A tavola con i Del Carretto - Capitolo V - Mestieri e botteghe (mugnaio, fornaio, macellaio e pollerola, taverniere e oste, controllori)

Mestieri e botteghe

Se si escludono gli ultimi decenni, la maggior parte dei commerci è sempre avvenuta nei mercati e durante le fiere. In questi giorni particolari i paesi si animavano ed i contadini scendevano in paese a vendere i loro prodotti ed a comperare le poche cose indispensabili. Si approffitta di questi giorni anche per amministrare la giustizia, specie se le pene devono essere pubbliche come l'esposizione alla gogna, la frustatura o peggio la bollatura con ferro rovente (122). Nei giorni di mercato si fanno pure gli annunci per le vendite all'incanto dei beni sequestrati o semplicemente si proclamano le nuove prescrizioni, cosa che il Banditore fa, a voce alta, in alcuni posti convenuti (123). Ad esempio, a Millesimo, i giorni di mercato sono il lunedì, il mercoledì e il sabato; a Calizzano, invece, il mercato si svolge il martedì ed il venerdì. Una complementarietà che configura Millesimo e Calizzano come gli unici poli di attrazione, nella vallata, a cui confluiscono gli abitanti dei paesi vicini. Una caratteristica che si accentua in occasione delle fiere e, in particolare, di quelle patronali quando, come a Calizzano per S. Lorenzo, "per apportar maggior negotio, commercio, et utile del Luogho", si concedono particolari sanzioni per otto giorni innanzi, e otto giorni dopo la festa. E, se la gente non vuole scendere al mercato, la merce può raggiungere direttamente le cascine nelle campagne attraverso il commercio ambulante, che abbiamo visto regolamentato, almeno nel caso del vino, in quel di Bardineto. Al di là di queste forme commerciali, gli alimenti sono venduti normalmente da una rete commerciale fissa composta di botteghe e laboratori artigianali, come i mulini e i forni. Panettieri e mugnai sono istituzionalmente addetti alla trasformazione di prodotti, grani e farine, per conto terzi; sovente però diventano essi stessi commercianti, vendendo in proprio una parte di quanto producono.

Mugnaio

"Nascere mugnaio è un gran fortuna" recitava un antico adagio e non senza ragione. purappartenendo alla plebe, egli è considerato un privilegiato perché il suo lavoro costa poca fatica, perché sfrutta la forza naturale dell'acqua e perché non sarà mai senza cibo, in quanto non gli mancherà mai il lavoro. Il mugnaio agisce, infatti, in regime di monopolio poiché il Signore locale obbliga i suoi sudditi a servirsi del suo mulino dal quale ricava la maggior parte delle tasse. Incaricato di riscuotere l'odiato balzello, che di norma corrisponde ad 1/16 del macinato, è ancora il mugnaio, che diviene così l'uomo di fiducia del Conte: spesso approfitta di questa sua condizione per truffare sul peso o per sostituire farine buone con altre di minore qualità. Il ceto contadino è ben conscio di questa situazione e, se da una parte ottiene qualche rivincita morale, bollando il mugnaio come ladro, dall'altra cerca più concretamente di difendersi facendo introdurre, quando possibile, norme statutarie che lo mettano al riparo da questi sorprusi (124). Quasi tutti gli statuti contemplano norme al riguardo, più o meno restrittive a seconda dei casi e del potere contrattuale nei confronti del feudatario. A Millesimo, ma sono norme generali, il mugnaio è obbligato "dopo la martellatura del grano, et farinaccio, porvi del proprio tanto che sia bastante e non del grano o biade d'altri che fossero al mulino... parimenti che non pigli mottura (la tassa cioè sul macinato) se prima non sarà detto grano o biada posta nella tramoggia del mulino e se ne terrà uno Scopello e mezzo alla stanza di Millesimo (125). A Bardineto il mugnaio è tenuto "a macinare il grano bene, e legalmente ridurlo in buona farina", ci si preoccupa cioè, oltre che della legalità dell'operazione, anche della professionalità del mugnaio (126).

