Nei capitoli precedenti si sono passati in rassegna i vari settori dai quali i nostri antenati dell'Ultimo Medioevo potevano trarre il loro sostentamento.
Il quadro che se ne è ottenuto ritengo sia abbastanza esauriente se ci si limita a ricercare la presenza di questo o quell'alimento come possibilità teorica di una sua disponibilità nelle nostre vallate. Come già si era premesso, non è stato sin qui possibile stabilire in quali quantità questi alimenti fossero presenti e neppure la loro ripartizione fra le diverse classi sociali. È ovvio però, allora come oggi, che diversi tipi di potere hanno generato diversi tipi di alimentazione, perché, se forse è vero che l'uomo è quello che mangia, è invece assodato che mangia in rapporto a quello che è.
Nell'Alto Medioevo, ad esempio, un "capo" non può essere tale se non si ciba di molta carne che diventa un segno della sua forza; al contrario privarsi della carne, od esserne privati, è segno di penitenza e di umiliazione, come ben rappresenta anche il precetto cristiano, allora rigidissimo, dell'astensione dalle carni il venerdì (167). Nell'Ultimo Medioevo, invece, le distinzioni alimentari fra i vari ceti sociali hanno assunto altre caratteristiche e differenziazioni. Permane, è vero, ancora la diversa disponibilità di derrate alimentari, che sono praticamente illimitate per i nobili, ma non è questo il solo carattere distintivo. Per la nobiltà è in atto in quel tempo un fenomeno che oggi chiameremmo di "nouvelle cousine", concretizzato nei vari testi di Mastro Martino (1450), di Bartolomeo Platina (1467), di Cristoforo Messisbugo (1549) ed altri, che cominciano a circolare manoscritti fra i cuochi di corte, con l'effetto di mutare profondamente le mode alimentari del tempo (168).
Gli stessi medici - tra cui Giacomo Albini, medico di corte Savoia - teorizzano un doppio regime alimentare, a seconda che ci si rivolga ai nobili, od ai ceti inferiori. Si creano così dei veri e proprii "tabù alimentari di classe" che - come sostiene A.M. Nada Patrone - creano dei codici di comportamento ben precisi. Al nobile non è consentito di cibarsi di cibi rustici, pena malattie e dolori, mentre per i popolani è cosa disdicevole cibarsi di cibi raffinati che il loro stomaco grossolano non può assimilare. Queste concezioni prospettate dall'Albini già all'inizio del XIV sec., vengono riprese nelle pubblicazioni di Antonio Guainerio (metà del XIV sec.) e di Pietro da Monte Bairo (fine del XV sec.) - entrambi collegati alla corte sabauda - che rappresentano la cultura medica dominante in una regione a noi molto vicina. Ai nobili viene così consigliato l'uso di alimenti raffinati ed esotici, che contribuiscono a scavare un ulteriore solco fra la loro e l'alimentazione del popolo, che rimane più tradizionale e statica. Le frequenti raccomandazioni dei medici ad attenersi alle diete, lasciano però trasparire frequenti trasgressioni dei nobili verso la cucina povera, benché spesso l'arte di arrangiarsi e la necessità provochino anche in questa dei lenti, ma significativi cambiamenti (169).
Una delle distinzioni più marcate - di lungo periodo, dice Braudel - che ancora sussistono tra la cucina popolare e quella nobiliare sono i condimenti o "fondi di cottura". L'opposizione fra grassi animali e vegetali non ha diviso solo il vecchio mondo in due parti ben distinte - il Mediterraneo ed il continente - ma, nel nostro caso, anche due tipi di cucine (170). Abbiamo già visto che in val Bormida l'olio di oliva, benché in vendita al minuto (ma chi poteva comprarlo?), è un alimento di appannaggio d.ei nobili e degli ecclesiastici, ed anche il burro, che compare già nel XIII secolo col nome di "botiro", è ancora un elemento di lusso.
Al popolo rimangono i condimenti tradizionali, cioè lardo e strutto, con netta prevalenza del primo, che si confeziona semplicemente salando il grasso dei numerosi maiali e che ha il vantaggio di essere condimento ed alimento insieme.
Il lardo è dunque il prodotto base per la nostra cucina popolare, sia che si tratti di minestre o di fritti, ed è appena integrato da quel poco olio di oliva o di noci che le scarse finanze permettono. Forse per coloro che possiedono una mucca si può ipotizzare l'uso del burro, prodotto che però si conserva male (irrancidisce facilmente) e che si preferisce vendere per realizzare un'altra piccola entrata. I nobili possano accedere facilmente a tutta una gamma di prodotti cari e rari, che sono preclusi alla gente comune: tra i prodotti di moda è già stato citato lo zucchero, che e, ad un tempo, medicina ed alimento raffinato (171). Lo stesso si può dire del riso, prodotto che diverrà poi popolare, ma che all'inizio è riservato agli stomaci signorili. Numerosi altri sono i vizi alimentari dei signori, ancora rappresentati dai prodotti esotici tradizionali - spezie, arance, crisomille (albicocche), datteri, uve passe, melograni, canditi, etc., che presto verranno sostituiti dal caffè, dal cioccolato, e dal the, le nuove e costose mode frutto delle recenti scoperte geografiche (172).
La cucina del popolo e dei nobili, prima solo parzialmente differenziate, sono destinate a divaricarsi molto in questo periodo, in cui i nobili diventano padroni del bello, ma soprattutto del buono.
