Era conosciuto da tutti i nobili che dal Monferrato o dal Pie monte solevano recarsi in villa dalle sue parti; li visitava lontano sin dove poteva andare, e tornava in una giornata, e ne aveva avuto sempre doni e carezze. Diceva spesso d’uno molto potente nella 45 corte del Re di Sardegna che gli aveva dato a capire di non saper bene se i preti li avesse a chiamar prima o seconda forza dello Stato; e che a sentir suo nella loro gerarchia un pievano era pari e forse da più d’un capitano in quella dei soldati di Sua Maestà. Del rimanente, ogni volta che tornava su questo discorso, finiva sempre dicendo che agli onori non si doveva badare; la massima che l’uomo non deve porre troppo affetto nelle cose terrene, né in padre, né in madre, l’aveva sulle labbra sovente, come fosse un suo proverbio; forse non aveva mai pianto; prosperava un anno più dell’altro; nel 1794 faceva quasi la sessantina, e il suo nome era don Apollinare.
La donna, arrivata con lui il giorno ch’egli chiamava del suo avvento, era una sua sorella più vecchia che aveva tenuta in casa, creatura spersonita ed infermiccia, che proprio reggeva l’anima coi denti. Era così asciutta e grinzosa che un parente, tornato a vederla dopo mezzo secolo, non avrebbe osato abbracciarla dalla tema di sentirla scricchiolare tra le mani. Sotto la cuffia, che con le guarnizioni la faceva parere più scarna nella faccia, mostrava certi capelli color di cenere, che forse erano una parrucca da far ridere; ma per l’aria soave di purità che spirava da tutta la sua esile persona e dagli occhi pieni d’una grande bontà, era venerata.
La poveretta, bisognosa di consolazioni più che d’aria per vivere, dopo la sua venuta a D..., non ne aveva avuto che quasi la celia, come ad esempio questa che, se la quaresima capitava al presbiterio qualcheduno, recando uova e salati e chiedendo licenza di mangiar latticini e di non digiunare, per sé o per un ammalato; essa, con aria mistica e solenne, lo mandava sciolto dalle discipline del magro e del digiuno, e non dimenticava mai di dire che, a concedere quelle licenze, il vescovo ci aveva messo il pievano e il pievano ci aveva messo lei. Un’altra ne provava facendo il caffè pel suo fratello ogni giorno, e le feste solenni per i sette od otto preti del borgo, che venivano a pigliarlo dopo desinare; beata a sentirli sorbire quella bevanda, che neppure i ricchi dei dintorni non usavano ancora.
I fanciulli non la chiamavano altrimenti che la signora del pievano; al suo nome di Placidia si soleva aggiungere dai più il titolo nobilesco di donna; povera creatura che nulla aveva della donna, salvo che i guai, non essendo mai stata chiesta sposa, né amata, e potendosi dire che l’avevano lasciata vivere per non commettere un peccato mortale.
Don Apollinare, che non aveva mai dato segno di voler bene a questa sorella nei tempi quieti, in quelli torbidi che s’erano messi verso il 1790, la teneva come per darle in casa i resti delle invettive che scagliava in chiesa e fuori contro le cose di Francia. Le quali sul cominciare non gli erano parse di gran momento, e, a chi glie n’aveva chiesto, s’era contentato di rispondere che erano follie di popolaglia, e che, o pane o bastone, avrebbero finito in nulla. Ma il 1791 gli era cascato addosso come se fosse stata la volta del Sancta Sanctorum, e, d’allora in poi, aveva tenuto l’orecchio alzato a tutte le novelle che poteva avere da quel paese. Ad ogni corriere che capitava, ogni mese una volta, si faceva sempre più pensoso; i notabili del borgo gli si raccoglievano intorno spauriti e curiosi; e, gli parlava loro in un linguaggio pieno di misteri, e, se qualcuno osava annunziare di suo cosa che avesse inteso da gente d’altri borghi, o da mulattieri che, pei loro traffici, praticavano verso la Provenza, quello, agli occhi di lui, era pecora vicina a sbrancare, e cominciava a tenerlo d’occhio.