A Calizzano, dove il Conte ribadisce nelle Convenzioni che tutti devono macinare nel suo molino e pagare la "molturam prout consuetum est", troviamo la norma di salvaguardia più restrittiva. Nella rubrica "Del peso del Molino" si stabilisce che il mugnaio sarà affiancato nel suo lavoro da una persona eletta dal Consiglio con compiti di sorveglianza e "il molinaro cambiando maliziosamente grano per altro sarà obbligato all'interessato restituir il doppio, e sarà di più castigato dal Podestà" (127).

Fornaio

L'altro passaggio obbligato, dopo quello del mulino, è il forno, anch'esso normalmente di diritto signorile, benché in questo caso sia possibile una panificazione casalinga, specie se ci si trova in campagna e perciò nella impossibilità pratica di accedere al forno comune. Recarsi al forno è l'ultimo atto di un lungo lavoro che è partito con l'aratura dei campi e che, passando attraverso la mietitura, la trebbiatura e la macinatura, ha portato un prodotto, ridotto al minimo dalle innumerevoli tasse, al suo risultato finale: l'agognato pane. Un prodotto questo che nella religione cristiana è persino divenuto mistica rappresentazione di Cristo. Anche tutta la procedura che accompagna a cottura del pane assume quasi contorni mistici ed esoterici. Il forno, purificato dall'azione del fuoco, diventa il luogo dove, con la morte del grano e la sua trasformazione in materia informe, si passa in un aldilà, separato da noi dalla bocca del forno, che ci restituisce un prodotto profumato, fragrante, in poche parole perfetto, che sazia la fame: premio finale di una vita rappresentata qui dal ciclo annuale delle stagioni. Il gran sacerdote di questo rito, colui che conosce l'arte di questa misteriosa trasformazione, è il fornaio, una delle poche figure di popolani che riescono ad emergere dal loro ambito sociale: una considerazione che è pari alla responsabilità che il fornaio si assume verso il prezioso prodotto che viene affidato alle sue mani. A Millesimo il fornaio deve giurare nelle mani del Podestà di "cuocere bene et convenientemente il pane" e, se "per sua colpa o negligenza di alcuno il pane abbrugiasse, cremasse, o altrimenti si perdesse, debba pagarlo ed emendarlo ad arbitrio dei Giuratori"(128): una norma questa che si ritrova anche negli statuti cairesi (129).

A Calizzano il forno viene messo all'incanto ogni quattro anni, il "Fornaro" è obbligato a cuocere il pane con la propria legna - a Cairo invece sono i clienti che debbono fornirla - ed è tenu to ad "andar a prendere a casa de Particolari del Borgo, e vicini il pane crudo" che, evidentemente, viene abitualmente impastato presso le singole abitazioni (130). Il fornaio non può rifiutarsi di cuocere il pane, neppure a quelle persone verso le quali, come esplicitano gli statuti di Cairo, abbia antichi rancori, timori o qualsiasi altra difficoltà. Per il suo lavoro il fornaio riceve un compenso che normalmente viene contrattato di volta in volta, come lascerebbe intendere, a Millesimo, l'imposizione di "non prendere più del promesso".

Nel 1600, a Calizzano, gli statuti determinano invece esattamente l'entità del compenso: il fornaio avrà mezzo "bianco" (moneta dell'epoca) per ogni staro di grano. Contro le eventuali truffe, se qualcuno lo richiede, il fornaio è tenuto a segnare e numerare le pagnotte, evitando così di scambiare il pane dell'uno con quello dell'altro, o di darne di meno, cosa che avviene sovente se il fornaio è un imbroglione. Raramente compaiono negli statuti norme igieniche - unica eccezione a Cairo, dove si vieta agli estranei l'ingresso nel forno - mentre frequenti sono quelle contro gli incendi. Sono soprattutto Bardineto e Calizzano che si preoccupano di questo, forse anche per i molti tetti coperti di scandole (tavolette di legno), o addirittura di paglia. Si vieta così di asportare braci dai forni nei giorni ventosi, e comunque si impone di trasportare i carboni accesi ben coperti (131). A Calizzano, dove troviamo molti canapali, si proibisce anche di mettere sui forni a seccare un materiale così infiammabile come la canapa.

