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Capitolo 22

Marta, da noi lasciata sbalordita nell’atrio, non ebbe bisogno di farsi dire chi fosse la giovine donna, gittatasi ai piedi del signorino. Essa l’indovinò alle parole di lei, all’atto di Giuliano; e, lanciatasi nel piazzale coi pugni stretti, le si sfogò contro con voglia crudele.

- Coraccio di tigre! E ancora osa di venire a piangere qui? Dio, Dio di misericordia, sviatemi la mente da queste tristizie; ma non so chi mi tenga ch’io non la sbrani! Vada, vada a piangere altrove, che qui per lei non v’è posto...! vada, che del male che ci ha fatto, le ne chiederà conto Dio al suo tribunale! E così dicendo, dava sdegnosa le spalle alla giovane e a donna Placidia, trasecolata a quello scoppio d’ira della fantesca. Bianca, presa dall’affanno, teneva gli occhi nella vecchia, che, volgendosi bieca a guardarla ancora, tornava in casa. L’infelice si pregava di potersi umiliare tanto, che il disprezzo di quella donnicciuola le cadesse sul capo come dall’altezza di un trono. Ma in quella usciva dall’atrio don Marco, dicendo:

- Non così... Marta... un po’ di carità... la signora non avrebbe detto tante brutte parole! Egli, dalla camera della morta aveva inteso Marta sclamare a quel modo; aveva capito che le parole di lei non potevano che essere volte che a Bianca; e, indovinato alla grossa il fatto, veniva a mescolarsi a quest’altro dolore. Lo vide appena, e Bianca si levò in piedi, come le fosse rinata la speranza: ma la prima parola del prete le tornò a stringere il nodo che faceva l’angoscia.

- Bianca...! Come? - diceva egli - e tuo marito?

Rispose per essa donna Placidia: - Lo hanno ucciso i Francesi. - Don Marco giunse le mani: stette pensoso un istante, forse dubitando che tanti guai non fossero possibili così a un tempo, forse avvisando a quel che poteva fare per la sventurata. Poi disse a donna Placidia: - Allora l’accompagneremo da suo padre. Ah no...! no! - esclamò Bianca; ma il prete interruppe: - E vorresti rimaner qui, dove gli infelici sono già tanti!

Bianca chinò gli occhi, assentendo coll’animo al volere di don Marco; il quale rientrò in casa, a dire a Marta e a Tecla che non si movessero, che avrebbe raccomandata la casa ai Francesi, amici di Giuliano; che sarebbe presto tornato; poi rivenuto a Bianca, se la prese in mezzo con donna Placidia, e mossero verso il vicolo, che metteva al ponte.

Arrivarono in quella i Francesi, sempre con quei suoni e con quei canti, scoppiati nell’istante che la signora Maddalena era spirata. Un corteo di cavalieri raccolti a piè del colle su cui sorge il castello, parevano star a vedere i soldati, che andando a porsi a campo oltre il borgo, passavano dinnanzi a loro, col trionfo negli occhi. Ma in verità, da quel posto, miravano la campagna e i colli su cui avevano combattuto il giorno prima, meravigliati del come gli Alemanni avessero abbandonate le inespugnabili strette del borgo e facendo i conti del sangue che sarebbero loro costate per conquistarle. Don Marco si accostò senza tema a quei cavalieri; e da uno di essi si fece dire qual fosse il capo. - Siete il curato di questo borgo? - chiese questi con brusca maniera, vedendosi il prete dinanzi con due donne. - Io no - rispose don Marco; - sono un prete di Cairo e venni ieri con quel giovane medico che serve i vostri feriti.

- Oh! appunto... egli è di questo borgo, - soggiunse il generale fatto umanissimo, - e la sua casa qual’è? - Quella là; - rispose don Marco additandola - ma là v’è una morta: la madre del povero giovane, spirata che sarà mezz’ora.

- Capitano - disse il generale, volgendosi a uno dei cavalieri che aveva di dietro: - pigliate alcuni della prima compagnia che viene, e poneteli a far la guardia di quel valentuomo.