La Dichiarazione dei diritti dell’uomo, avuta per via dei suoi superiori, due anni dopo che se n’era udito parlare, gli aveva fatto passare il giorno più nero di tutto quel tempo. Letta e riletta, meditata a lungo quella scrittura, chiesto a se stesso mille cose circa quei diritti, aveva finito col non capire nulla di nulla; ma in cuor suo rese grazie a Dio d’aver fatto morire un tale suo parrocchiano cui quel foglio sarebbe giunto per certe vie ch’egli sospettava, un tale che si sarebbe fatto in cento per leggere quelle sciocche parole al popolo della pieve.
Quel morto aveva lasciato dietro di sé un figliuolo non di buon ramo; ma egli sperava di poterlo raddurre; e, ad ogni modo, gli tornava meno molesto del padre, confidando nell’opera della madre, che era appunto la signora Maddalena. Con questa s’era lagnato parecchie volte, lasciandosi andare sino a farle la confidenza che Giuliano era la più acuta spina che avesse intorno. Pensava tuttavia che, passati i bollori dell’età giovanile, arrivato sui trenta, si sarebbe messo a vivere più rassegnato, più da buon cristiano con l’interesse e col timor di Dio: e, a voler dire tutta la verità, non gli spiaceva che egli in quei tempi torbidi se ne stesse a Torino. Perché i suoi superiori gli scrivevano sempre d’aprir gli occhi, di star sulle guardie; e, senza che si aggiungesse la briga di dover badare a un giovane fatto di sua testa, che se la sentiva di disputare anche con un monsignore, a lui da fare gli pareva di averne già troppo. Infatti, s’era messo a spiare più attento, a capitare improvviso nelle case, a scrutare le donne chiaccherone; e, come in Dego si stava nei limiti, egli credeva di molto operare per la salvezza del mondo. Ma un giorno mentre che stava desinando, gli fu portato uno scritto del suo vescovo che parlava del re Luigi di Francia, stato giudicato ed ucciso.
- Non può essere! - esclamò egli dando il pugno sulla mensa, per modo che il bicchiere si rovesciò - questa è una celia che mi si vuol fare; se lo scopro guai all’autore! - A queste grida, donna Placidia, che veniva recando un piatto, si fermò sulla soglia guardando il fratello, che le parve ammattito. Egli intanto, tenendo il pugno chiuso e teso verso di lei, rilesse la lettera e vide ai bolli che non v’era da dubitare. - Portate via ogni cosa - continuò allora con voce dimessa - i popoli ammazzano i re, e questi son tempi da far penitenza!