Abbiamo visto il fornaio cuocere il pane degli altri, ma normalmente è egli stesso produttore di pane, che vende con il solito vincolo di rispettare la stantia, cioè il prezzo stabilito. L'unica disposizione relativa a questo la troviamo ad Osiglia nel 1634, dove, per evitare sprechi, si stabilisce che "Se li panatieri faranno il pane mal condizionato, lo potranno stantiare come li parerà" (132). Si favoriscono così le persone più povere, che potranno acquistare un pane più cattivo, ma a prezzi inferiori. Le truffe sul pane sono comunque possibili, specie se si tiene conto che allora il prezzo non è stabilito a peso, bensì a forma. Quando si è in carestia, o quando il fornaio froda, invece di aumentare il prezzo unitario, si diminuisce semplicemente il peso delle varie forme, dalla più grande alla più piccola, che è detta "obolo", poiché il tipo di pane che si dà in elemosina.

Macellaio e pollerola

Il macellaio è un altro personaggio sempre presente nei borghi medioevali: e non poteva essere altrimenti, se teniamo conto del gran numero di animali allevati e della rapida deperibilità del prodotto macellato. Ad esempio, il macellaio di Calizzano, che abbiamo già visto prestare la sua opera a domicilio per l'uccisione di capretti ed agnelli, deve coadiuvare il privato anche se questi volesse macellare un bove. "Il macellaio, se sarà richiesto, lo scorticherà - dicono gli statuti - e li aiuterà a vender tale carne". Una norma questa estremamente opportuna in quanto, mancando validi sistemi di conservazione, una singola famiglia, benché numerosa, non riuscirebbe a consumare un intero animale in pochi giorni. Sempre a Calizzano, ma pare consuetudine generale, il macellaio è obbligato a "far e vender carne sufficiente e buona tre giorni la settimana, e cioè Martedì, Giobbia e Sabbato,... et contrafaciendo sarà condannato ad una pena arbitraria dal Consiglio". Oltre a questi tre giorni, il macellaio è comunque tenuto a fornire carne "per far nozze, ò banchetto per nascimento dei figlioli", che erano le poche occasioni in cui anche la gente meno abbiente poteva permettersi un pasto speciale (133).

I macellai, per la particolarità del prodotto trattato, sono sottoposti a molti obblighi e controlli, soprattutto di tipo igienicosanitario. Il terrore delle infezioni da carni infette ricorre continuamente, anche se sotto la voce di non meglio specificati "morbi" si nascondono spesso avvelenamenti dovuti alla ingestione di carni avariate. In Val Bormida sono gli statuti millesimesi quelli meglio articolati a questo proposito. In essi si stabilisce, anzitutto, che al macello non possa lavorare chiunque: "al banco del macello non vi siano se non due compagni, né abbiano altri partecipi se non fossero più fratelli, e il padre con i figlioli della stessa casa". Si cerca così di limitare la possibilità che le carni vengano infettate da persone ammalate. Le bestie devono poi essere ammazzate al macello e pubblicamente: i macellai "terranno il macello polito di ogni sporcizia, e che non scortichino le bestie senza una conca, nel quale si coglie il sangue et altrove fuori dal macello lo porteranno". La carne poi deve essere venduta al macello o sotto la casa del Macello di Millesimo, "secondo il modo, la forma, o la stantia data dagli Juratori (134).

Nel macello si vendono vari tipi di cane fresca: la suina doveva essere la più frequente, ma si vende anche carne bovina, ovina e raramente quella equina o asinina. Solo ad Osiglia troviamo citata, sui banchi dei macellai, la carne salata (135).

