Quello, in cui a Cairo si ballava, era un palazzo dei vecchi feudatari, sorge a piè della roccia, dalla cui vetta il castello in rovina pare lo guardi imbroncito, quasi chiedendo se sia cosa giusta, ch’egli debba stare lassù a disfarsi alla pioggia e al gelo, mentre il palazzo sta ritto qual era nell’età fiera, in cui di ribalderie fatte dai loro padroni ne videro entrambi d’ogni colore. Sullo scorcio del secolo passato, vi alloggiavano le genti del Re di Sardegna, messe a guardia del confine tra il regno e la repubblica di Genova; e però il borgo fioriva pel molto spendere degli uffiziali di quelle milizie dei quali alcuni lasciarono le ossa e il nome alle sepolture della chiesa parrocchiale; altri le sembianze sull’insegna del caffè di Marocco, rimasta salda sugli arpioni molti anni dopo che il povero caffettiere era morto, ed ora buttata ai tarli in non so quale solaio.
Per accedere alle scale ampie ed agiate, fatte per non affannare il petto alle baronesse bisognava attraversare un atrio, che aveva di costa un cortile lungo quanta era la facciata dell’edifizio. Da quei cortile parecchie viti, accompagnate nei loro serpeggiamenti da mano amica, s’erano arrampicate così alte, che tra balcone e balcone, formando bellissimi tralciati, toccavano colle vette le gronde dei palazzo, a recarvi chi sa se noia o diletto alle rondini, che vi appiccavano i nidi. Bell’e in mezzo al cortile v’era una cupoletta leggiadra, assiepata da gelsomini rigogliosi; ma i fiori d’alcune aiuole ben disposte qua e là negli angoli, perché il sole vi poteva poco, erano pallidi come visi di monachelle che, se anco belline, hanno sempre sulle guancie i segni dell’aria del chiostro.
Di là dall’atrio si pigliavano le scale, che mettevano ad un ampio ambulacro, e più oltre ad un uscio, i cui stipiti e l’architrave erano stati condotti con gran maestria in marmo persichino, cavato dalle montagne di quelle parti. E l’uscio poneva in una di quelle sale vaste, le quali, ad entrarvi da soli, danno un po’ di sgomento, e l’uomo vi si trova piccino e così leggero di panni, che, per istarvi bene, avrebbe proprio mestieri d’essere vestito di ferro. L’altezza della volta era molto sfogata, e aveva nel mezzo uno stemma che recava aquila bicipite, carro e cimiero ad alto rilievo; e quando la sala era illuminata scarsamente, e il venticello delle finestre faceva ondeggiare le fiamme, alla luce ricevuta di sotto in su, quell’aquila dai rostri e dagli artigli dorati, pareva muoversi come cosa viva e pronta a spiccare il volo. Di là da questa v’erano due altre sale, ed oltre e sopra, per lunghi giri, stanze e corridoi d’ogni conformità; onde il volgo accostumato a vivere pigiato nelle sue catapecchie, aveva mille ubbie su quell’edificio così vasto, e lo guardava quasi con paura. Le femminette compativano i poveri soldati, costretti ad abitare in quel luogo; e quando fu accesa la guerra in su quel di Nizza, e le milizie lo lasciarono vuoto, parve a quelle semplicione, che l’andare ai patimenti dei campi, e forse a morire per man dei Francesi, fosse meno peggio dello star là dentro, a farsi guardare nei sonni dagli occhi infocati dei fantasmi, uscenti la notte dai trabocchetti.
Gli uffiziali Alemanni, volendo far onore alla sposa ed al loro compagno d’armi, avevano stimato che il palazzo fosse il luogo più acconcio ad una festa da ballo; perché vi si poteva invitare quanta gente per bene viveva nel borgo e nei dintorni. E già alle una di notte ne erano piene le stanze. Chi giocava, chi conversava, chi si confortava ad una copiosa credenza: mentre nella sala grande, si ballava così di voglia che non pareva d’estate.