Non è facile in generale trovare documenti che riportino annota zioni o liste di spese alimentari anche presso le famiglie nobili; sono perciò da considerare vere e proprie eccezioni i rari menù di pranzi famosi che ci sono fortunosamente giunti. Uno di questi è un pranzo nuziale che si svolge nel 1368 e che per noi è tanto più eccezionale in quanto l'illustre cronista è addirittura Galeotto Del Carretto che lo descrive nelle sue "Cronache del Monferrato", una delle quali, in ottava rima, verrà qui presa in considerazione.
Galeotto Del Carretto fu Signore di Millesimo - come testimonia una pergamena autografa conservata nell'Archivio comunale - ma visse stabilmente a Casale presso i Marchesi Paleologi, mecenati di questo poeta che verrà ad occupare un piccolo, ma non insignificante posto nella letteratura italiana (173). È su incarico del marchese Bonifacio che Galeotto scrive le due Cronache in cui descrive il festoso convivio nuziale di Leonello, erede di Edoardo III d'Inghilterra, e Violante, figlia di Galeazzo Visconti, che, presto vedova, andrà poi in sposa a Secondo Otto Paleologo. Galeotto, che vive tra la seconda metà del XV secolo e il 1530, non è dunque testimone oculare della vicenda, ha però accesso a testimonianze di prima. mano per quello che fu certamente un avvenimento mondano di prima grandezza tanto da annoverare tra gli invitati anche il sommo poeta Francesco Petrarca.
Immaginiamo dunque di entrare nella sala arredata sfarzosamente per questo pranzo. La cosa che colpisce per prima lo sguardo sono le grandi tavole rettangolari disposte nella sala a forma di elle e coperte da una doppia tovaglia bianca (174).
La tovaglia più pesante ricade quasi fino a terra, mentre quella più leggera e più corta servirà ai commensali per asciugarsi la bocca e le mani, non essendo in uso il tovagliolo personale. Lungo le pareti della stanza sono disposte le credenze, i cui ripiani, più o meno numerosi, sono un simbolo del lignaggio e dell'agiatezza del padrone di casa. Lungo le tavole stanno disposte le sedie, riservate ai personaggi più illustri e le panche con schienali e cuscini per i personaggi di minor riguardo. Il vasellame sulle tavole è quello delle grandi occasioni: vasi di metalli preziosi, di onice, di madreperla stanno a testimoniare la potenza dell'ospite e il riguardo in cui tiene gli invitati. Queste stoviglie sono di uso comune, le uniche che normalmente venivano poste sulla tavola. In questa occasione del tutto eccezionale è probabile che gli ospiti siano forniti anche di un piatto singolo, cosa che normalmente è sostituita da fette di pane spesso alcuni centimetri o da focacce non lievitate che poi, condite dall'unto dei cibi, verranno usate nella zuppa della servitù, o distribuite ai poveri.
Data la sontuosità del pranzo, ogni coperto è quasi sicuramente corredato da una coppa, un coltello ed un cucchiaio - cosa che normalmente non avviene - specie per il coltello che è quasi sempre personale dell'invitato (175). Non compaiono sulla tavola, invece, le forchette che ancora non sono in uso, ad eccezione dei forchettoni a due rebbi che si usano per tagliare gli arrosti.
Prendiamo dunque posto alla mensa secondo l'ordine che il cerimoniere ha assegnato ai convitati in base all'importanza di ciascuno. Essere ammesso alla "stessa tovaglia" del personaggio più importante significa essere tenuti in grande considerazione, come succede in questa occasione a Francesco Petrarca che ha l'onore di essere chiamato alla mensa dei Principi (176). Ma cediamo la parola al nostro illustre cronista ed entriamo, come si direbbe nel lin guaggio televisivo, "in diretta" a seguire le numerose "imbandigioni" o portate, accompagnate ogni volta da preziosi regali che vengono via via offerti agli sposi ed in particolare al Duca Leonello, che è l'ospite più importante:
"Poi el convito che nel dì solenne Fuò fatto nelle nocie a discom ben ti Fuò questo, che gran copia prima venne De eleganti et nobili serventi, La qual in piatti grandi in Sor man tenne Porcelli aerati, ch'ebber lumi ardenti In bocca, et doi levrieri coi collarij Di seta et Bacia di colori varia.".
Il pranzo inizia dunque alla grande e nella più tipica tradizione medioevale che prevede come prima portata un robusto piatto di carne. In questo caso si tratta di maialetti arrosto Turati" cioè cosparsi di polvere d'oro e con in bocca "lumi ardenti", particolari questi sono studiati per stupire i presenti, già colpiti dalla presentazione scenica di questa prima "imbandigione" trasportata in sala da "eleganti serventi" seguiti dal primo dono: i due levrieri riccamente addobbati con collari e lacci di seta variamente colorati.
"Lepre dorate, et lucij a quella mensa Ne l'altra imbadison fuoron portati Con dei levrieri una gran mandra et densa Con collar d'oro et Bacia lavorati, Con gran bottoni d'infinita spessa Carchi di perle, et altri anchor smaltati, Et fatti a la devisa del Signore a cui fatto era questo degno Sonore.
Poi a la tercia i nobili scudieri Un gran vitello aerato alhor portano Con trote, et sei alani et sei striveri, Di quai ciascun havea un bel collaro Di seta et fibie aerate, et Bacia neri; Poi a la quarta questi presentaro Quaglie dorate, tortorelle et starne, con temri aerati inseme a quella carne.
Poi dodeci sparvier perfetti et buoni, con le sue Conghe et con sonagli aerati, Le Conghe eran di seta, et bei bottoni Havevano di perle reclamati: Poi vinti quattro bracchi coi cordoni Di seta et oro lavorati I quali bracchi fuorono veraci, Et nel cerchar ocelli asai sagaci.