Spesso i maiali sono affetti da un parassita che rende la loro carne panicata (o gramignosa), cioè con il grasso pieno come di chicci di panico che è un cereale simile al miglio. Gli statuti millesimesi non proibiscono il consumo di questa carne, che non pare dannosa per l'uomo, ma ne dispongono la vendita "nei banchi remoti del macello o fuori dal macello della comunità" in modo che non si possano infettare le altre carni sane (136). I macellai sono anche obbligati a giurare nelle mani del Podestà "che non venderanno carne di alcuna sorte cattiva, né morta di mala sorte". Sovente però queste norme dovevano essere disattese e, specie quando le carni erano di cattivo aspetto, si cercava di riciclarle con operazioni cosmetiche, come quella che consisteva nell'ungere di grasso la superficie della carne, per renderla lucida e liscia. Un'altra di queste operazioni, piuttosto diffusa e regolarmente proibita anche a Millesimo e Cairo consisteva nel gonfiare con la bocca gli animali macellati ("bestias aliquas vendendas ad macellum non inflabuntur ore) (137). Probabilmente ciò avveniva introducendo con la bocca o con qualche mantice, dell'aria nella vena femorale della coscia, attraverso la quale si possono raggiungere facilmente tutte le altre parti del corpo, nel tentativo di dare un aspetto esteriore appetibile a carni di animali magri, vecchi, e forse anche malati (138). I macellai, inoltre, sono tenuti ad avere "le misure giuste, non tenendo pesi che non siano di ferro, giusti, e stanziati dai Giuratori".

Se interrogato, il macellaio deve dichiarare quale tipo di carne sta vendendo; ad esempio non può vendere carne di pecora per "castrone", sotto pena della perdita della carne. Dagli statuti si può inoltre dedurre che esiste una precisa scala di valori delle carni anche riguardo al sesso degli animali, con preferenza per quelle dei castrati, seguite da quelle dei maschi e poi da quelle delle femmine. Non avrebbe altrimenti senso la norma che impone ai beccai di non togliere gli organi genitali degli animali macellati, in modo che ognuno possa controllare di persona il tipo di carne che sta acquistando. La rubrica "De macellariis" stabilisce infatti che "in ogni bestia da vendersi al macello siano obbligato e debbano, se saranno maschi lasciarli la verga e i testicoli (virgam et testiculos) né si debbano levare se non vendendoli, e se castrone lasciargli il membro (coplonaturam), nelle bestie femmine le mammelle (ubera) e non levarle se non vendendole". Viene inoltre vietata espressamente la vendita della carne di "troye" non castrate, le cui carni devono essere requisite ed immediatamente bruciate. Ciascuno, purché di età superiore ai 15 anni, può controllare che queste disposizioni siano eseguite ed accusare il macellaio di frode, ricevendo un compenso pari alla terza parte del bando (139).

Parlando degli animali minuti, ho già citato la rubrica "Da pulleroliis" che compare negli statuti di Pallare (1539) e Millesimo (1580). Essa non contiene cenni alle norme igieniche a cui abbiamo visto assoggettati i macellai, né disposizioni specifiche sui prezzi o riguardo alle frodi. L'unico scopo che sembra avere ispirato il legislatore è quello di calmierare il mercato, mantenendo la concorrenza fra molti venditori. Nell'articolo si stabilisce, infatti, che questa categoria di negozianti non osi, né presuma comprare, nel giorno di mercato, "pullos, vel pullas, galinas, vel caponos, anseres, vel ova, nisi prius transierit ipsi die usque ad horam nonae" (140). Possiamo però, oltre a questo, trarre almeno altre due considerazioni del contesto della rubrica. La prima considerazione è che il commercio del pollame non avveniva, normalmente presso i banchi dei macellai, ma in forma autonoma e separata; la seconda è che questo mestiere può essere esercitato da persone "cuiusvis sexus sit" (141), e cioè anche e soprattutto da donne: uno dei pochi casi di lavoro femminile a cui fa riferimento l'intero apparato statutario valbormidese.