Il cavaliere corse di galoppo a eseguire l’ordine del generale, il quale, non dando tempo a don Marco di ringraziare, proseguì: - signor curato, quella casa sarà sacra per noi. E codeste donne sono forse parenti del nostro amico?

- No - rispose don Marco - questa è la sposa d’un uffiziale di cavalleria Alemanna, che deve esser morto ieri.

I Francesi si scopersero tutti il capo, guardando or Bianca pietosamente, or uno dei loro compagni, che a quella novità, si fece mestissimo. Egli era quello che aveva ucciso il barone. Ma di questo non si avvide don Marco, il quale stava ammirando tra sé quei segni di rispetto dei Francesi; né se n’avvide donna Placidia, che si tastava se era viva, non parendole vero d’essere dinanzi a quei mangiatori di carne umana, che non la facevano neanche calpestare dai loro cavalli. Bianca poi non era più al caso di badare a nulla, né a vita né a morte. Intanto il generale, lasciato ad un altro uffiziale che servisse il prete e le due donne in quel che loro potesse bisonare, mosse con tutta la brigata e salì in castello. Allora don Marco disse al cavaliere che egli aveva da ricondurre la giovane donna a suo padre, in Cairo; e subito colui gli trovò un carro da bovi, di quelli tolti nei villaggi della vallata per le bagaglie; ed egli stesso si offerse di accompagnarlo, con altri due soldati a cavallo. Così, montati su quel carro, don Marco, donna Placidia e Bianca si misero in via alla volta di Cairo, muti, pensosi, tanto diversi dal gaio aspetto dei tre Francesi, da parere persone condotte a prigionia. Attraversarono le case dell ‘altro vico lentamente, per la gran briga di soldati, che ingombravano la via; e appena usciti da quelle cominciarono a vedere i primi cadaveri bocconi, supini, atteggiati nella guisa in cui la morte li aveva colti. Ve ne erano che parevano addormentati dalla stanchezza, vicino ad altri attrappiti, travolti, colle sembianze ancora impresse dell’ira che li aveva agitati nell’ultima loro corsa. Quelli erano quasi tutti Francesi, caduti sulle soglie del borgo, dove avevano osato inseguir gli Alemanni: ma quando il carro, tirando innazi, fu nel bel mezzo dei campi dov’era stato il forte del combattimento, i morti delle due nazioni giacevano quasi in egual numero confusi fra loro. A un tratto il Francese accennò a donna Placidia di coprire il viso di Bianca. La quale si era abbandonata col capo in grembo, e a misura che si allontanava da quei luoghi le pareva di rinascere al suo antico amore, di poter ancora sperare. La sorella del pievano capì il desiderio dell’uffiziale; e con una pezzuola coperse la faccia di Bianca, accusando il sole, che spuntava in quel momento. Giungevano appunto allora nel sito dove s’erano azzuffati i cavalli Alemanni e i cavalli Francesi; e già i due soldati cominciavano a parlare del fatto; ma l’uffiziale li fece star zitti, dalla tema che la giovane donna capisse i loro discorsi. Il carro passò discosto pochi passi dal cadavere del barone; il quale giaceva ancora dove era caduto. I suoi grandi occhi erano aperti, e parevano essi in chi passava, ma con uno sguardo pieno di pace, di noncuranza, d’oblio. Don Marco guardò quel morto, e sentì dentro tanta pietà che se Giuliano gli fosse stato vicino avrebbe pensato di essere compianto da lui meno che il barone. Donna Placidia lo vide anch’essa, e diè un’occhiata a Bianca, pensando alla propria gran ventura di non aver mai avuto il capo all’amore; e tornò a guardare piena di stupore pel campo. Qua e là, costretti dai soldati Francesi, gruppi di contadini lavoravano a scavar fosse e a seppellire i morti; facendo così alla stracca che, anche da lungi, si capiva di che animo obbedissero. Del rimanente non vi era più nulla sulla terra o nell’aria, che portasse traccia degli ardimenti, delle ostinatezze, dell’ire della battaglia; un silenzio lugubre regnava per tutto, turbato soltanto dallo schiamazzo, che veniva a ventate dal borgo di Dego dove i repubblicani cominciavano a dar dentro a satollarsi di roba lasciata dagli Alemanni. Verso le quindici ore d’Italia il carro che portava Bianca, vedova ed umiliata, alla casa paterna, giungeva sul ponte di Cairo, e alla vista dei Francesi che la accompagnavano, i tre o quattro borghigiani curiosi che andavano a zonzo cercando le notizie, si allontanarono paurosi. Don Marco ne provò la contentezza di cui poteva essere capace il suo cuore trambasciato, e, quando fu alla porta del signor Fedele, gli parve di aver finito la Via Crucis. Fatta discendere Bianca aiutato da donna Placidia, la menò su per quelle scale, che essa aveva discese l’ultima volta felice. Ora la povera donna si lasciava tirar su da quei due, che parevano più afflitti di lei; ma quando furono all’uscio e il prete tirò il cordoncino del campanello, e s’udì di dentro un rumor di passi, e sulla soglia comparvero il signor Fedele, la cieca, Margherita e il frate Anacleto, che s’era piantato in quella casa come fosse sua; si gettò nelle braccia del padre, quasi egli già sapesse tutta la sventura in cui era caduta, per cagion sua, e avesse bisogno d’esser perdonata. - Che è stato? ahimè! don Marco, Bianca, come torni così? Tuo marito dov’è? - tempestò il signor Fedele, ingegnandosi di sciogliersi da Bianca.

