Dopo aver passato in rassegna le risorse alimentari locali, sfruttate al massimo dall'ansia continua delle carestie e delle guerre, dobbiamo comunque prendere in considerazione gli inevitabili prodotti, che, non potendo essere trovati in loco, pervengono alle nostre valli attraverso il commercio. Le lunghe teorie di muli che partono dai porti rivieraschi per giungere, o semplicemente passare, in val Bormida, sono il tramite tra questa e il mondo esterno e veicolo attraverso il quale si è ammessi a partecipare dei prodotti che transitano e che vengono, a volte per disposizioni di legge, venduti a richiesta. Gli stessi commercianti, al ritorno, acquistano i prodotti locali, che trovano così uno sbocco commerciale sulla costa, attuando un interscambio estremamente importante per l'economia della val Bormida. I volumi dei commerci non sono neppure lontanamente paragonabili a quelli attuali, possiamo però supporre che allora fossero meno squilibrati di adesso, almeno dal punto di vista agro-pastorale, anche perché la scarsa disponibilità di denaro liquido, spinge maggiormente al baratto delle merci.
Un esempio significativo dei pochi prodotti "esterni" che venivano tradizionalmente commercializzati in val Bormida lo possiamo desumere da una serie di documenti relativi al monastero di S. Stefano di Millesimo, recentemente studiati da Elena Castagnola per la sua tesi di laurea. Cinque di questi documenti (che vanno dal 1279 al 1316) sono istanze che le monache rivolgono ai "collettori delle gabelle del Comune di Genova" per ottenere di comperare in esenzione "e barili d'olio, ó cantari di formaggio e 1 cantaro di acciughe, S mine di sale". Probabilmente era questo il fabbisogno annuale del convento relativamente ai prodotti di importazione.
Dall'esterno, infatti, si compra solo quello che è indispensabile o poco più: e essenziale è certamente il sale, il primo ed unico prodotto che è stato commercializzato da sempre, anche in epoca primitiva. Come ha fatto notare Carlo Varaldo nel suo studio "Savona nel secondo Quattrocento", il flusso di sale verso la val Bormida è veramente imponente. Negli 1450/1480, oggetto del suo studio, Varaldo annota vendite di sale in partenza da Savona che vanno da 3000 a 5000 mine verso Altare e Millesimo, da 1000 a 3000 verso Cairo, a cui si debbono aggiungere quantitativi minori verso Carcare e Bormida. Tenendo conto che la mina equivaleva a circa 95 kg e che queste stime si riferiscono al solo porto di Savona (mentre il sale può giungere anche via Finale) ci si può rendere conto dell'importanza del commercio di questa sostanza, che non viene evidentemente consumata tutta in vai Bormida, ma ridistribuita nelle adiacenti aree piemontesi e lombarde.
Il sale è quasi esclusivamente di colore rossastro, mentre è più raro quello bianco, proveniente per la maggior parte dalle saline spagnole di La Mata, o più raramente, dalla Provenza (Aigues Mortes) ed anche da Tunisi. Il sale deve essere venduto, non a caso, secondo la "stantia" cioè al prezzo di Savona e Finale: questo almeno a Millesimo, come è riportato negli statuti del 1580 (104). Il sale è un elemento unico, elevato addirittura simbolo nel rito del battesimo, ed è veramente uno dei pochi prodotti che tutti, anche i più poveri, devono comperare. Il sale serve a confezionare il pane ed i vari cibi, serve a conservare la carne ed altri prodotti, tra i quali abbiamo visto i funghi ed i formaggi; sotto sale giungono la maggior parte dei pesci, soprattutto acciughe, che arrivano dalla costa. Si può capire quindi che il furto del sale fosse punito con estrema severità: ricordo ad esempio un manifesto conservato nell'Archivio comunale di Millesimo, che ancora alla fine del XVIII secolo sanciva la pena di morte per il furto di pochi "rubbi" di sale. Basterebbero comunque i sette anni di disgrazia decretati dalla tradizione, per chi solamente sparge un poco di sale, a confermarne l'importanza nella vita quotidiana.
Nella storia della alimentazione le spezie occupano una posizione del tutto particolare: prodotti usati oggi pochissimo sulla nostra tavola, ma che assumono le dimensioni della vera e propria mania nel Medioevo (105). Sul loro commercio si costruiscono immense fortune; per il loro monopolio si combatte una guerra sottile fra le potenze del tempo e partono viaggi avventurosi destinati a cambiare la geografia del mondo. Il commercio con il Levante rimane vivo grazie al flusso continuo delle spezie, soprattutto del pepe, che dalle più lontane ragioni arriva al Mediterraneo, spandendosi poi in tutta l'Europa.