A Donna Placidia la novella non fece né caldo né freddo; tanto più che il vino versato sulla tovaglia e grondante dalla mensa non era segno di disgrazia vicina. Ma egli credè che veramente fosse vicina la fine del mondo, d’udire i cardini del mondo stridere per uscire di posto; la pace da lui serbata in Dego non aveva giovato a nulla e se ne doleva; prese il libro dell’Apocalisse, ora in capo, ora in fondo, lo lesse, lo rilesse, lo predicò dal pulpito spaventando i fedeli che non l’avevano mai inteso parlare a quel modo. Dopo dieci, venti, trenta giorni, vedendo che il sole continuava ad alzarsi dallo stesso lato, si quetò su quel fatto del regicidio: ma gli rimase una gran paura dei Francesi nemici di Dio, uccisori di nobili e di preti, belve che, non più frenate da nessuno, avrebbero invasa la terra e forse anche il suo borgo. A rimettergli il cuore in corpo non ci vollero meno di quelle migliaia di Alemanni, venuti di Lombardia e passati per Dego nell’andarsi a porre a campo vicino a Cairo, borgo tenuto in conto di capitale dell’alte Langhe. La vista di quelle genti, di quelle divise, che ridestavano i ricordi di Marta, ridiede la speranza al pievano; il quale fu il primo ad ossequiare il capitano dell’impero, annoiandolo con una certa orazione latina in cui diceva che i popoli delle Langhe rammentavano d’essere stati sudditi di sua Maestà Imperiale, sino a cinquant’anni addietro, e che bramavano d’essere tenuti dai signori Alemanni come cosa loro. Offerse agli ufficiali la sua casa, la sua cantina, tutto se stesso; e, se d’una cosa si dolse, fu d’aver udito che i più grossi eserciti d’Alemagna si travagliassero su d’un fiume lontano lontano, che si chiamava il Reno. Quella, a sentir lui, era tutta gente sciupata; l’avrebbe voluta tutta lì, lui, tutta in val di Bormida per poterla vedere affacciandosi al balcone, e ridere dei Francesi. Tuttavia, rifatto un po’ più tranquillo, tornò a mangiare gagliardamente, a dormire sonni quieti, a dire ogni mattina alla punta del giorno la sua messa, alla quale s’affollavano i contadini prima d’andare a far giornata nei campi, e vi venivano le serve e le donnicciuole più divote del borgo, tra le quali Marta non mancava mai.
La povera vecchia soleva alzarsi prima dell’alba, e queta queta, si metteva in capo il mesero stampato a uccelli e alberi, camminando in punta di piedi e frenando la tosse mattutina, usciva di casa e saliva in castello. Sentiva la messa, tornava che di solito la padrona era ancora in camera, e s’accingeva alle sue faccende talvolta canterellando, talvolta brontolando, ma sempre festosa come una cuffia nuova.
L’indomani di quella sera in cui Giuliano ne aveva detto di così grosse, la campana del castello cominciava appena a suonare l’avemaria ed essa era bell’e vestita e pronta ad uscire. Giunta alla porta, e tesa la mano per agguantare la chiave, non la trovò nella toppa! Subito rammentò che la sera innanzi la padrona aveva voluto chiudere da sé; pensò che la chiave se l’era portata di sopra, o indovinò anche la cagione di quella novità; ma le parve che non fosse l’ora da andarla a disturbare. Però l’idea di mancare quella mattina alla messa, le fece avvampare il vecchio sangue, e, fattosi animo, salì dalla signora, ebbe la chiave e s’affrettò a rimettere il tempo perduto.
Nell’aria si udiva tuttavia la romba della campana, ed essa, già entrata in chiesa, si rannicchiò nel banco dei padroni, si segnò, lieta d’esser giunta che la messa fosse ancor buona. Ma non potè difendersi dal pensar alla sera innanzi, e quella storia delle chiavi custodite dalla signora, certi dubbi e paure, che non sapeva donde venissero, le ingombravano la mente, le rompevano l’orazione. Si raccomandò ai santi, alla Madonna, si morse le labbra, invano: la sua testa andava in volta, e la messa fu finita senza che a lei fosse riuscito di recitare un intero Pater. Allora delle sue distrazioni fece un’offerta al Signore; e il pievano non era più all’altare da un quarto d’ora quando essa, malcontenta di sé, si levò per tornare ai fatti suoi, ed ecco don Apollinare che, l’aspettasse o no, le si fece incontro sul piazzale della chiesa colla tabacchiera aperta.
- Ebbene, nostra Marta, come state?
- Eh, signor pievano, da vecchia bene anche troppo!
- Vecchio chi muore! - soggiunse il pievano porgendo la tabacchiera a Marta, che fregò le dita nella veste, prima di fare la pizzicata - intanto, a conti fatti, avete visto nascere molti che sono già all’altro mondo; e molti vi passeranno innanzi che credono di non morire mai più perché son giovani... A proposito ho inteso che il signor Giuliano è a casa?