Anatre, ayroni, et carpe sperte d'oro Fuoron portate dai scudieri eletti, Et sei falconi peregrin con loro Altani, sagij, et nel valor perfetti, Le Conghe coi botton coperti Foro Di perle, et parimenti i capelletti, l'arme a Por getti fuorono smaltate A l'insegna del Duca lavorate".
Ogni tipo di selvaggina compare alla mensa dei nobili: siamo arrivati solamente alla quinta imbandigione e già possiamo renderci conto dell'importanza, anche come immagine di forza, che la carne ha nel Medioevo. Interessante l'abbinamento costante che in questo caso abbiamo della carne con il pesce. Ricordiamoci però che qui siamo in Pianura Padana e le trote, i temoli, le carpe e gli storioni sono pesci facili da trovare (177). Continuano intanto i regali sotto forma soprattutto di cani da caccia: alani, bracchi e levrieri che, somma raffinatezza, portano bottoni smaltati con i colori del Signore a cui verranno donati. Anche gli sparvieri ed i falconi, riccamente adorni di sete e perle, sono apprezzati dai nobili per un tipo di caccia che, come abbiamo visto a Calizzano, è di loro esclusivo appannaggio.
"La senta imbandison, che può portata, Far storioni grossi in l'acqua cotti Con la carne del bue, et a l'agliata Caponi in piatti dismembrati et rotti: Dese panciere ogniuna lavorata De fino azale et Tibie con de' motti Et segni del Signor già nominato, Et ogni mazo tutto era dorato".
Con questa imbandigione inizia la seconda parte del pranzo, in cui si passa dalla fantasmagorica serie di arrosti a portate più "leggere". Cambiano i gusti che vengono proposti: finite le pietanze coperte di polvere d'oro, si inizia la serie delle salse. Abbiamo qui storioni cotti in acqua, carne di bue e capponi, anche loro presumibilmente bolliti, accompagnati dall'agliata, una delle salse più tipiche del medioevo. L'agliata è costituita da diversi ingredienti tra cui ovviamente l'aglio, che viene dosato secondo il gusto. Come legante si usa un pesto di mandorle - un altro gusto caratteristico dell'epoca - e un trito di mollica di pane imbevuta di brodo o di aceto (178).
Con la settima portata si passa ad un piatto di carne, i capponi, probabilmente fritti con lardo e cipolle. Il gusto, nuovamente for te, viene però attenuato ed ingentilito dall'aggiunta di succo di limone od anche delle più esotiche e ricercate arance amare o "cetrangoli" (179).
"La septima caponi in Simonia Inseme con tenche grosse et belle, Et dodece armature a giostra Pavia Con lancie, scudi, et elmi, et ferree selle; Et Domenini fatti con maestria, Et schibbe relucenti come stelle; Et gli vestiti tutti quanti aerati Con Tibie et spranghe d'oro lavorate.
L'ostava fu di bue con pastelli Inseme con pastei d'anguille grosse, Con dodeci armature inanti a quelli Da guerra d'aspettar grande perchosse: La nona far portati in gran piatelli Di carne et pescie gellatine rosse, Con decie pecie de brochato d'oro, Dece de seta con sottil lavoro.
La decima può carne in gellatina Acerba alquanto per più dar talento, Con gran lamprede in salsa Camerina Avolte ch'in gran piatti erano drento, Doi vasi argenti al par de ziga fina, Et sei bacili et sei bochal d'argento, Et l'uno e l'altro vaso era repieno Di perfetta vernacia et malvaceno".
Particolarmente raffinata risulta l'ottava portata costituita da pasticci di carne e di anguille elegantemente racchiusi in una crosta di pasta (180). Questa raffinatezza, così come la carne ed il pesce presentati nella nona e decima imbandigione, continuano nella linea dei gusti più morbidi e stemperati. Per le ultime portate la variante è costituita dall'aggiunta delle gelatine di carne e delle salse colorate che creano un effetto cromatico del tutto insolito per le pietanze medioevali, che sono normalmente piuttosto smorte. Le gelatine rosse sono colorate, come suggeriscono i testi dell'epoca, con i frutti del corniolo, un arbusto abbastanza comune anche in val Bormida (181). La gelatina bianca veniva invece schiarita con aceto, o con agresto, che forniva anche un gusto d'agro (acerbo) che veniva molto apprezzato (182). La salsa camellina, chiamata così per il caratteristico colore giallino, veniva invece eseguita pestando assieme mandorle pelate, uva passa e mollica di pane intrisa di vino rosso, a cui si aggiungevano vari tipi di spezie a seconda del gusto personale (183).
La cronaca del pranzo non aveva citato sinora nessun tipo di bevanda, Galeotto vi pone rimedio nominando due vini famosi, la vernaccia e la malvasia, che evidentemente erano i vini serviti ai convitati (184). Continuano intanto ad essere presentati i regali di nozze che sono adesso costituiti da armature, lance e scudi, ed ancora pezze di broccato e di seta insieme a bacili e vasi d'argento. L'offerta dei doni serve evidentemente anche da intermezzo tra una portata e l'altra di questo interminabile pranzo, è probabile inoltre che i presenti siano allietati da musici e da buffoni di corte. E forse lo stesso Petrarca, "ospite d'onore" in questo pranzo spettacolo, avrà declamato qualche suo verso in onore degli sposi. Ma ripassiamo la parola al nostro cronista per assistere alla terza parte del pranzo:
"L'undecima di paperi et capretti Inseme con agoni ben rostiti, Con sei piccol corseri ma perfetti Di selle et finimenti ben guarniti; I quali fra molti altri Foro eletti, A ciò ch'al Sposo fosser più graditi, Sei lancie con sei tarche, et sei capelli, Con Tibie et mazij deaurati et belli.