Le pareti di quella sala, quasi coverte di quadri antichissimi, rappresentanti cacce e tornei, erano a tratti adorne di specchi posati su certi arpioni, che reggevano doppieri abbaglianti. E la luce riverberata dalle spere, si diffondeva in ogni lato sì vivida, che si sarebbe potuto raccattare di terra una spilla. I cavalieri e le dame rispecchiati e moltiplicati in quelle, parevano migliaia. Qual festa per gli spiriti folletti, abitatori di quel palazzo! Quella notte delle burlette ne avranno fatte di belle alle madri, sedute a vedere le figlie ballare, o passeggiare di su di giù a braccetto di quegli Alemanni vestiti di magnifiche assise! Le donnicciole delle casette vicine potevano quella notte dormire tra due guanciali, se li avessero avuti, ché nessuno di questi spiritelli si sarebbe tolto da tanta delizia d’acconciature, di gale, di code, per venire a fastidire. Né i mulattieri, discesi all’alba ad arnesare, avranno trovato i bardotti o le mule colle criniere intrecciate o mozze.
O che avranno detto i ritratti dei due monarchi Carlo VI d’Austria e Filippo V di Spagna, incorniciati sopra gli architravi di due usci, l’uno di faccia all’altro, e posti in modo che parevano sbirciare le donne e i cavalieri? Quei due ritratti erano fattura d’un pittore del borgo, che li aveva dipinti dal vivo l’anno 1702, e si vedeva dalla scritta che i due sovrani avevano dormito dai marchesi Scarampi proprio in quel palazzo. Un figlio del pittore, divenuto buon musico, sedeva quella sera sul palco a dirigere i suonatori: e rammentando d’aver sentito dal proprio padre le meraviglie dei due monarchi, guardava, suonando, i loro ritratti, come se aspettasse di vederli sorridere, cavar di sotto le corazze una pizzicata di monete d’oro, e chiedere a lui notizie del babbo che li aveva dipinti poveruomo morto da lunga pezza.
Chi fosse stato a quella ed a qualunque festa da ballo di quei tempi e volesse farne paragone con quelle dei nostri, direbbe che gli avi si accontentavano di cose alle quali noi piglieremmo gusto, proprio come a dormire su d’un monte a bocca aperta quando tira il vento. Eppure ballavano i nostri vecchi meglio di noi: ballavano gagliardamente, per mantenere agile la persona e l’animo lieto, e i gran passi di terza e di sesta erano segni di buona gamba. Più era stimato chi sapeva meglio trinciar cavriolette, fare riprese, roteare a battuta: si ballassero monferrine, furlane, gagliarde o correnti, bisognava aver petto sano per non trafelare. Smettere prima dell’ultima nota dei suonatori, sarebbe stato farsi canzonare da donne e da fanciulle. Le quali, a vederle reggersi colla punta delle dita un po’ di gonna, tanto che i piedi ne uscissero appena scoperti fin sopra la noce, e col capo chino vezzosamente, strisciarne uno innanzi e l’altro volgere di lato, modeste, agili, rapidissime, e fare da un lato all’altro le sale, dovevano essere un desio. Quello era ballare davvero.
Di balli, a Cairo, dopo la venuta degli Alemanni, se ne erano visti molti; ma niuno si rammentava d’aver ballato con estro, come in quella sera. La mezzanotte era passata da un pezzo; e a quell’ora Giuliano e i quattro giovani scampati all’ira del padre Anacleto, giunsero alla porta del palazzo, e si misero dentro: Giuliano, combattuto da desideri e da paura, si fermò peritoso nell’atrio, lasciando che i compagni salissero quelle scale, echeggianti di festoso bisbiglio. E, forse pentito, avrebbe dato di volta, per ripigliare la via che aveva a fare, ma, sul muricciolo del cortile, stavano alcuni giovani popolani, i discorsi dei quali si mescolarono, come già tante altre cose strane, nei fatti suoi. Essi godevano accidiosi di quel po’ di festa che potevano vedere attraverso i balconi aperti; parevano anime del Limbo, tormentate dalla vista d’un po’ di cielo; e, alla luce che loro pioveva addosso, parlavano basso, quasi timorosi d’essere colti a godere di cosa non fatta per essi. Ed uno diceva:
- O vedi la sposa, la sposa! Ci ho badato, e dei balli non ne ha tralasciato neanche uno!