Al modo altezzoso con cui don Apollinare dava del signore a Giuliano, Marta si sentì gelare il cuore e, a mala pena, rispose:
- È venuto a fare la Pasqua
- La Pasqua! E dove la fa la Pasqua? A tavola o forse a Cairo dove è già andato tre o quattro volte a trovare quella fungaia di Giacobini che appesta tutto? Ah! l’ha fatta pur grossa la vostra padrona quando lo lasciò andare a Torino! Voleva farsi medico?
Ebbene, non poteva fare come tanti altri e impratichirsi da qualcuno dei vecchi, che hanno sempre fatto il mestiere, senz’essere mai usciti da questi monti? Io l’avrei raccomandato al marchese di C… al conte P.... e, quando fosse stato tempo, questi, delle licenze di curare i malati, gliene avrebbero dato, per amor mio, non una, ma dieci ! Ma egli, superbo, no ! Questi dei nobili che danno facoltà di fare il medico son privilegi del medioevo; io non ci vado a trottare sulla mula o quattro anni pei monti per essere poi ammesso al cospetto del marchese a disputare dell’arte mia col prete di casa...! Io non ci vado a farmi compatire dal nobiluomo, che, con la parrucca in capo e con la pergamena già pronta, accennerà cortese o farà rabbuffi se il pranzo non gli avrà fatto pro’: io non ci anderò a tribolare l’umanità mandato da quei signori... Non ha detto così il superbo? E andò a Torino... Almeno ci stesse sempre laggiù!
Ma vedete come egli è ritornato pieno di religione? Voi dite che egli è venuto a fare la Pasqua ; tutti i galantuomini a quest’ora l’hanno già fatta, ma lui, chi l’ha veduto?
- Ma! - sospirò Marta facendo spallucce.
- Basta! - soggiunse risoluto il pievano - vedremo che intenzione ha: ditegli che stamattina l’aspetto.
E diede di volta, piantando la povera vecchi, la quale stava un poco, come non sapesse più ritrovare la via, partì, un passo innanzi l’altro, con la mente a quelle parole che le suonavano col sordo rumore d’un temporale vicino. Discese dal castello con una gran guerra di pensieri in capo e, giunta a casa, buttato il mesero su d’una sedia, si mise a rassettare e spolverare gli arredi, senza badare a non far rumore, parendole che la padrona non avesse a rimproverarla d’averla disturbata, dacché, pel figliuolo di lei, le era toccata dal pievano quella mortificazione. Ad un tratto, rimasta colla mano in alto, guardando il soffitto, stette a udire certe pedate nel corridoio di sopra che le parvero di Giuliano. Gioì al pensiero di potersi sfogare e smesso il suo lavoro se lo vide comparire dinanzi.
Il giovane calzava gli stivali a ginocchiello, e aveva in gamba le brache di nanchino gialle che i signori di quei tempi, tiravano fuori dagli armadi il giorno di Pasqua, cadesse questa nella stagione ancor fredda, o già nella dolce. A vederlo vestito proprio come la sera innanzi, quando era tornato da Cairo, Marta credette che fosse in punto di ripartire e gli disse:
- Che, torna a Cairo? No? O allora si tolga di gamba codeste brache che paiono di ghiaccio! Che si mettano la festa di Pasqua sta bene... ma... e la Pasqua starebbe anche meglio santificarla in un’altra maniera.
- State buona, disse accarezzandola il giovane, stanotte non mi sono spogliato...
- Già, vizi che si pigliano...! Nelle città se ne pigliano tanti di vizi... ma il più brutto... il più...
Uno squillo di campanello troncò a Marta il discorso, che, di quel passo, sarebbe forse finito con l’ambasciata di don Apollinare. Essa dovè correre di sopra a vedere la padrona, e Giuliano, rammentando quel che aveva detto a sua madre, e pensando che era sul punto di doversi ripresentare a lei, fu preso da un gran batticuore.