- Il barone è morto! - disse don Marco. - Morto! - proruppe il signor Fedele, e, stese le mani come per afferrare qualcosa, diede il capo addietro, cogli occhi socchiusi; tremò, poi senz’altro che con un ruggito, cadde nelle braccia del padre Anacleto. Allora fu uno scompiglio compassionevole. Il frate e don Marco, aiutati da qualcuno del vicinato corso alle grida, portarono il signor Fedele nel proprio letto. La cieca, Margherita e donna Placidia trascinarono Bianca nella camera più appartata della casa. Credevano esse che il signor Fedele si fosse soltanto smarrito per l’improvviso dolore di veder la figliuola tornata a casa in quel modo e s’affaccendavano intorno a questa che pareva instupidita. Ma egli giaceva sul suo letto, uscito del tutto di conoscimento. Il suo volto si era fatto pavonazzo, i suoi occhi erano aperti, ma nuotavano nel buio; le sue mani si facevano diacce e, del rantolo durato alcuni istanti, non gli avanzava che un fil di fiato. Don Marco e il padre Anacleto, stavano in capo a quel letto, uno per parte e di tanto in tanto levando gli occhi dal signor Fedele si guardavano tra loro. Ma il primo a riabbassarli era sempre il frate, nel quale cominciava a entrare una gran confusione. A un tratto don Marco, non perché avesse perso ogni speranza di vedere l’infermo riaversi, ma pensando a quello che l’aspettava a Dego, accennato al frate di seguirlo, si trasse con esso in disparte, sulla soglia della camera. E: - padre - gli disse dolcemente - io vengo da Dego dove ho due morti da seppellire, il barone e la madre di quel Giuliano che ella conobbe, e torno laggiù. Mi pare che questa storia di guai non sia per finir così presto... e, se mai, le raccomando questo nostro amico. Prenda cura di questa famiglia:... oggi lei ed io siamo al nostro posto. Badiamo a non stancarci... Il frate chinò il capo, promettendo coi cenni, di non allontanarsi da quella casa e don Marco passò nella stanza dove erano le donne colla sorella del pievano di Dego fattasi domestica con loro, in quel momento d’afflizione, quanto non la sarebbe divenuta in un anno. S’ingegnava di confortarle con una meravigliosa trovata, che le pareva di aver fatto, dicendo che forse il barone era in quell’ora coi suoi commilitoni sano e salvo, e soltanto addolorato d’aver la sposa addietro, in man dei Francesi.

- No... no... non c’inganniamo - disse don Marco, entrando appunto, mentre donna Placidia diceva queste cose: - non c’inganniamo col rifiutare i dolori... Essi vengono uno dopo l’altro, e non dobbiamo essere crudeli a noi stessi, cercando di allontanare un calice, che, bevuto a poco a poco, sarà più amaro. Maria, Margherita, coraggio... alzate i cuori... Bianca, tu sei vedova da ieri, e forse tra qualche ora sarai orfana del padre...