- Sfido io! - rispondeva un altro.
- E chi s’era mai accorto, - entrava a dire un terzo - chi s’era mai accorto che fosse così bella! Quando si tornava da far legna, e la si incontrava con la sua zia, mi pareva un digiuno comandato.
- Hai a dire, che, ne’ suoi panni d’allora, pareva una santa che parlasse cogli occhi! Così rinforzita somiglia una di quelle stame che portiamo in processione, tutte trine, nastri, oro, ma che non dicono nulla.
A queste parole, dette da quel popolano, Giuliano si mosse e salì le scale con passo sicuro. Rocco, che nulla si curava di quegli spettacoli, e forse voleva andare sconosciuto anche a Cairo, vedendo che il padrone saliva di sopra, si sdraiò nell’atrio e si appisolò un tantino.
- Dov’è la sposa? - chiese Giuliano ai compagni, che s’erano fermati sull’uscio della sala, aspettando che fosse finita una gavotta gaia, spedita, vorticosa, che pareva un visibilio, e, sfolgorante di bellezza, di sdegno, di dolore, guardò. I suoi occhi videro, il suo cuore provò uno squasso, le mani gli si contrassero fieramente.
Vestita di raso bianco, cangiante in un azzurro oltremarino leggerissimo, che le rialzava la carnagione, Bianca ballava in mezzo a quella folla d’ebbri felici, più ebbra di tutti. Una bustina color di rosa le stringeva la vita, e le reggeva il seno voluttuoso, appena coperto d’una modestina a trafori, che ne velava la sommità. Le braccia, ignude fino più in su del gomito, agitavano le trine cadenti in moltissime pieghe dagli sgonfietti delle ascelle; e le smaniglie ai polsi, e il monile di gemme mostravano come quella fanciulla sapesse d’essere bella, e quanto fosse venuta innanzi nella via della vanità. I geni della innocente e timida adolescenza si erano tutti partiti da lei, e gli occhi e le labbra avevano già appreso l’arte dei sorrisi vezzosi. Che cosa erano quei capelli acconciati in falsi cirri, e impolverati, come di donna invecchiata nei festini? E quel diadema scintillante in cima della fronte? E quella penna candida, che, innestata alle trecce insieme al velo diffuso sulle spalle, le ondeggiava superbamente sul capo? Colei dunque era Bianca?
Giuliano arrossì; sentì dentro un rimescolamento, come se qualcosa vi si struggesse, qualcosa vi si ricomponesse; ma gli parve di aver più sciolto il respiro, e potè reggere a guardar quella donna a lungo.
Il signor Fedele, che aveva visto il giovane apparire sulla soglia improvviso, mentre che egli era lungi cent’anni dal pensarvi, tremò che fosse per accadere del torbido; e date di qua e di là colla mente parecchie capate, cercava modo di parare qualche gran colpo. Non trovò nulla di meglio che avvicinarsi ai musici e accennare che quella già incominciata fosse l’ultima suonata. Lo sposo di Bianca, sebbene fosse coll’animo in luogo sì alto, non poteva badare a tutte le cose che avvenivano, tuttavia vide il turbamento dcl suocero, e fattoglisi vicino a chiedergli che avesse, potè indovinare che l’apparizione del giovane forastiero gli metteva addosso la smania. Le occhiate, che colui dava alla sua sposa, gli fecero corrugare la fronte, e fu lì per andargli a domandare che cosa avesse a vedere in quella signora; ma appunto i musici mutarono la gavotta in una monferrina rapida e clamorosa, che doveva metter fine alla festa.