Marta molto meravigliandosi di trovar la padrona già vestita ed acconciata che pareva più giovane di qualche anno, tornò giù a dire al signorino che sua madre lo voleva. Allora, fattosi animo, egli salì. - Vieni oltre - gli disse la signora Maddalena incontrandolo sulla soglia e fissandolo negli occhi; - prima di sera sapremo se Bianca verrà a farci felici.
- Oh sì verrà - esclamò Giuliano stringendo fra le sue le mani della madre.
- Va, e chiama Anselmo che venga a pigliarmi col calesse
- Ma che vuole andare lei, con le vie che vi sono?
- Va.
Giuliano obbedì, ed essa, col cuore alla gola, levò le mani e disse singhiozzando:
- Giuliano, Giuliano, se tu sapessi che dolore mi dai...!
S’asciugò gli occhi e si mise dinanzi all’immagine di suo marito, stata dipinta con la sua, quando si erano sposati. Stette un tratto a contemplare quella tela, come se tra lei e l’immagine fossero misteriose corrispondenze, quindi, avvicinatasi a un cantarano antico, tirò una delle cassette, cavò di là dentro e distese sul letto una veste di seta color di rosa, fatta alla foggia di molti anni addietro, stretta nelle maniche, rigonfia alle ascelle, accollata e lunga quanto poteva bastare a far un po’ di strascico avendola indosso.
Di quella vesta ne teneva di conto, e la tirava fuori ogni anno ricorrendo il giorno delle sue nozze. Levò ancora una scatola in cui erano alcuni vezzi d’oro, collane, braccialetti, anella di vario lavoro e la pose aperta vicina alla veste. Del suo corredo di sposa, non le avanzavano più che quelle cose, perché le altre le aveva date, un po’ alla volta, a povere fanciulle del borgo, andate a marito, e, dopo averle toccate e ritoccate, col pensiero ad altri tempi, uscì sommessa in queste parole: - S’ha un bell’affliggersi, ma, nel giro di trent’anni, si rinnovano nelle case feste e dolori! Ora tocca a lui!-
Lasciò quella veste e quei vezzi così come li avea messi, forse desiderando che Giuliano li vedesse, mentre sarebbe stata lontana; poi, sempre pensosa, discese. A vedere Marta trasecolata, le parve di doverle dire qualcosa di quel che andava a fare, ma si trattenne senza sapere il perché; e, chiesto che le porgesse una tazza di latte, si pose a berne, mangiucchiando d’un pane casalingo, affettato lì per lì dalla vecchia, rimescolata dalla rapina di non sapere qual aria volesse tirare, per poco non si tagliava le dita.
In questo mezzo Giuliano era venuto col calesse sino all’arco, per cui si entrava nel piazzale, e, lasciato là Anselmo ad aspettarli, corse a farne avvisata sua madre. Essa era pronta: né avendo a far altro che mettersi in capo la cuffia, se l’acconciò da sé, salutò Marta, fu al calesse accompagnata da Giuliano, e, senza volgersi addietro, si mise dentro e partì.
Marta, rimasta a guardare dalla finestra della sala, colle braccia al seno, sentiva qualcosa crescere dentro, venir su e far groppo: poi, come la frusta d’Anselmo schioccò nell’aria, gli occhi le si empierono di lacrime, e corse verso l’uscio per andar fuori. Di certo, all’abbrivo che aveva preso, avrebbe raggiunto il calesse; ma s’abbattè in Giuliano nell’atrio. Là, asciugandosi il viso lavato di lagrime, si piantò in faccia a lui e sclamò risoluta:
- Faccia come vuole, ma se a lei e a sua madre piace ch’io muoia, ho sempre ubbidito! Sì, se io sono stimata un coraccio che non sente nulla, lo dicano; e io faccio un fagotto della mia roba, e un cantuccio da morirvi lo troverò...
- Ma Marta... - disse Giuliano - o che impazzite...? Badate invece a star sana, che avremo fra poco bisogno di voi come del pane. . . ! Ma, non vi sgomentate, piglieremo una giovane che vi aiuti... purché sia buona come voi...; qua l’orecchio... mi sposo...