L'altra vivanda, quale può portata A mensa dagli detti già scuderia Fur capri et lepre, et drieto altra brigata Portava certi pesci alquanto neri: Drieto a costoro fu poi presentata Sei belli, destri, et validi corseri, con selle et fornimenti d'or smaltati, Con lancie, et tarche, et con capelli aerati.
La tredicesima poi imbandisone Fur cervi et boi, et pesci rinversati, Con sei piccol corseri al paragone, Con fiocchi rossi et freni deaurati, Et ciascheduno havea un bel bottone Di seta con sei fiocchi lavorati, Et le capecie de veduto verde, Et nulla cosa de decor si perde.
Polastri rossi et verdi con saponi Et pome arancie la portata Foro, Insaeme con rinversi gran tenchoni, I quai anchor portati fur da loro: Poi sei corser de giostra belli et buoni, Capecie di veduto et freni in oro Ben lavorati tutti quelli haveano, Et fiocchi co bottoni anchor teneano".
Siamo tornati, in questa fase del banchetto, a portate simili a quelle della prima parte con arrosti di carne e di selvaggina accompagnati ancora da ogni sorta di pesce. Non sono stati citati sinora contorni di verdure, che compaiono invece nella portata successiva dove, assieme a giovani piccioni delicatamente avvolti in foglie di cavolo, vengono serviti anche dei fagioli (185). Un altro boccone da principi viene servito subito dopo: sono le lingue di vitello in sala moia, che, come abbiamo visto anche a Millesimo, un'antica consuetudine riservava ai nobili (186).
"Fasioli et cauli avolti ad pipioni Con molte lingue salse anchor de boi, Fuoron portati et molti carpioni In altra imbandison da collor poi: Un manto et un capucio et doi zuponi, Ch'havean tutti i guarnimenti soi, El manto d'armelino era suffolto, El bel capucio in grosse perle avolto.
Ne l'altra venne el rosto de conigli Inseme con pavoni et anatrelle; Venevan drieto a questi altri famigli Con anguille rostite in gran scutelle: Un gran bacil poi venne, ch'in l'artigli Havea uno scudiero con due foglie belle De gran gioielli, di smeraldi, et perle, Et altre gemme belle da vederle.
Un bel rubino poi et un diamante Con una grossa perla in aureo anello, Et quatro cinti in tutte quante Le parti, e poi quel giorno un viepiù bello, Et molte gemme preciose tanto In quel convito fur donate a quello: In l'altra caseo con gionchate poi Vennero al fine et dodece gran boi".
Dopo un'altra serie di arrosti, siamo con questa alla sedicesima imbandigione, il pranzo volge al termine. Vengono serviti cibi piuttosto ricercati ed inconsueti: i conigli non sono, infatti, troppo frequenti negli allevamenti domestici, così come i pavoni, che vengono allevati, oltre che per la bellezza del piumaggio, anche per la carne saporita. La presentazione di questo piatto doveva essere estremamente scenografica se dobbiamo credere ad una ricetta del tempo che prevede di portare il pavone in tavola rivestito dalle sue piume e con il becco che soffia fuoco, ottenuto mediante l'accensione di un batuffolo di bambagia intriso di canfora (187).
La penultima portata è costituita dai formaggi e dalle giuncate, un formaggio freschissimo e molle che viene ancora prodotto anche in val Bormida.
La frutta chiude il convito e, poiché siamo in maggio, possiamo scommettere sulla presenza delle "ciriege", oltre che delle allora rare "Pome arancie" già citate prima.
" Vennero i frutti a l'ultimo a la mensa, Inseme con doi belli gran corsero Quai far del Conte de Virtù d'immensa Grandezza, ben formati, alti et legeri; Et l'uno et l'altro a Leonel dispensa, il quale li acceptò ben volentieri: L'Abate l'un de doi haveva nome, L'altro Leon con le crinite chiome".
Galeotto Del Carretto scrive la cronaca del pranzo di nozze tra Violante e Leonello presumibilmente nel 1493, cioè oltre cento anni dopo i fatti descritti.
Egli può quindi già rendersi conto di un certo cambiamento nei modi di mangiare, anche se possiamo pensare che nelle corti di provincia (e per quanto ci riguarda anche in val Bormida) queste innovazioni entrino con un certo ritardo. E anche senza spingere all'eccesso il termine di paragone con un banchetto che fu certamente al di fuori del comune, si può tentare un confronto fra questo ed il successivo modo di affrontare un pranzo. Quello che viene descritto da Galeotto è, infatti, ancora un banchetto in cui la successione delle portate segue in pieno la tradizione medioevale. Si inizia anzitutto con una robusta portata di carne arrosto, alimento che caratterizzerà anche le imbandigioni successive della prima parte del pranzo. Le portate di mezzo tendono a divenire più leggere e dai gusti più stemperati, per tornare alle carni arrosto della terza parte, chiusa poi dai formaggi e dalla frutta. È da rilevare inoltre che il cibo è qui visto, secondo l'ottica medioevale, come mezzo per esternare la propria superiorità e che l'abbondanza di carne è, ricordiamolo, simbolo di potenza, anche intesa come prestanza fisica.
Collegati a questo periodo sono alcuni testi come il "Libro della cocina" di Anonimo Toscano e il "Libro per cuoco" di Anonimo Veneziano in cui troviamo ricette molto simili, se non uguali, a quelle proposte nel pranzo di nozze, alcune delle quali sono state citate in nota (188).