La monferrina era una danza di gala, ma all’ultima suonata si soleva mutarla in una ridda, nella quale tutti venivano travolti in un vortice, anche coloro che stavano a vedere, giovani e vecchi. E, quasi a mostrare che non si smetteva dalla stanchezza, ognuno badava a strepitare per sette; dond’avveniva uno scambiarsi di danzatori e di danzatrici, un passar come razzi da un capo all’altro, un turbine, un tramestio da schiantar i pavimenti.
Giuliano non ebbe tempo d’accorgersi di quella bufera, che agguantato coi quattro amici, fu trascinato nel ballo, spinto, rapito da catena a catena, finché, quasi lo si avesse voluto schernire, gli fu posta nella sua la mano di Bianca.
Era la prima volta che quelle due mani si toccavano, ma, ahime, in qual guisa, e quanto diversa da quella vagheggiata dal giovine sventurato! Ma Bianca, come fosse invasa dal genio d’una baccante, non si avvedeva di lui, se a sentirlo restio, non gli avesse dato uno sguardo. Parve alla bella donna di sentirsi una fiamma accesa tra ciglio e ciglio, e un sorriso arido, amaro, spuntò sulle labbra di Giuliano. Il quale non mosse piede: si tenne ritto e severo: e, come l’ultime note dei clarini scompigliarono quella ridda finale, fuggì frettoloso, scese a precipizio le scale, e, passando vicino a Rocco, che subito gli tenne dietro, uscì nel piazzale.
- Signorino - gli disse Rocco, vedendolo uscir di là dentro come ne lo avessero scacciato - se le hanno fatto qualche torto, sono qua io...
- Oh Rocco! - rispose Giuliano, stringendosi al collo del contadino; e forse avrebbe detto qualcosa, ma un bisbiglio, un rumore di passi veniva giù dalle scale del palazzo: tutta quella gente lieta del festino, a coppie, a brigate, si versava nel piazzale; e là auguri e risa e promesse, cortesie infinite che accompagnarono gli sposi sino alla casa del signor Fedele.
- Va - pensò il giovine guardando dietro al corteo: - va pure..., tu, le tue nozze, le tue gioie, tutte cose funebri, da scolpirsi sopra i sepolcri bugiardi...! O madre, amor mio, tu hai detto il vero; questi son luoghi da fuggirli per sempre!
Così dicendo si mosse. E Rocco dietro di lui andava non più come un servitore devoto, ma come un uomo messo a guardia d’un infelice, cui stesse per dar volta il cervello. Credeva che il signorino si avviasse per uscire dal borgo, ma stupì vedendolo pigliare un vicolo che menava proprio nel mezzo di questo. E tuttavia non osò dirgli che forse sbagliava la via. Giuliano non la sbagliava punto; ma camminava dritto per andar da don Marco, a dirgli addio, forse a parlargli di quel che aveva visto, per conforto di quelle parole di cui soltanto il buon prete conosceva il segreto. Giunto a quella porta, agguantò il martello e fu lì per battere; ma si sentì rimordere di venire a destare un vecchio a quell’ora, e non lo fece. intanto gli fuggì un’occhiata in su alla casa del signor Fedele, ch’era di contro; e vide illuminarsi la finestra di Bianca, quella finestra ch’egli non aveva mai osato di varcare colla fantasia, dalla tema d’offendere la fanciulla che vi dormiva dentro. Ebbe uno schianto di cuore non provato neanche quando aveva inteso che Bianca s’era sposata; lasciò il martello, e, senza dir nulla, ripigliò la via per allontanarsi.
E questa volta uscì davvero dal borgo, e sarebbe andato innanzi chissà quanto muto, se Rocco, mosso da grande curiosità, non gli fosse entrato della via che voleva tenere, e a poco a poco anche del padrone di quella casa, cui aveva voluto battere poco prima. A tutte le domande del colono, Giuliano rispondeva breve come chi ha altro da pensare; ma a quest’ultima il suo cuore si aperse, e quasi provando un gran sollievo a pronunciare il nome di cui Rocco chiedeva, rispose:
- Oh... quella è la casa d’un giusto... è la casa di don Marco...!