- Dio lodato! - proruppe la vecchia - le pareva? lasciare al buio me, che posso dire d’aver visto fondar la casa, e ho portato il suo babbo in collo, e fui sola a governargli la roba fin a che si sposò…?
- Giusto! ben rammentato! quando si sposò...! Io voglio fare ogni cosa come fece mio padre; animo, che feste avete fatte quando condusse la sposa?
- Eh! miracolo se si è mai visto altrettanto! - esclamò Marta le feste durarono mesi, e, se le racconto, paiono favole da narrarsi a canto al fuoco. Stia a sentire. In una sua gita a M..., nella valle di là, sa dov’è, suo padre ebbe una sfida al pallone. Egli non sapeva altro gioco, ma pel pallone, era conosciuto sino in capo al mondo! In quella sua gita s’innamorò. Sua madre, non faccio per dire, ma era una bellissima giovine... Tornò da quella gita pensoso, malinconico, crucciato, come lei ieri sera...: ed io che, non per vantarmi, gli faceva da madre sin dall’anno quarantacinque, che i suoi erano morti della pestilenza... anche quello fu un bell’anno... basta...! io credei che egli avesse perduto qualche gran somma e volli sapere che cosa lo tribolasse a quel modo. Egli mi disse: cost e così... Oh! sclamai io, tutto codesto? E gli consigliai quello che avrei consigliato a lei ieri sera, se avessi saputo che cosa le frullava pel capo. V’era casa, v’era stato, non gli mancava nulla, appunto come ora a lei. Forse che ha bisogno d’essere medico, di cavar sangue, per campare ammogliato, lei? Sposi quella ragazza, gli dissi, e che Dio lo benedica! Faremo festa per un anno e un giorno, come principi... Mi diede retta, tornò due o tre volte a M..., parlò, e, di là a due settimane, sua madre veniva qui da padrona. E mi disse poi che anch’essa s’era innamorata di lui sin dal primo giorno che l’aveva veduto. Erano due bei sposi, e che accompagnatura! Vennero attraverso ai monti e in tanti che non s’era mai visto una simile cosa a ricordo dei vecchi. Signori, signore, a cavallo, in lettiga; musici che suonarono tutta la via; canti, schioppettate, sparate di pistole, una battaglia! E quando il corteo fu scoperto a quel varco del monte lassù, le campane cominciarono a suonare a gloria, come venisse monsignor vescovo a dar la cresima. Io era qui in questo luogo, e un’occhiata dava al corteo che discendeva per quella svolta come una processione; un’altra correva a darla in casa dove aveva un mondo di donne ad ammannire il pranzo; un pranzo di cento convitati, mica pochi, no, e che convitati! La sera poi un festino, che manco io saprei dire se fossi un avvocato... e la storia durò settimane... Chi mi avrebbe detto: tu Marta starai tanto al mondo che queste cose le rivedrai una seconda volta? Pure una differenza v’è; quelli erano tempi di gran pace e di gran gioia; la gioventù non s’immischiava di nulla... al comando chi v’era vi stesse, e suo padre era un uomo dabbene.
- Ed io...? - chiese Giuliano, che avrebbe dato il suo fiato alla vecchia perché ricominciasse.
- Eh... lei non è cattivo... ma alle volte... per esempio ieri sera, che cose le facevano gli Alemanni...? E poi... sì... le n’ho a dir una? - e dando un’occhiata all’arco in capo al piazzale, se spuntasse qualcuno, si fece più vicina a lui e continuò con dimestichezza: - stamane il signor pievano mi ha parlato di lei, e lo vorrebbe a fare la Pasqua.
Giuliano, che solo a udir menzionare gli Alemanni, già avea perduto l’allegrezza, a quella novella del pievano divenne annuvolato del tutto e disse a Marta severo:
- Domani tornate lassù, e se vi chiede di me, ditegli che lasci in pace i cristiani.