Un urlo come di naufraghi che si veggano l’acqua alla gola e sentano sotto le piante mancar la barca che affonda, potrebbe somigliarsi a quello che alle parole del prete si levò in quella stanza. Egli non tentò neppure una parola di conforto: donna Placidia si sentì rimordere di non più trovare neanch’essa qualcosa da dire: e poiché dall’altre stanze furono corsi alcuni dei pochi venuti al soccorso, essa e don Marco abbandonarono senza commiati quella casa dolorosa, per andare a quell’altra dove sapevano da quali afflitti erano attesi.

- Bisogna farsi animo - diceva il prete a donna Placidia discendendo: - noi due dobbiamo fare il viso fiero ai dolori, come questi bravi soldati, che non si sono mossi di qui. A don Marco veniva giusto il paragone, perché i tre Francesi erano ancora col carro a quella porta; e da gente accostumata per mestiere alla dura obbedienza, pur lamentando l’indugio e il doversi stare a sentire il piagnisteo che empiva quella casa, non s’erano scostati un passo. Sulle loro faccie, impresse da segni vigorosi della vita travagliata dei campi, non si vedeva punto curiosità di sapere quel che fosse avvenuto; ma dopo che il prete e donna Placidia furono rimontati sul carro, partirono mostrandosi lieti di essere tolti da quella noia. Affrettando col desiderio, al passo lento e rassegnato dei bovi, la piccola brigata giungeva a rivedere Dego avendo, tra l’andare e tornare, fatte le venti e un’ora. Pel campo non si vedeva più anima viva; l’opera del seppellire era compiuta, e il corpo del barone era nascosto sotto una di quei cumuli indistinti di terra, che, qua e là, facevano il suolo ineguale. Ma entrando nel borgo, pareva di capitare in un altro mondo. I Francesi avevano cavato dalle canove le grascie, le farine, i vini, tutto il ben di Dio lasciatovi dagli Alemanni; e dopo aver diluviato tutto quel giorno, e fattesi ognuno le provviste per altri due o tre da venire, sperdevano la roba che a vederla metteva raccapriccio. Torme di avvinazzati andavano ciondoloni per le vie cantando; in castello suonavano le musiche intorno all’albero della libertà, piantato dinanzi la chiesa: e i pochi abitanti che, per vecchiaia o per non aver fatto in tempo a fuggire, erano rimasti, se ne stavano turati in casa, col cuore tra la vita e la morte. Don Marco pensava, arrivando, che le ore dovevano esser parse lunghe a Marta ed a Tecla. Disceso dal carro con donna Placidia, corse difilato alla casa di Giuliano, quasi senza ringraziare i Francesi della buona compagnia avuta. Appena fu sul piazzale diede un’occhiata all’atrio, e vide l’ufficiale messosi a guardia sulla cassapanca sin dal mattino, fermo a quel posto. Gli si allargò il cuore per la certezza che niuno poteva aver turbato la pace religiosa, che si conveniva a quella casa, e diede una stretta di mano riconoscente al Francese, che entrò con lui e con donna Placidia, nella sala terrena. Là Marta, aiutata da parecchi altri uffiziali amici di Giuliano, finiva di ornare la morta, già bella e vestita del saio, e adagiata dentro la bara. Tecla accompagnava con lo sguardo l’opera della vecchia, come persona che non sa perché sia lasciata al mondo. Don Marco stupì di vedere a quel segno la mesta bisogna; ma uno dei Francesi, che riconobbe appunto per quello da lui inteso il dì innanzi, con piacevolezza domestica parlar a Giuliano, gli si fece incontro e gli disse: - Spero che l’amico nostro mi scuserà di aver fatto fare questa bara da due de’ miei soldati...

- Ma, e di Giuliano sa nulla? - interruppe Marta - Poveri noi, va a finire che da un’ora all’altra sentiamo che anch’egli è morto...!

- Oh! no... Marta - rispose don Marco - i forti addolorati cercano la solitudine...