Diversi sono i fattori che hanno decretato l'enorme successo che pepe, cannella, chiodi di garofano, noce moscata, zenzero, cumino e zafferano ebbero nella cucina medioevale. Innanzi tutto esse servono a rompere la monotonia dei cibi, inserendosi molto bene in una cucina che, a differenza di quella attuale, ricerca sapori forti e spiccati. Le spezie si dimostrano poi utilissime nella conservazione preliminare dei cibi: le carni imbottite di droghe durano di più e mediante le innumerevoli salse a base di spezie si camuffano anche eventuali gusti dubbi di cibi che era difficile mantenere integri per molto tempo. Inoltre, per capire il successo delle spezie, non è da sottovalutare anche l'importanza che si attribuisce ad esso dal punto di vista medico e terapeutico, soprattutto per quelle che difendono dalla peste o sono considerate afrodisiache (106).
Anche le spezie, come già il sale, arrivano in Val Bormida attraverso il porto di Savona; a differenza del sale, però, il loro volume doveva essere molto più piccolo e destinato ad un mercato di elite (107). Forse è questa la ragione per cui non si ritrovano facilmente nei contratti notarili, stipulati solo in occasione di ingenti quantitativi.
Il notevole costo ne limita molto il consumo a livello popolare, dove sono sostituite da quelle che Braudel chiama le "spezie locali", e cioè il ginepro, il timo, la maggiorana, a cui vanno aggiunte salvia, prezzemolo e soprattutto l'onnipresente aglio, simbolo principe del mangiare rustico.
Sale e spezie sono, dal punto di vista alimentare, le uniche importazioni obbligate perché necessarie e assolutamente non reperibili in loco; ciò non toglie che giungessero in val Bormida anche altre derrate alimentari che vengono ad integrare la produzione locale. Un settore significativo di questi prodotti di importazione è senz'altro quello dei pesci di mare. Riferendoci ancora una volta al contratto d'affitto del 1501 relativo alle terre adiacenti il castello di Roccavignale, possiamo notare che, tra le altre regalie, i pesci di mare compaiono ben due volte, segno che di essi si faceva un consumo abituale, anche se evidentemente proporzionato alle risorse di ciascuno. I feudatari, residenti allora in Casale, richiedono a Jacheto Vespa, affittuario, "barile uno di Anciude... et rubbi doi de pesci de marina freschi" (108).
Una richiesta, la prima, che ci saremmo potuti aspettare:le acciughe sottosale sono infatti un prodotto tradizionale che, stivato in barilotti, percorre le mulattiere divenendo un campanatico ben conosciuto anche in paesi lontani dal mare .
Più sorprendente la seconda richiesta di "pesci di marina freschi", specie se si pensa che dovevano essere recapitati a Casale, con un viaggio che, con i mezzi del tempo, doveva durare parecchi giorni. A chiarire questa piccola incongruenza è venuta una norma degli statuti di Calizzano intitolata: "De condutori dei pesci di mare". La rubrica ci informa anzitutto che il commercio dei pesci di mare era, almeno a Calizzano, abbastanza frequente, tanto da essere assoggettato a norme particolari, che impongono a chi trasporti, per se o per altri, pesci nel territorio di Calizzano, di denunciare "al Podestà quante somate o cestini conduce sotto pena di un testone (me neta dell'epoca) per ogni somata e la perdita dei pesci".
Inoltre, per favorire gli abitanti di Calizzano, il venditore "sarà tenuto passar per il Borgo, e venderne a chi ne volesse comprare alla stantia che daranno li Giuratori".
I pesci sono visti come un prodotto utile per variare una dieta in genere parecchio monotona: essi sono perciò calmierati nel prezzo, e il loro acquisto incoraggiato anche con l'obbligo esplicito di farne parte a coloro che ne volessero comprare. Per ritornare poi al discorso sul trasporto dei pesci, lo stesso articola specifica che questi venditori ambulanti portavano: "pesci freschi, di mezzosale o cotti". La prima denominazione non lascia dubbi: sono pesci appena pescati, che risalgono rapidamente le montagne e, in un tempo ragionevolmente breve, possono raggiungere Calizzano senza trattamenti particolari. Anche la terza categoria è inequivocabile: i pesci vengono cotti direttamente sulla costa, ottenendo in questo modo una conservazione più lunga, magari protratta ancora dalla consuetudine di mettere il pesce in "carpione", come diremmo oggi, cioè di metterlo in recipienti ricoprendolo con un liquido a base d'aceto, aromatizzato con cipolla, salvia e spezie. La vendita del pesce cotto sulle piazze valbormidesi non doveva essere infrequente specie nei giorni di mercato. Un'altra testimonianza in questo senso la troviamo ancora nel 1773 negli Ordinati della Comunità di Millesimo dove un certo Gio Poggio, detto il Gallotto, viene sorpreso e multato per avere venduto nella pubblica piazza "pesci di mare cotti coll'oglio, senza licenza" (109).