Un salto di qualità notevole lo abbiamo, invece, verso la metà del Quattrocento con il "Libro de arte coquinaria" di mastro Martino: un cuoco nativo di Como, ma che esercita a Roma al servizio del "Revendissimo Monsignor Camorlengo et Patriarcha de Aquileia". Questa opera è importante innanzi tutto perché è strutturata secondo un disegno preciso ed organico e poi perché è probabile che abbia raggiunto, benché sotto forma di manoscritto, una certa diffusione nelle corti del tempo (189). In secondo luogo l'opera di Mastro Martino è la fonte ispiratrice di Bartolomeo Platina, cre monese trapiantato a Roma, che con il suo "De honesta voluptade et valetudine" traccia le linee, diciamo Cosi "ideologiche", del nuovo modo di mangiare. "Il piacere onesto e la buona salute)> che il Platina scrive nel 1467, non è più solamente un ricettario, come il libro di Mastro Martino, bensi un vero e proprio trattato in cui le ricette sono inserite in una più ampia visione morale del problema cibo (190). Il fatto che un'intera opera, con velleità letterarie, sia dedicata a questo argomento è di per se emblematico di un notevole cambiamento di mentalità nei confronti del mangiare. Il cibo non deve più solo servire per il sostentamento (un concetto cristiano tipico degli asceti medioevali), ma esso può e deve dare "piacere" (benché "onesto"); una piccola rivoluzione che il Platina difende accoratamente nell'introduzione del suo libro: "È del tutto falso che la materia da me intrapresa a trattare non si addice a un uomo civile". E continua: "Vorrei che quanti mi accusano di occuparmi di cibi come se fossi un goloso ed un ingordo e quasi avessi l'intenzione di aggiungere nuovi strumenti di libidine per eccitare ancor più gli intermperanti e gli scellerati, vorrei, ripeto, che costoro fossero moderati e parsimoniosi come lo è il Platina". Un'autodifesa che è indice di un cambiamento non ancora pienamente accettato e in via di evoluzione: proprio questo fatto rende importante l'opera del Platina che viene a costituire il termine di paragone tra il vecchio e il nuovo modo di mangiare. Le differenze con il periodo precedente si misurano già nei primi capitoli, dove si consiglia come preparare la sala da pranzo in maniera ricercata: "In primavera è bene spargere fiori sul triclinio e sulle tavole - dice il Platina - d'inverno bruciare profumi. D'estate si ricopre il pavimento con fronde di piante odorose, di vite e di salice, che rinfrescano l'ambiente. D'autunno si appendano al soffitto uve mature, pere, mele. Bianchi siano i tovaglioli, candida la tovaglia, altrimenti danno fastidio e tolgono la voglia di mangiare. Il servo ha da pulire accuratamente i coltelli e tenere la lama ben affilata..." Oltre a queste novità, tra cui è da notare l'uso oramai consueto del tovagliolo, anche la scansione delle portate subisce una variazione sostanziale. Dice ancora Bartolomeo Platina: "Nello scegliere i cibi si deve osservare un certo ordine, poiché all'inizio del pranzo si possono mangiare senza timore e con più gusto quelle cose che mettono in movimento lo stomaco e che danno un nutrimento leggero e misurato, come le mele e qualche pera. Aggiungo anche le lattughe e tutto ciò che si può prendere di crudo e di cotto da condirsi con olio e aceto. Inoltre quanto mai opportunamente si imbandiscono ai convitati, in particolare, le uova da sorbire e certi "tragemata" che noi chiamiamo confetture di spezie e pinoli, candite con miele e zucchero".
L'abitudine di iniziare i pasti con della frutta non è comunque ancora normale neppure fra i nobili, come testimoniano i seguenti versi di Lorenzo de' Medici:
"Queste frutta è ancor usanza che si mangia dietro cena a noi pare un'ignoranza a smaltire è poi 'n pena, Par però fate un pò voi dell'usante innanzi o poi, ma dianzi non fan male, sì, credete, il detto vale!"
La seconda portata è costituita dalle carni, che vengono distinte e preferite in rapporto al sesso, all'età, alle singole parti. In generale sono preferite le femmine e apprezzati i castrati, i maschi si possono mangiare solo se spinti dalla necessità. Normalmente si preferiscono gli animali piuttosto giovani, anche se un maiale è considerato giovane quando va dai sei mesi ad un anno. Fra gli animali sono più pregiati quelli di montagna, piuttosto che di pianura e meno che mai quelli che vivono in zone paludose. Sempre il Platina consiglia per l'inverno carni che diano calore, come quelle dei piccioni, dei tordi e dei merli, mentre d'estate è bene mangiare carni che rinfrescano come i capretti e le pollastrelle. Coturnici e beccafichi sono consigliati in autunno, mentre in primavera sono indicati gli uccelletti presi dal nido, non appena abbiano messo le penne.
È una classificazione evidentemente non scientifica che risente di empirismi e vere e proprie superstizioni. Un aspetto questo che risulta evidente là dove si sostiene che il cervello di lepre o di coniglio funzioni da ottimo controveleno, o che mangiare il cuore acuisce la malinconia, cosa che avviene anche cibandosi della milza. "L'alimento più salutare - sostiene ancora il Platina - sono le ali degli uccelli, specie quelle delle galline e delle oche: grazie al loro movimento perdono infatti qualsiasi umore nocivo". Affermazioni che si commentano da se, ma che rispecchiano un modo di pensare allora dominante, di cui però non dobbiamo stupirci troppo visto che in alcuni casi (emblematico quello dei funghi) sopravvivono ancora oggi. Al di là di questi aspetti folcloristici, c'è ancora da annotare, a proposito della seconda portata, la diffusione e la varietà dei numerosi intingoli che vengono proposti. L'uso delle salse come accompagnamento delle carni è sempre stato consueto sia per variare il monotono gusto dei cibi, sia per coprire od attenuare i non definibili sapori della carne mal conservata. Già nel banchetto descritto da Galeotto ne sono state nominate alcune ma in questo periodo successivo le salse e gli intingoli si moltiplicano sia come gusti che come colori.
