiscutono le vecchie Convenzioni del 1444, nelle quali si proibiva di "piscare in flumine Burmide, nec in fossatis Frassini, Rivifrigidi, Calizani, e Vetriae, ac Rivinigri, nec venari ad perdices, nec lepores, nec alia ingenia facere in dictis flumine, e fossatis". Nel 1481, invece, queste norme vengono abolite, a tutti viene concesso di cacciare lepri e pernici "ad libitum voluntatis", cioè liberamente. Anche la pesca viene liberalizzata ed è addirittura il Signore che si garantisce concordando che le sue reti e le sue trappole non si possano levare, né si possan portare via le eventuali prede. Per tutte queste liberalità il Signore si riserva delle regalie che riguardano sia la caccia che la pesca. In pratica i pescatori e i cacciatori si impegnano a far parte delle proprie prede al Conte, quando questi si trovi a soggiornare in zona. Una consuetudine analoga la si può rilevare anche a Millesimo dagli atti del processo sopra citato.
Interessante è anche il privilegio che il Signore di Calizzano si riserva riguardo alla caccia dei grandi animali, che evidentemente allora esistevano ancora sulle nostre montagne. I calizzanesi sono tenuti a "dare et reddere dictis Dominis suis de quibuscumque ursis, apris (cinghiali), capriolis, et cervis, quarterium dexterum integrum videlicet cum collo, spala, et ondecim costis" (96).
Un privilegio che è retaggio diretto dei tempi antichi in cui la caccia ai grossi animali era appannaggio dei nobili che in queste battute potevano dimostrare il proprio valore. I cruenti corpo a corpo, dove si affrontavano gli animali feriti, erano segno di coraggio e disprezzo del pericolo: una qualità apprezzata in tempi in cui i capi erano soprattutto guerrieri. Ora, in epoche diverse, dove si può governare per comoda discendenza, questa caccia può essere ceduta al popolo, riservandosi il quarto anteriore, con tanto di collo, spalla e undici costole, non una di più, non una di meno.
La caccia nobile è adesso quella con il falco, che è più elegante e soprattutto meno pericolosa. Anche i Del Carretto praticano questa arte venatoria: una traccia di ciò la possiamo trovare ancora nelle Convenzioni calizzanesi del 1481: in un punto di esse si stabilisce, infatti, che tutti gli "Accipitres, et Astures nascentes super finibus Calizani sint, et esse debeant ipsorum Dominorum". I Del Carretto si assicurano così l'esclusivo possesso di questi rapaci che faranno allevare ed addestrare per le loro nobili, e tranquille, battute di caccia.
Gli strumenti usati per la caccia e la pesca non si possono asportare, né si può pescare con gli strumenti degli altri, come recita, ad esempio la proibizione riportata negli Statuti di Altare del 1509 (97).
Un elenco degli strumenti usati per catturare le prede lo troviamo Delle Conzenie. negli statuti di Dego, ma è a Millesimo che abbiamo la lista più completa: "retia, nassas, bertavellas, quinzegnas, lapidarios, et hamos", costituiscono l'armamentario dei cacciatori e pescatori dell'epoca (98). Come si vede sono attrezzi piuttosto semplici e quasi primitivi, ma bisogna ricordare che la polvere da sparo è, allora, una invenzione recente e gli archibugi, le ultime e sofisticate armi da guerra, non sono ancora alla portata dei cacciatori.
Gli animali terrestri vengono catturati con buche, lacci e trappole; per gli uccelli vengono tese le reti nelle campagne, oppure si dispongono lastre di pietra, forse i "lapidarios" citati, sorrette da un bastoncino che all'occorrenza veniva divelto, facendo cadere la pietra sugli uccellini attratti dal becchime. Per la pesca si usano le reti, bilancini e tramagli, oppure le nasse, cioè ceste di vimini che vengono immerse nel fiume e costruite con una apertura a cono che non lascia più uscire il pesce che vi è penetrato. Simili a queste ma di rete o, più raramente, metallici sono i bertovelli, che vengono deposti nelle acque di notte e ritirati al mattino con le eventuali prede.