I pesci di mezzo sale subivano invece un trattamento oggi non più in uso commercialmente. Il metodo consisteva nel dare al pesce una salatura parziale, che ne consentiva la conservazione per alcuni giorni, senza per questo modificare sostanzialmente il gusto e la consistenza del pesce. Al momento del consumo questo veniva lavato accuratamente e cotto come se fosse fresco. Sono forse sotto questa forma che i due rubbi di pesci del contratto arrivano sani e salvi a Casale sulle tavole dei Del Carretto.
Oltre a questi pesci di limitata conservazione e alle acciughe salate, altri pesci risalgono le vie commerciali per raggiungere i mercati dell'entroterra: tra questi certamente la "tonnina", registrata a Savona da Varaldo, che starebbe ad indicare un insaccato di poco pregio fatto con la schiena del tonno. Soprattutto i meno abbienti si potevano poi rivolgere al pesce secco, la cui scarsa qualità ne faceva un prodotto disdegnato dai signori. Varie erano le specie ittiche seccate e commercializzate; tra queste non si può ancora includere il merluzzo (o stoccafisso), un prodotto che arriva con continuità nel Mediterraneo, per l'Italia in particolare a Livorno, solo quando si fa massiccia la presenza della flotta inglese, e cioè verso la fine del XVI secolo (110).
Gli altri prodotti che comparivano abitualmente nelle botteghe valbormidesi non dovevano essere numerosi, né molto abbondanti. Tra questi troviatno citata più volte la carne salata, che poteva, a dir il vero, essere prodotta anche localmente, visto che si tratta generalmente di carne suina.
È molto probabile, nonostante l'abbondanza di suini in val Bormida, che una parte di queste carni affluissero dalle zone adiacenti (111). Il termine carne salata sembra comunque comprendere una diversa gamma di prodotti che vanno dalle mezene o quarti salati interi, agli insaccati ed infine al lardo. Possiamo in questo senso affermare tranquillamente che questo tipo di prodotti era frequente sulle tavole medioevali, soprattutto durante l'inverno, quando si consumava la scorta fatta in autunno al termine dei pascoli.
Soprattutto il lardo ha una importanza notevole nella gastrono mia medioevale. Esso è l'unico condimento concesso ad una cuci na semplice, che non può permettersi il lusso di olii che, siano pure di noci od altri frutti, sono fuori portata per la maggior parte del le persone. Il lardo poi è consumato, specie dai ceti più poveri, come vero e proprio companatico: è comunque un prodotto più saporito di quello odierno, se teniamo presente che i maiali sono allevati allo stato brado e che sono molto più piccoli, e meno gras si, di quelli attuali. Raramente viene salata carne diversa da quella di maiale, una eccezione la troviamo riguardo alla lingua dei bovini, una frattaglia apprezzata anche dai nobili, che veniva salata e conservata in barili nella sua salamoia (112).
Un altro alimento che si produce in valle, ma che sicuramente viene anche importato, è il vino. Sono, ovviamente, i paesi dell'alta valle, le cui altitudini sono proibitive per le viti, che diventano i maggiori importatori di vino. Una situazione che è puntualmente raccolta dagli Statuti di Bardineto dove le rubriche, che negli altri paesi si occupano di vigne, sono qui rivolte a chi vende vino, segno che la produzione non è locale, ma arriva a Bardineto attraverso il commercio. A vendere il vino al minuto possono essere abitanti di Bardineto o anche forestieri, che, viene stabilito, possono vendere vino solo all'interno del Borgo (113). Per gli uni o per gli altri comunque la procedura di vendita è piuttosto complessa (114). Prima di cominciare la vendita, il commerciante è tenuto a chiamare gli Officiali della Comunità. Questi, dopo aver assaggiato il vino e dopo essere stati informati, sotto giuramento, del prezzo di acquisto, stabiliranno la "stantia", cioè il prezzo ritenuto equo. A questo punto il vino può essere venduto, mantenendo però sempre lo stesso prezzo e usando misure conosciute e certe, come la pinta, la mezza, il terzo, il quarto di pinta, tutte misure di vetro, che permettono di vedere la qualità del vino. Né il commerciante può barare aggiungendo acqua, perché in questo caso basterà il giuramento di "tre huomini di buona fama" per farlo condannare (115).