Platina ne descrive ben ventidue, anche se, moralista com'è, ne approva l'uso solo per "risvegliare l'appetito, specie nel caso esso sia venuto meno per malattia o per il troppo caldo o per un onesto lavoro" (191). Poco più sotto, però, lui stesso ammette che il mondo percorre strade diverse ed "usa queste salse senza misura, quali eccessivi strumenti di libidine". Parole grosse e sproporzionate che rivelano però questa nuova passione del tempo. Qualcuno vuole addirittura sostenere che questo rinnovamento della cucina italiana sia stato l'inizio anche della grande cucina francese, a seguito dell'arrivo in Francia dello stuolo di cuochi che Caterina de Medici portò con se al momento del suo matrimonio con il futuro re di Francia, Enrico III. Un'altra variante rispetto al passato la troviamo in un successivo capitolo dell'"Honesta voluptade..." dedicato alle "Pietanze in torta". In esso Platina lamenta che "Le gole delicate della gente d'oggi esigono pasticci di carne d'uccelli o di altri animali da cortile, non di prodotti dell'orto... giudican doli vivande de servi", si duole cioè che si prediligano le torte "galliche" (o di carne) a quelle "pitagoriche" così chiamate perché legate alla tradizione vegetariana dei seguaci di Pitagora. L'abbondanza di fritti descritti nel capitolo successivo sta a significare un uso abituale di questo modo di cucinare i cibi: sono descritte frittelle di sambuco, di latte rappreso, di salvia, di mele, di pesce ed infine le famose "frittelle di vento", molto simili alle nostre "bugie" di Carnevale. Per friggere normalmente si usa lo strutto o l'olio di oliva; più raramente viene citato il burro. Dopo un intero capitolo dedicato alla cottura dei pesci, il Platina passa in rassegna "che cosa si debba prendere alla terza portata per sigillare lo stomaco a conclusione del pranzo)>. Dopo le carni sia arrostite che lesse si consigliano mele e pere acerbe; dopo i pesci sono invece preferibili mandorle, nocciole o noci, "poiché con la loro natura asciutta si ritiene che possano ovviare alla forza fredda ed umida dei pesci". Probabilmente è invece molto diffuso l'uso, a questo punto del pranzo, di formaggio stagionato. "I commensali più raffinati - continua il Platina - mangiano anici e semi di coriandolo canditi con zucchero", ma soggiunge, quasi sconsolatamente, "tutti mangiano castagne, che hanno una natura fredda e secca" (192).
Non disapprova, invece l'abitudine di "mangiare cotogne e melagrane, soprattutto se acerbe".
Questa ultima contrapposizione fra i cibi raffinati e quelli rustici è condivisa e codificata anche dai testi medici del tempo. In assenza dei moderni persuasori occulti (i mass-media) che ci convincono della bontà anche terapeutica ora di questo ora di quel prodotto, nel XV sec. sono proprio medici, come Guainerio o Bario, che teorizzano la separazione degli alimenti ricchi da quelli poveri (193). O meglio: degli alimenti adatti ai ricchi, da quelli adatti ai poveri. Il regime alimentare consigliato presenta una netta preponderanza di proteine animali e una carenza di sali minerali e di vitamine dovuta alla quasi totale assenza di frutta ed ortaggi freschi. Al massimo si consiglia l'uso di erbe, come la malva e la borragine, che sono ritenute medicinali e depurative. Al contrario si suggerisce il consumo di ogni tipo di carni, purché giovani, ivi comprensa la selvaggina. Anche gli uccelli sono accettati purché vissuti liberi: il cuore di rondine è addirittura ritenuto un efficace rimedio contro l'epilessia. L'uso dei pesci freschi è approvato solo se essi sono di acqua corrente; non sono invece apprezzate anguille e tinche perché di natura "vischiosa". Poco adatti al delicato stomaco dei ricchi sembrano tutti i legumi, cosi come gli agli e le cipolle, più adatte al rustico intestino dei poveri. Tra la frutta si consiglia solo quella più rara come gli agrumi, i melograni o le "mele odorifere", nonché tutta la frutta secca. L'uso del vino deve essere moderato con preferenza per i vini rosati o bianchi, se in estate.
Al di là però dal rilevare la sostanziale concordia fra queste nuove tesi mediche e lo schema di pranzo proposto dal Platina, non credo si possa ragionevolmente andare. Certamente qualcosa è cam biato nel modo di alimentarsi, ma nulla ci garantisce che i nobili si attenessero effettivamente a questa dieta. Anche facendo riferimento al tipo di regalie richieste dai Del Carretto nel contratto di affitto del 1501, possiamo renderci conto che essi si adattavano bene a consumare cibi più rustici purché, ovviamente, di prima qualità (194). Dove ci si distingue veramente, oltre che per la carne, è nei condimenti e nell'uso, e abuso, di spezie e di altri prodotti esotici e costosi, che venivano esibiti durante il pranzo a suggello del proprio successo sociale.
La cucina, o meglio la "cocina", come si diceva allora, è il locale della casa che contiene il focolare e le attrezzature per cucinare i cibi. Per i nobili la cucina è costituita da una stanza appositamente attrezzata; per le classi meno abbienti, invece, la cucina è il locale della casa dove si svolge la maggior parte della vita familiare; nei mesi invernali, anzi, diviene l'unica stanza abitata, poiché dispone del camino, unica fonte di calore di tutta l'abitazione. Questo problema è di grande importanza, specie nelle nostre valli, se si tiene anche conto che allora le finestre non posseggono vetrature, ma sono semplicemente chiuse con degli "scuri" di legno, cioè delle tavole che offrono una protezione molto relativa.