- Come i leoni nel deserto: - aggiunse il Francese. A cui don Marco: - E il vostro generale ci concederà di fare i funerali?

- Anche a questo ho pensato, - rispose il Francese; - e il generale mi ha detto che farà onorare dall’esercito la madre di quel valente giovane, che io gli presentai pel primo; e il trasporto sarà fatto da quattro soldati dei nostri.

- Che Dio lo benedica! - esclamò don Marco, e poi, volgendosi a donna Placidia: - allora troveremo qualcuno che ci aiuti in chiesa a far quel poco che potremo.

- Oh! per codesto basto io; - rispose donna Placidia: - solo che mi si accompagni lassù, lasci fare a me.

- La accompagnerò io stesso, disse il Francese; e rimasti d’accordo con don Marco che il corteo funebre si sarebbe mosso di là a mezz’ora, si avviò al castello con donna Placidia, che andava innanzi confidente e sicura, come fosse stata con suo fratello. Giunta lassù, fece le meraviglie di vedere la chiesa non rubata, il presbiterio non saccheggiato. Non poteva capacitarsi che quei soldati, diavoli in carne che pur avevano lanciato qualche motto a veder la sua gonna passare in mezzo a loro, fossero così rispettosi; e, accomodandosi con alcuni di essi assai bene, mise a segno, meglio che lo potè, le cose del funerale. Fece scoperchiare la tomba della famiglia di Giuliano; poi ne mandò due a suonar le campane a morto. Allora giù nella casa di Giuliano, si fece folla di soldati e di borghigiani, tornati alla notizia dolorosa, quasi fosse stata segno di pace tra loro e i Francesi; e la bara partì, portata sulle spalle di quattro soldati. Seguita da don Marco, da Marta, da Tecla, e da una processione che la più lunga non si era mai veduta; la morta, col capo scoperto su d’un guanciale, pareva salire al trionfo verso il castello. Al suo passaggio tacevano le clamorose brigate, tutti si scoprivano e si mettevano nel corteo. Intanto le campane proseguivano a mandar lontani nei monti i loro suoni lugubri, a turbare, a commovere, a mettere in pensieri i borghigiani fuggiti, che ignoravano per qual morto suonassero i funerali. Ma non l’ignorava Giuliano, il quale andato errando di montagna in montagna, riveniva per selve e burroni al mesto richiamo. Dirigendosi a corsa verso la chiesa, giungeva che le benedizioni erano state date da don Marco, la bara già calata nel sepolcro, e sentì ancora la pietra di questo ricadere, suonando cupa, nella incastonatura. - Per carità un momento! - gridò egli, fendendo con le braccia la folla; ma arrivato a fatica dove don Marco, donna Placidia, Marta e Tecla si erano inginocchiati a dire le ultime preghiere, cadde vicino al prete, baciò la lapide e rimase con essi a pensare in silenzio. Marta provò, vedendolo, un gran sollievo: il cuore di Tecla si turbò; don Marco e donna Placidia scambiavano tra loro sguardi pietosi. Intanto l’uffiziale Francese che si adoperava in quei fatti come fosse uno della famiglia di Giuliano, faceva sgomberare la chiesa dal popolo e dai soldati, parendogli che il raccoglimento di quelle persone fosse cosa da non essere vista da tanti. Indi, venuto a lato del giovane, lo toccò leggermente nella spalla, e gli disse: - Ora vi prego di venir via; il vostro dolore sarà grande altrove quanto qui, e eterno; però non dev’essere visto che da chi l’intende... - Sì - rispose Giuliano andiamo.

E, a braccetto dell’uffiziale, seguito da don Marco, che accompagnava Tecla e Marta, uscì di chiesa, avviandosi giù dal colle. Donna Placidia non volle più staccarsi da quel suo posto, dove le pareva che qualcuno, o lei o il pievano, avesse il dovere di stare; e li salutò, per tornare nel presbiterio, a farvi gli onori di casa ai Francesi, che già vi si erano posti a loro agio, senza la licenza di lei. Come la comitiva fu giù nel piano, ed ebbe passato il ponte, l’uffiziale fece segno di volere tirar innanzi verso la casa di Giuliano. Ma questi gli disse: - Amico, ho pensato... ho deliberato. Accompagnatemi ancora un tratto con queste donne, e, lei don Marco, mi perdoni, ma ho bisogno di lei sin lassù, alla cappella di San Giovanni.