Taverniere e oste

I locali pubblici più numerosi e frequentati erano certamente le taverne e le osterie, che negli statuti sono sempre accomunate e quasi indistinte. In effetti l'unica differenza fra i due termini sta nel fatto che le osterie, oltre al mangiare ed al bere, offrono anche l'alloggio e sovente anche dei magazzini dove chi pernotta può mettere al sicuro le proprie merci. Le taverne e le osterie sono annunciate da un vaso o da delle frasche poste all'esterno, che hanno funzione di richiamo per gli avventori. Chiunque può aprire una taverna od un'osteria: l'unico obbligo è quello di vendere le merci al giusto prezzo e di tenere le giuste misure. Per il vino esse sono - almeno a Bardineto - la pinta, la mezza pinta, il terzo e il quarto di pinta: tutte misure di vetro, probabilmente prodotte ad Altare (142). Le taverne sono infatti l'unico punto di aggregazione, oltre alla chiesa, per gli uomini del paese, che in esse trovano rifugio e comprensione. In effetti, anche se le taverne non vengono citate esplicitamente, molte delle rubriche che tentano di reprimere risse e rumori molesti sono da mettere in collegamento con l'attività di questi locali (143). In molte città, per evitare il prolungarsi del disturbo, si impone che le taverne vengano chiuse dopo i rintocchi di una apposita campana, che a volte è la stessa che suona l'Avemaria (144). In val Bormida questa norma non è pronunciata esplicitamente, ma il problema esiste, tanto che a Calizzano nella rubrica "Delli crapulatori ed ociosi" le osterie e le taverne sono dipinte come il luogo dove "huomini lavoratori, per il vitio della crapula... spendono tutto quello che con molta fatica corporale hanno guadagnato e con il quale doveriano agiutare, e sovenire sue povere moglie, e fameglia... per ciò tutti l'hosti e revenditori, quali daranno da mangiare e bere a tali persone e ociosi e frequentatori di osterie, incorreranno la pena di scudi 25, per ogni volta e non potendo pagare se li daranno tre tratti di corda pubblica, e tali crapulatori e oziosi... si condanneranno in pena pecuniaria che non ecceda tre scudi d'oro, e anco alla berlina all'arbitrio del Podestà, considerata la qualità della persona" (145),

Attorno alle taverne ed alle osterie ruota dunque un mondo composito, spesso sono commercianti o viandanti, ma anche "banniti" (cioè esiliati da qualche altro paese) e persino ribaldi ed avventurieri di ogni sorta; a volta, specie nelle città più grandi, si trovano anche compiacenti "femine di cattiva fama". Le taverne sono dunque luoghi di rifugio di gente classificata fuori dalla norma, non fosse altro perché vi circolano notizie ed idee che vengono da fuori, e perciò già sospettate di potere alterare l'ordine normale delle cose 25, Le taverne sono dunque viste di cattivo occhio, anche perché, nel migliore dei casi, sono il luogo dove gli "oziosi" sbarcano il lunario spennando i loro polli al gioco. I giochi praticati sono sovente d'azzardo, il più diffuso dei quali è certamente quello dei dadi ("taxillos"), che viene proibito a Calizzano, Millesimo, Dego ed Altare (147). In quest'ultimo paese è invece consentito il gioco degli scacchi e anche quello della dama, che forse si prestano meno alle scommesse. D'azzardo si gioca soprattutto nelle osterie, ma anche in case private, come si deduce dalla apposita rubrica degli Statuti calizzanesi: sono i "figlioli di famiglia" (probabilmente i garzoni) che si ritrovano per giocarsi i loro magri guadagni. Chi sarà sorpreso a giocare d'azzardo è passibile di una forte multa di cui la metà verrà versata alla Compagnia del Santissimo Sacramento, forse ad edificazione di queste povere anime traviate (148).