Chi possiede una stalla, spesso di notte vi si trasferisce per sfruttare il calore degli animali; agli altri, per combattere il gelo, non resta che radunarsi attorno alle braci del focolare. La cucina dei poveri non contiene molte suppellettili, come possiamo dedurre anche dall'elenco delle masserizie di Peirotto Romana di Calizzano annotate nel 1493 dal notaio Panzia (195). Le attrezzature principali che vi compaiono sono una madia per confezionare e per conservare il pane, un setaccio per la farina (che non veniva abburrattata al mulino), una secchia di legno per attingere l'acqua, eventualmente un barilotto od una giara per conservarla, qualche piatto grande di terracotta, qualche scodella di legno, che diventa di stagno se si è più abbienti. Possono ancora comparire alcune brocche, qualche coltello, un tagliere su cui si taglia quasi esclusivamente il pane raffermo, visto che questo alimento viene prodotto una volta ogni tanto, spesso a distanza anche di oltre un mese. Un attrezzo che compare in tutte le famiglie è il paiolo che, assieme alla relativa catena, non è neppure pignorabile, come abbiamo visto negli Statuti di Calizzano (196).
I paioli, o "lebeti", sono normalmente di rame - prodotti in loco dai numerosi artigiani comaschi che vivono e lavorano nella valle - ma possono essere anche di pietra, come si deduce dalle numerose citazioni nei rogiti notarili di Calizzano.
Piuttosto frequente doveva essere anche il mortaio, che serve essenzialmente per pestare il sale, e che é normalmente di legno o di pietra e, più raramente, di marmo.
In assenza di piatti singoli, si mangia in scodelle o direttamente dallo stesso recipiente con cucchiai di legno o, se il tipo di cibo lo consente, direttamente con le mani, cosa che peraltro abbiamo visto fare anche ai nobili. La luce è fornita direttamente dalle fiamme del fuoco o da lucerne alimentate con vari tipi di oli e di grassi od anche da candele di sego o di cera d'api (197).
La cucina povera, intesa adesso come insieme dei cibi cucinati, ha alla base un composto glucidico costituito dal pane, dalle polente (o dalle "panizze") e, durante l'inverno, dalle castagne.
Il pane, in particolare, era l'alimento centrale per i popolani e i poveri: lo abbiamo visto confezionato con ogni tipo di granaglie nelle carestie e durante le guerre. Segale e frumento, orzo e avena, sorgo e grano saraceno, miglio e panico, castagne e persino ghiande entrano negli impasti con cui si tenta, comunque, di produrre l'agognato nutrimento.
Un ragionamento analogo lo si deve fare per le polente, le grige polente medievali che verranno sostituite dalle solari polente di granoturco: un prodotto sconosciuto in val Bormida almeno fino al XVII secolo. Le farine dei cereali inferiori, ma anche dei ceci, delle fave e di altri legumi vengono cotte nei paioli sotto i camini: le polente cosi ottenute vengono consumate calde, abbinate a latte fresco, oppure semplicemente condite con N'aire d'l'us", cioè con N'aria della porta", come recita una ironica ricetta delle valli occitane piemontesi (198).
Quando si può, ovviamente, si cercano abbinamenti più gustosi, ed allora ecco entrare in campo i condimenti costituiti essenzialmente da derivati di grassi animali e in particolare dal lardo: un prodotto che è, più o meno, alla portata di tutti, anche dei meno abbienti. Anche il formaggio, un altro prodotto molto comune, entra in abbinamento con le polente, sia come completamento dopo la cottura - tipico, a questo proposito, il "bruz" - sia come ingrediente vero e proprio: come testimoniano le numerose polente "taragna" (a ragnatela, per i tipici filamenti del formaggio fuso) che alcune cucine contadine ci hanno tramandato (199). In val Bormida, infine, si può ricordare il "sugo infernale", a base di aglio con l'eventuale aggiunta di qualche acciuga o il classico sugo di porri, crema di latte (panna) e funghi secchi, che viene ancora oggi abbinato ad una tipica ricetta della cucina povera: la polenta bianca di Calizzano.
Nei paioli, che borbottavano per ore sotto il caminetto, troviamo però anche zuppe di legumi (magari spezzati), fra cui tipica doveva essere la minestra di ceci, sopravvissuta sino ai nostri giorni come caratteristico piatto del giorno dei Morti. Ancora appartenente alla categoria degli alimenti glucidici è, infine, il cibo tipico dell'inverno: le castagne. Questo frutto dei nostri boschi viene consumato fresco sotto forma di "rustie" (arrostite) o "balletti" (bollite con la pelle). Se le castagne sono ormai appassite, si toglie la cuticola esterna (cosa che consente anche di eliminare il prodotto ammuffito) e abbiamo le "pròie" (pelate) che vengono bollite e aromatizzate con finocchio selvatico. Infine, dopo la seccatura e la battitura che asporta la pula, si ottengono le castagne "albae" che vengono bollite cercando di calibrare l'acqua di cottura in modo da non doverne né aggiungere né gettare. In questo modo si ottiene un prodotto quasi caramellato, che ha conservato tutti i principi nutritivi, ma che soprattutto è estremamente gradevole specie se viene consumato abbinato a latte appena munto.