- Che mi fa celia! - sclamò la vecchia indietreggiando - Manco se mi facesse ricca come il mare! Il pievano vuole il suo bene. È che crede di farne dell’anima? Questo è un altro grillo come quello di maledire quei poveri Alemanni.
- Non mi tornate a parlar di costoro! - disse Giuliano, e Marta, concedendo il poco pel molto, seguitò:
- Bene!... ma la Pasqua almeno... Dio ha le braccia lunghe, e quando gli pare ci arriva! Dia retta a me… Vada, o sarà tutt’una, il pievano verrà qua
- Lasciatelo venire! ribattè il giovane, e mettendosi su d’un sedile di pietra fuori dell’atrio, parve proprio risoluto ad aspettarvi il pievano.
Marta pregava: badasse a non guastare la sua e la pace della famiglia; ricordasse che anche la sera innanzi aveva promesso a sua madre di non darle mai dispiaceri; pensasse che stava per farsi sposo; che quello non era tempo di cozzare coi preti, e che, ad ogni modo, senza che si fosse accostato ai sacramenti, la fanciulla amata non l’avrebbe potuto sposare... Ma egli non le dava retta, e, levatosi come per andar incontro a qualcuno, si mise a passeggiare dicendo basso: - Mi vuole?... E quando m’avrà voluto lassù per forza, bella religione la sua e la mia! O perché non lasciano che l’anime si volgano a Dio, ciascuna con quell’ali che Egli le diede? No essi le vogliono spingere in su; e intanto si fa il male da loro, da noi, da tutti; carne, carne, carne, null’altro che carne. O vento che soffi dalla Provenza... o Francia insanguinata, tu sei la scolta di Dio! Vieni colle tue legioni e facciamola finita una volta! Marta fu ad un pelo di dirgli ch’egli doveva essere un gran peccatore. Ma la grande passione di lui, le fece temere di sentirlo prorompere in eresie; onde, fattasi forza, con un martellamento di cuore, che si sarebbe inteso discosta tre passi, si ricoverò in casa. Là pregò caldamente, che, pel bene della signora Maddalena e del pievano, rattennesse questo dal venire; perché non sapeva neanche essa che cosa avrebbe potuto seguire. Intanto, con la fantasia, si mise in volta col suo fardelletto sulle spalle, alla cerca d’una famiglia da potervi servire buoni cristiani, gli altri pochi anni che le rimanevano di vita: e non vedeva l’ora che la padrona tornasse, per dirle ogni cosa e licenziarsi.
Giuliano, quietatosi un poco, e, rimessosi a sedere su quella pietra di poco prima, fissò lontano il calesse di sua madre, che s’andava perdendo, fin che gli fu uscito di vista. Poi l’accompagnò col desiderio e coi voti verso la méta. Sposarsi a Bianca, condursela in casa, dirle: qua dentro ogni cosa è tua; sii l’angelo del mio focolare; ringiovanisci della tua giovinezza mia madre, e viviamo d’amore essa, tu, io, era per lui qualcosa più che aver le ali da volare in capo al mondo, girarlo tutto e salire sino alle stelle. E già la vedeva venuta, già fatta all’uso della nuova casa; marito, gli pareva d’aver acquistato in essa una seconda coscienza; medico, si sentiva tratto per la campagna e far il bene, ispirato dal desiderio di poterle dire, tornando stanco: ho fatto questo, ho fatto quest’altro.... padre ( questo poi era pensiero in cui si sprofondava col diletto preso da giovane a tuffarsi nei laghetti della sua Bormida, in tempo di gran calura, mentre il suo genitore stava a vederlo) padre, gli pareva che avrebbe educati figli degni di dar gloria fra gli uomini a quel Dio, nella cui bilancia dovrà pesare più una goccia d’acqua data ad un assetato, che un’intera vita passata a star ginocchioni dinanzi a lui; ah! i figli, i figli! quel calesse arrivasse a Cairo col buon augurio, Giuliano v’era già col cuore!