Oltre a questo aspetto per così dire tradizionale, le osterie e le taverne, in questo Ultimo Medioevo, rivestono anche un'altra funzione che è quella di rivendita di generi alimentari, cioè di vere e proprie botteghe. Presso le osterie, attraverso i commercianti che vi pernottano, giunge ogni sorta di merci, ed in particolare le derrate alimentari, che lo stesso oste deve acquistare per confezionare i pasti per i suoi clienti. È abbastanza naturale che una parte di questi prodotti venga venduta al minuto dall'oste, che così, specie nei piccoli paesi, arrotonda ulteriormente il suo guadagno. Anche i vantaggi sociali non sono però trascurabili: anzitutto si offre alla gente un servizio indispensabile e, in secondo luogo, si attua una razionalizzazione del mercato, evitando una distribuzione troppo dispersiva dei punti di vendita. Con questo non si vuole certo affermare che le botteghe fossero tutte abbinate alle osterie, anzi, ad esempio a Calizzano, si parla esplicitamente di "Revenditori, ò Ritagliatori", cioè di persone che suddividendo (o ri-tagliando) le derrate, attuano il commercio al minuto: una situazione che troviamo anche a Millesimo dove si parla di "Tavernieri e di altri che vogliono vendere al minuto" (149). Probabilmente nei paesi grandi convivono i due tipi di negozi, men tre nei paesi più piccoli l'osteria, o la taverna, diventa un piccolo emporio, dove si possono trovare i pochi generi in vendita. A Bardineto, oltre al vino ed al pane, gli osti vendono anche "al tre vitovaglie" non meglio specificate (150). Analoga situazione a Calizzano dove l'oste vende pane e vino, ma anche olio ed ancora "altra vettovaglia". A Millesimo, oltre al pane e al vino, si vendono sale, olio, formaggio e carne salata. La bot tega più rifornita di generi alimentari la troviamo infine ad Osi glia (ma siamo già nel 1634): in essa il taverniere vende anche il grano (guadagnando per ogni staro 4 fiorini) e l'olio (per ogni quar to, 5 fiorini). Inoltre è obbligato a "mantenere e vendere, oltre le suddette cose, del sale, riso, farina bagatata (cioè setacciata), for maggio et altre simili vettovaglie" (151): un ventaglio discretamente ampio di prodotti e una imposizione che ci confermano che le oste rie, almeno ad Osiglia, erano intese come un vero e proprio servi zio pubblico, per rifornire la popolazione delle principali derrate alimentari. Nelle rare botteghe e nei magazzini si accumulano quindi discrete quantità di merci che costituiscono una delle poche concentrazio ni di ricchezze esistenti sul territorio. Succede quindi che le botteghe subiscano le attenzioni di ogni sor ta di malviventi, ed a volte di indigenti, che cercano di imposses sarsene. Nei soli statuti di Millesimo, però, ho ritrovato una norma speci fica al riguardo, a conferma forse di quella vocazione al commer cio che la Millesimo medioevale ha già dimostrato nel caso del sale. In questa rubrica (la CXXIV - De rumpentibus et derobantibus alienas appothecas) il deterrente al furto, avvenuto forzando le porte del magazzino, è costituito, oltre che da forti multe, anche da un più significativo taglio della mano destra (152).

Controllori

Come abbiamo visto nei precedenti paragrafò molte sono le norme che tentano un controllo qualitativo e quantitativo sulle merci poste in vendita. Al di là della necessità di tali regole è il momento del controllo che determina l'applicazione delle stesse a favore della popolazione.

In ogni paese della valle vengono dunque eletti, annualmente e fra le persone di buona fama, alcuni controllori che, dopo aver giurato, si preoccupano che la vita della comunità, nel nostro caso il commercio, avvenga in maniera ordinata e corretta.

Questi uomini, a volte definití semplicemente "Officiali della Communità" (Bardineto), sono normalmente chiamati Giuratori: in campo alimentare hanno il prioritario compito di verificare periodicamente tutti i pesi e le misure (153). Un'altra importante mansione dei Giuratori è quello di stabilire la "stantia" della merce, cioè il giusto prezzo a cui deve essere venduta (154). Senza la licenza dei Giuratori, nessuno può osare vendere, neanche se si reca al mercato o se esercita la sua attività in maniera ambulante (155). L'elezione dei Giuratori (normalmente sono tre per paese) avviene, a Millesimo, "infra octavam Nativitatis Domini nostri Jesu Christi" ed entro un mese questi ufficiali della comunità devono "haver stanziato tutte le misure e pesi alla misura legale e consueta". Le misure consuete del tempo sono, sempre a Millesimo, il "sextarius", la "mina", il "quartarius", lo "scopellus rasus", la "canna et consimiles", con quibus ematur, vel vendatur publice, vel privatim...". Se queste misure, che sono di legno, vengono trovate false, devono essere bruciate "in platea Millesimi", cioè pubblicamente, e chi le possiede "remaneat infamis" (156). Sono considerate false tutte quelle misure che non portano la marca od il sigillo della comunità. Possono essere alterati anche i pesi ("Stateram, scandalium, bilanciam, libram, unciam"), o le misure di capacità per i liquidi come la pinta e la mezzapinta (157).