Verso la fine del periodo storico qui considerato è probabile che al pane, alle polente ed alle castagne si affianchi anche la pasta. Questo prodotto, divenuto poi tipico della dieta mediterranea, compare infatti nella "Tabella dei beni calmierati" del Marchesato di Finale (a cui apparteneva buona parte della val Bormida) che, redatta nell'anno 1606, è stata recentemente pubblicata da C. Prestipino nel volume: "Pallare - una terra, la sua gente". Nella lista troviamo citati "Fideli ordinari e maccaroni" a soldi 3 e denari 8 alla libbra: allo stesso prezzo, cioè, del "Formaggio comune". Si può quindi ipotizzare che, in quel periodo, maccheroni e spaghetti fossero alla portata dei ceti meno abbienti, anche perché la loro qualità doveva essere piuttosto scadente, i "Fideli sottili bianchi", di migliore qualità, costano infatti ben 46 soldi, cioè dodici volte tanto.
La carne non compare frequentemente sulle tavole ed è comunque sempre protagonista di momenti particolari. Può essere il matrimonio o la nascita dei figli che portano la carne in tavola, ma si tira il collo alla gallina spesso solo in caso di malattia (200). Può anche essere qualche ricorrenza particolare come Natale o Pasqua, la mietitura o il giorno del Santo Patrono che consentono una pietanza diversa, ma è solo con l'uccisione del maiale che ci si può saziare in questa vivanda. È allora la vera festa, quando la famiglia intera si riunisce, per dare una mano nella confezione delle carni, ma anche per godere assieme del frutto di tante fatiche. La necessità di consumare rapidamente frattaglie facilmente deteriorabili stimola la fantasia contadina che, con i poveri ingredienti, cerca addirittura di gareggiare con le ricche pietanze dei nobili (201). È il caso delle "grive" (frattaglie spezzettate racchiuse dall'omento) il cui stesso nome suona come amaro sberleffo a quegli uccelletti così appetiti dai ricchi. Una specie di rivincita accentuata dal fatto che, nel confezionarle, al prezioso pepe si sostituiscono le bacche di ginepro, succedaneo contadino di un prodotto troppo caro che viene imitato almeno nella forma. Un altro momento conviviale è il Carnevale, e in particolare il Martedì grasso, quando, chi ne è ancora provvisto, dà fondo alle ultime riserve di carne che non potrà più essere consumata nei successivi quaranta giorni della Quaresima.
La Pasqua riapre le ostilità gastronomiche legate all'abbondanza delle uova che si sono accumulate durante la Quaresima perché considerate prodotti animali e quindi vietate. Le uova, abbinate alla raccolta delle tenere erbe dei campi, generano le gustose "artoclee" o torte pasqualine che, tradizionali ancor oggi in Liguria, sono certamente presenti anche in Piemonte, come risulta da qualche testo dell'epoca (202). Le erbe, raccolte nei prati o nell'orto, rappresentano la componente alimentare che apporta vitamine e sali minerali nella dieta dei meno abbienti, assieme alla scarsa frutta fresca disponibile (203).
Le erbe aromatiche locali, che sostituiscono le costose spezie, e l'uso abituale dell'aglio, delle cipolle e dei porri sono un'altra caratteristica della cucina povera. A parte il loro valore nutritivo, questi 89 ortaggi e queste erbe servono soprattutto a portare un po' di varietà nella monotonia, questa si piuttosto accentuata, dei gusti: un pezzo di pane sfregato con uno spicchio d'aglio e magari arricchito da qualche goccia d'olio diventa una gustosa "soma d'ai", una pietanza diversa a dispetto della semplicità degli ingredienti. L'aglio, oltre che in numerose altre ricette, è la componente principale di un'altra salsa tipica della val Bormida e del Piemonte: la "bagna coda". Qui l'aglio compare abbinato ad altri due ingredienti, le acciughe salate e l'olio, che erano assenti nella produzione locale, ma che costituivano oggetto di commercio tra la costa ligure e l'entroterra padano. La tradizione infatti vuole che questo saporito condimento sia stato inventato da uno dei tanti mulattieri, che attraversavano le nostre regioni, sposando splendidamente alcuni ingredienti che aveva a portata di mano. Che sia vera o no questa supposizione, la "bagna coda" è una salsa dal gusto deciso molto adatta ai forti palati popolari. La presenza dell'olio, benché in piccole quantità, la rende forse non troppo frequente sulle tavole, anche se spesso l'olio di oliva è sostituito da quello di noci, nocciole od altri semi oleosi.
Un altro pilastro della alimentazione popolare sono i formaggi. L'abbondanza di latte, che non viene consumato fresco se non in minima parte, obbliga alla produzione del formaggio, unico metodo per utilizzare un prodotto che non può assolutamente andare sprecato. Se dobbiamo credere a Pantaleone da Confienza, in vai Bormida si producono ottime formaggette, ma certamente anche dei formaggi più adatti alla stagionatura (204). Il formaggio è dunque un cibo abituale sulle mense popolari, o perché lo si produce in proprio o perché il costo non è proibitivo, specie se ci si accontenta di formaggi di scarsa qualità. Il cibo dei pastori o dei porcari e in genere di coloro che lavorano lontano da casa, è quasi sempre costituito da pane e cacio, che viene abbinato spesso anche alle innumerevoli polente e potentine prodotte con ogni tipo di farine.
Saltuariamente poi il meno abbiente integra la sua dieta con quanto riesce a racimolare attraverso la caccia e la pesca, spesso condotte di frodo e con metodi non consentiti. Si catturano pesci e gamberi, piccoli uccelli e lumache, ma anche lepri e pernici, tanto più buone perché sottratte al Signore del luogo che normalmente se le riserva (205).
A completare la dieta dei ceti popolani abbiamo poi il vino: un prodotto più o meno buono, ma pur sempre vero alimento, dispensatore di preziose energie.