- Per me ti seguo sin dove ti pare: - rispose il prete, cui parve di indovinar il pensiero che il giovane volgeva in mente. E senz’altre parole si misero per una viuzza, attraverso ai vigneti dei poggi, che sorgono baldanzosi a sinistra del borgo. La cappelletta cui accennava Giuliano si vede tuttavia su d’una vetta, ombrata ora da una quercia, che per farsi gigantesca com’è in suolo arido e magro, deve essersi nutrita dei molti Francesi e Alemanni, caduti là intorno, la vigilia di quel dl. Perché, sin là appunto, si era stesa l’ala destra dell’esercito imperiale; là era stato uno dei più stretti gruppi della battaglia; ma a quell’ora anche là era scomparsa ogni traccia di lotta; e soltanto ne rimanevano i segni nella porta della chiesuola sfondata e negli arredi sconvolti.

- Io vi ho fatto venir qui, - disse Giuliano al Francese, che a quelle parole parve riscotersi da un sogno, essendo venuto su pel colle, pensando alle cose del giorno innanzi: - io vi ho fatto venir qui, perché mi siate testimonio che io dinanzi a Dio e a questo mio maestro offro la mia vita a questa fanciulla, se essa si contenta di essere donna del figlio di quella santa che l’ha tanto amata...

- Tecla, vuoi essere sposa di Giuliano? - chiese don Marco, brillando nelle pupille d’una gioia divina, alla giovinetta rimasta lì quasi trasfigurata. Essa chinò gli occhi, e, all’atto della persona e al rossore di cui si tinse, parve rispondere: - Ecco, o Giuliano, la vostra donna.

Don Marco prese le mani dei due giovani, se le strinse al cuore e disse: - Figliuoli; Gesù è morto da diciotto secoli promettendo vicino il regno dei poveri. Se il regno dei poveri è cosa di questo mondo, tu, o Giuliano, che hai capita la parola di Gesù, e tu, Tecla, che hai visto adempiersi in te la sua promessa, ricordatevi che al mondo vi sono molti afflitti, che aspettano dai felici il compimento di quella promessa. - Era ora, addio, Tecla; - disse Giuliano stringendo tra le sue le mani della giovinetta; - tu starai nella casa di nostra madre, finché io tornerò. Non so quando sarà. Ma voi, Marta, voi servirete la mia sposa come serviste mia madre, lei, don Marco, se vuol farmi un gran bene, stia con queste due creature, finché i tempi sieno più quieti. - Ma, e tu? - chiese don Marco con ansia.

- Io vado alla casetta, dove mia madre sperò di vivere con me qualche tempo. Tornerò di laggiù, quando lo spirito di lei mi consiglierà a farlo. No... no... maestro, Marta... nessuno mi contrasti con preghiere... io debbo andare. E Voi - soggiunse volgendosi al Francese - proteggete la mia casa, e pregate per me il Generale a proteggere il mio povero borgo.

L’ufficiale non potè rispondere se non con uno sforzo, per far il viso fiero, tanto per non mostrare la tenerezza che si sentiva dentro a quello spettacolo. Ancora pochi detti, poche raccomandazioni, pochi sguardi d’intelligenza tra quelle anime; poi don Marco si pigliò Tecla e Marta, una per lato. Il Francese gli tenne dietro e insieme si misero a discendere il colle. Giuliano li accompagnò coll’occhio per la china, svolta a svolta, da macchia a macchia, nel piano giù, fin che furono giunti nell’atrio della sua casa che si vedeva di lassù assai bene. Quando essi si volsero a guardare s’egli fosse ancora sopra quella vetta, lo videro sparire. Il suo ultimo sguardo si era posato su due tetti di Dego; quello di Tecla fatta sua e quello della chiesa parrocchiale, sotto le cui volte posava sua madre.