Poiché i pesi non si possono bruciare, essendo fatti di ferro, piombo, "ò lotone" (come troviamo a Calizzano) (158), allora i Giuratori faranno una "grida" con la quale si denunziano i falsari, i quali dovranno pagare una multa salata oppure, secondo una formula solita: "si non habuerint in aere delinques luat in corpore arbitrio Ill.ris D. Comitis", cioè se il delinquente non ha beni "in aere", paghi con una pena corporale ad arbitrio degli Ill. Signori. A Pallare si controllano le misure per il grano, le castagne e la biada, che vengono generalmente vendute a volume, usando misure di capacità per solidi, come quelle già citate per Millesimo (159)Anche a Pallare queste misure di legno, se trovate false, vengono bruciate, mentre le misure di vetro vengono rotte, una fine che fanno anche le misure false di stagno e di terra (160).

A completare l'apparato di controllo dei Giuratori, a Millesimo e Altare, si eleggono anche altri due uomini "secondo e come è la consuetudine anticha", che vengono significativamente chiamati "Rasperii"( 161). Questi raspieri, o rasperi, sono anche loro dei giurati che hanno il compito di "andar intorno a visitar tutti quelli che vendono a minuto... carne di macello, sale, formaggio, oglio, carne salata". Essi, oltre ad un controllo sulle misure, esercitano anche un controllo più fine sulla qualità delle merci e sulle norme igieniche adottate. Se scoprono qualche commerciante in fallo, sono obbligati ad accusarlo pubblicamente. A volte, come a Bardineto, intervengono direttamente sulla merce avariata o insufficiente, distruggendola. Se, ad esempio, trovano del pane di peso non giusto devono "tagliar, rompere, e bruggiare il pane" (162). Un altro controllo affidato ai raspieri è quello sulle macellerie, dove si verifica che non venga venduta carne guasta, o di bestie morte "di morte subitanea", le cui carni, assieme a quelle "gramignose", devono essere vendute lontano dalla beccheria, od almeno in banchi separati. Anche gli osti vengono visitati periodicamente, per con trollare la qualità del vino e l'equità del suo prezzo, che viene fissato dopo che il taverniere ha dichiarato, sotto giuramento, il prezzo di acquisto (163).

Tutti i rivenditori che saranno trovati in fallo, specie se venderanno prodotti a prezzo maggiorato, saranno multati per tre volte consecutive e quindi sarà revocata loro la licenza per un anno. Si fa eccezione per i commercianti di Cosseria che possono vendere a prezzi più alti "attesa la distanza dei detti luoghi che è fin loro et incomodità", una specie di risarcimento quindi per i maggiori oneri di trasporto (164).

Per il loro lavoro di verifica dei pesi e delle misure, i Giuratori ricevono normalmente un compenso in denaro; non è infrequente però la corresponsione ai Giuratori di parte della merce sequestrata, nella misura di un quarto del totale. Con questo sistema, oltre a non avere carichi sui bilanci comunali, le autorità ottengono anche una incentivazione per i controlli che saranno ovviamente i più frequenti e scrupolosi.

Lo stesso discorso vale per i Raspieri, per i quali, anzi, la partecipazione alle cose sequestrate è l'unica mercede (165). Anche per questi ultimi la parte legale corrisponde ad un quarto del totale, eccetto per le carni fresche, di cui possono prelevare la metà. Le altre parti sono assegnate all'autorità civile e alla curia; solo a Calizzano troviamo un eccezione: gli statuti assegnano ai poveri la metà delle merci confiscate (166).