La pesca con amo poteva avvenire come oggi con la canna, oppure con ami appesi a fili, che venivano gettati da una sponda all'altra del fiume e venivano poi recuperati a mattino, un tipo di pesca particolarmente adatto per le anguille che allora - senza le industrie chimiche e le dighe - popolavano ancora la Bormida.
Esistono per la pesca anche metodi truffaldini come quello di gettare nel fiume la "calzina" (cioè calce viva) o "paste venenose", con le quali si uccidevano i pesci, sterminando interi tratti di fiume. Questa pratica doveva essere piuttosto diffusa a Calizzano, se si sente la necessità di vietarla sia negli Statuti sia nelle Convenzioni più volte citate (99). Un altro metodo vietato, in questo caso a Garessio, era quello di "pischare ad lumen", cioè di notte con la lanterna a riverbero.
La caccia e la pesca sono, per la popolazione medioevale, un serbatoio gratuito da cui ricavare alimenti e proteine, che molti non possono ottenere per altre vie.
Un problema questo che si accentua, per tutti, in quei frequenti periodi dell'anno, come la Quaresima e le altre occasioni, in cui la Chiesa proibisce di mangiare carne. In questo tempo, che si calcola in circa 150 giorni all'anno sono i pesci che sostituiscono la carne: una abitudine che è stata mutuata dai conventi, le cui rigide regole vietano sovente la carne tutto l'anno (100). Il consumo di pesce nei conventi è dunque piuttosto frequente e spesso si costruiscono delle vasche o delle fosse in cui il pesce viene addirittura allevato. Se il convento poi è vicino ad un fiume, si costruiscono dei "prieriis", cioè si chiude un ramo del corso d'acqua con degli sbarramenti di pietre, alimentati da acqua corrente, in cui vengono immessi pesci, frutto di apposite catture (101). I pesci verranno poi ripescati a seconda delle esigenze alimentari dei frati o, nel caso di Millesimo, delle monache. È probabile, infatti, che una di que ste vasche naturali fosse collocata vicino al monastero millesimese di S. Stefano, forse alimentata dall'antico canale che portava l'acqua al mulino posto alcune centinaia di metri a valle del convento. L'area, oggi sede di un riempimento, era in una posizione ideale per questo tipo di insediamento e comunque, se non vogliamo credere a troppe coincidenze, dovrebbe essere illuminante il suo nome che è appunto località Priero o Prieri. I corsi d'acqua grandi e piccoli offrono ancora una piccola risorsa alimentare: i gamberi di fiume - oggi quasi scomparsi per l'inquinamento - che allora erano numerosissimi e molto apprezzati anche dai signori, come parrebbe da alcune ricette riportate sui manuali gastronomici del tempo (102).
Lungo le rive della Bormida l'uomo non si reca solo a pesca, almeno in un caso va anche a caccia. Armati di forconi, nelle notti di luna ci si apposta in attesa della regina del fiume: la lontra. Cacciata anche con le trappole perché ritenuta dannosa per la pesca, e per la sua folta pelliccia, il mustelide acquatico (in dialetto: slùdria) ha resistito nei nostri fiumi almeno fino ad una cinquantina di anni fa; ora è considerata estinta su tutti i rami della Bormida. Una caccia analoga, motivata dalla necessità di difendersi da animali ritenuti dannosi, è condotta contro il lupo, la volpe, la martora, la faina e la donnola. È probabile però che anche la carne di questi animali - come quella del tasso - opportunamente trattate mediante le "serenate" invernali, fosse poi utilizzata a scopo alimentare. La "serenata" consisteva nell'esporre per alcuni giorni la carne al gelo notturno, che è particolarmente intenso nelle notti serene. La carne così trattata perdeva un poco del suo gust selvatico, e soprattutto frollava, divenendo più tenera e adatta alla cottura.
Un'altra piccola fonte alimentare dell'incolto è la raccolta delle lumache, particolarmente ricercate anche perché, sfruttando il naturale letargo, si potevano facilmente conservare. In questo modo venivano vendute e anche offerte in elemosina, come registra a Biestro, nel 1648, la precisa penna del massaro della Compagnia del Suffragio (103).