E il calesse andava, e tacerne sarebbe come voler nascondere al lettore che di quei tempi gli abitanti di Val di Bormida non avevano mai veduto quattro ruote di carrozza a girare. Eppure era un vecchio e gramo arnese, che ai giorni nostri farebbe sgomento. Anselmo lo aveva comprato dagli eredi di non si sapeva che baroni del Monferrato; ed essendo uomo molto arricchito nei contrabbandi tra le terre della repubblica di Genova e del re di Sardegna, per quell’acquisto era così cresciuto di reputazione, che a Dego quasi più nessuno osava dargli di mulattiere. Ma egli, punto insuperbito, se gli capitava di guadagnare... s’alzava anche a mezzanotte. La signora Maddalena non era solita a lesinare sul nolo, ed egli ora la portava verso Cairo certo di toccare una grossa mercede ed un buon beveraggio.
La via correva a tratti sulle vestigia di quel ramo dell’Emilia, che, per Val di Bormida, menava i Romani da Tortona all’antica Sabazia. I dotti ne parlano, rammentano la tavola Peutingeriana e l’Itinerario di Antonino. Romana o no, quella via era un macereto, e dava così gran disagio a farla in calesse, che camminare a piedi sarebbe stata per la povera signora minor fatica. Ad ogni passo il legno pigliava tali crolli che essa era sempre lì con le mani per toccare Anselmo che si fermasse; ma egli la confortava a non xi badare, a starsi sicura, e tirava innanzi alla volta del borgo di Cairo. Il quale, a chi vi giunge da quelle parti, apparisce amenissimo, sebbene, schiacciato com’è fra il torrente ed una rupe alta e malinconica, parrebbe star meglio in mezzo alla pianura che gli si apre dinanzi. Questa non è ampia molto, ma quanto basta per dare aspetto magnifico ad un anfiteatro di colli, sormontati su su da dossi più alti di monti selvosi, colle piagge ridenti, coi prati e coi campi, dove si lavora in dolcissima pace. Sulla rupe che soggioga il borgo, sorse un castello che, Vittorio Amedeo, generale degli eserciti di Francia e di Savoia, guerreggiando gli Spagnuoli in quella vallata, trovò difeso da dugento di costoro, e ne li scovò con centoquarantaquattro cannonate giuste. Era l’anno 1625. Di lì a poco il conte di Verrua, tornato a combattere il castello, lo atterrava del tutto. Ai tempi di questa storia, quel castello era già quale è ai nostri, roba di donnole e di volpi; né dà alla gente del borgo alcuna noia, salvo che quella di toglierle una bell’ora di sole sul tramonto, e di minacciarla colle sue pericolanti rovine. Macchie di castagni s’aggruppano su per il pendio sino a quelle; e ai segni dei secoli che hanno nei tronchi ispidi e muschiosi, mostrano d’aver fatto ombra alle antiche castellane. L’edera inviluppa le macerie; e le muraglie che stanno ancora su smisurate, spiccano tra quel verde, come dossi di animali perduti.
La Bormida, lenta in quel suo passaggio per i molti laghetti che forma, fa più bello il paese. Riverbera gaiamente il castello, le case del borgo, i bucati distesi sulle sue rive, le donnicciuole che vi s’affaccendano intorno, o che stanno a lavare; e, a chi conosce di quali piene talvolta si gonfi, pare angusto quel letto in cui scorre poca e tranquilla. Laggiù, laggiù, dalla parte donde tirano i venti di mare, menando sovente a furia sulle selve e sulla pianura, le vette del San Giacomo e del Settepani profilano l’orizzonte, a un’ora serene che si direbbe di arrivarci in due passi, da tanto che sembran vicine a un’altra azzurre azzurre sfumano quasi perdute nel cielo.