Sarebbe interessante, per quantificare meglio questo tipo di importazioni, avere a disposizione le bollette delle gabelle che i commercianti dovevano pagare lungo il loro cammino.
Uno dei posti di dogane in vai Bormida era affidato ai frati della Abbazia dei Fornelli, presso Pallare, che avevano destinato, a questo scopo un piccolo edificio adiacente alla abbazia. Da una rapida scorsa su alcuni blocchi di ricevute risalenti agli ultimi anni del '500, conservate nell'Archivio di Stato di Torino, è risultato l'olio di oliva, il prodotto alimentare che più frequentemente percorre la strada che da Finale, attraverso il colle di S. Giacomo, sale a Mallare e di qui, passando per Fornelli, prosegue verso i mercati piemontesi e lombardi (116). Una parte di questo olio di oliva lo troviamo venduto nelle botteghe della val Bormida, destinato principalmente alle tavole signorili.
Un altro uso dell'olio, che abbiamo già ricordato, era quello ecclesiastico per illuminazione. Una preoccupazione questa che troviamo in molti legati testamentari, come quello di Mastro Ambrogio Varretta detto il Battaglino di Millesimo, che il 30 setterrxbre 1518 dispone che "il suo corpo venga seppellito nel sepolcro dei fratelli Flagellanti di Millesimo, al cui parroco vada un legato per i suoi lumi e le trigesime com'è uso in questo luogo". Anche in questo caso, però, il buon Ambrogio Varretta non è certo un povero, come poveri non sono Lorenzo Pronzalino e Giuseppe Triberti di Murialdo, né Valentino Ruba di Calizzano, che fanno analoghe donazioni, puntualmente annotate dal notaio Francesco Alaria (117). Ancora il suddetto notaio è testimone del commercio di un altro prodotto di importazione: il pecorino sardo, che viene registrato più volte nei contratti di compra-vendita (118). Come ha notato Varaldo, Savona intrattiene con la Sardegna rapporti commerciali molto intensi. All'esportazione dalla città ligure di manufatti di ogni genere, la Sardegna risponde con l'invio di grano e di prodotti legati alla pastorizia, attività da sempre fiorente sull'isola. Tra questi prodotti vi è appunto il famoso formaggio, che viene poi rivenduto nell'entroterra ligure, facendo addirittura concorrenza ai formaggi locali.
Sempre dal mare, ma questa volta dal Portogallo e dalla Spagna, giungono nella valle lo zucchero, generalmente importato dall'isola di Madera, e il riso, che proviene dalla Catalogna e da Valenza (119). Lo zucchero, inizialmente usato per scopi medicinali, è in polvere, ma ancora più spesso si trova sotto forma di rottami, che vengono poi sminuzzati nei mortai o grattugiati. Lo zucchero è un prodotto di esclusivo appannaggio dei ricchi e dei nobili: come tutti i prodotti esotici, esso diventa una moda da seguire a qualsiasi prezzo. Se lo zucchero è caro, non importa: aumenterà il segno di distinzione di chi lo offre.
Anche il riso è un prodotto riservato ai signori: in questo caso, però, almeno all'inizio, viene usato a scopo terapeutico. Il medico pavese Antonio Guainerio consiglia, ad esempio, per gli ammalati il "risum cum butyro coctum et zucharo aspersum" per il suo alto valore nutritivo e per la facile digeribilità (120). Presto comunque il riso passa nella cucina ricca, dove viene servito come contorno o usato per confezionare dolci raffinati.
Questo quadro perdura sino a quando il riso, proveniente forse anche dalla Sicilia, rimane un prodotto di importazione da paesi lontani. Con lo sviluppo della coltura del riso in pianura padana, I'approvvigionamento risulta meno rischioso e perciò più a buon mercato. È possibile allora che il riso diventi più popolare anche in val Bormida, come confermerebbe la sua presenza ad Osiglia, nel 1634, fra i prodotti che le botteghe sono tenute ad avere in vendita, alla stantia prestabilita e in quantità sufficiente (121).