- Don Marco! lo conosco, è un santo che ha fatto tanto bene alla mia Tecla.
- Come a Tecla? - disse Giuliano.
- Appunto - rispose questi - una sera di questa estate, quasi mi vergogno a dirlo, essa ci era sparita di casa...; uno spavento! Si figuri...! e chi la voleva morta, chi rapita dagli Alemanni, chi annegata... Ma coll’aiuto di Dio la trovammo laggiù al Passo dei guai, proprio a piè della croce, sa...?
- E dove voleva andare?
- Ma...! quel giorno il pievano era venuto a dire a sua mamma che volevano metterla in prigione a Torino.
- E Tecla che c’entrava...?
- Ma... voleva venire a Torino a liberar lei! Teste piccine di donne…!
- Narratemi ogni cosa, Rocco; - disse Giuliano pigliando lena perché non mi avete mai detto questi fatti...?
- Ma... - rispose Rocco; e cominciò la storia di quella notte. Giuliano ascoltava camminando a capo chino, ora tocco nel vivo del cuore dalla pietà, ora sdegnato sentendo che don Apollinare voleva che Tecla fosse stregata. E così pei pensieri più fuori di mano, un tratto in riva alla Bormida, un tratto in mezzo ai campi, cansando le pattuglie Alemanne, s’affrettavano verso il confine. In un punto, dove quattro mura mozze paiono ruine, e sono invece d’una cappella rimasta costrutta a mezzo, forse perché fu chiarito che la Madonna, cui si voleva dedicare, e che si diceva comparsa in quel sito, non era stata che qualche villanella vestita da festa, il giovane si fermò, e, voltosi a Rocco, parlò in guisa che a costui parve di non aver più a far col padrone, ma con un figliuolo.
- Rocco, fa giorno e potete tornare. Dite a mia madre che io sono uscito dalla terra libero, tranquillo e desideroso di trovar quella casetta, nella quale vivremo con essa tutta la vita. Direte a Marta che abbia cura di mia madre; e voi, se mi volete bene, andate a Santa Giulia, riconducete subito la vostra Tecla a casa; meglio che sotto i vostri occhi non può stare. Ve la raccomando, ma tanto...
E data una stretta di mano ed alcune monete al pover’uomo lo piantò sulla via e tirò innanzi.
Rocco, strologando su quel pensiero che il signorino si pigliava di Tecla, stette a guardarlo finché potè vederlo, poi tornò addietro. Di là ad un’ora ripassava per Cairo dove la gente era già fuori per le vie, con quella gaiezza mattutina che i giorni di festa fa belli i villaggi. Le donne scopavano dinanzi alle case: gli uomini s’affacciavano allacciandosi al collo la camicia di bucato, e chiedendosi, da finestra a finestra, a quale ora fosse finito il ballo degli sposi; su certi balconi le madri pettinavano i bimbi per mandarli netti a messa; e su certi altri le fanciulle, spiccavano garofani dal vaso, forse per farne un mazzolino ognuna al damo.
Il buon uomo vide queste cose, traversando il borgo, e, di là dal ponte, trovò che gli Alemanni in sull’armi, ascoltavano devotamente la messa, celebrata sopra un poggiolino in mezzo a un prato. Egli avrebbe voluto fermarsi a sentirla; ma oltre che la era già innanzi di molto, detta così all’aperto, gli parve cosa troppo da soldati; e tirò dritto col proposito di udirne una al Convento dei Minori Osservanti, dove, per andare a Santa Giulia a pigliar la figliuola, aveva a passare.
Colà era giorno di grandi preghiere e di grande sollazzo, in onore della Madonna degli Angeli. Dall’architrave della porta maggiore della chiesa, pendeva la tabella dell’indulgenza plenaria; nella selva e nei prati intorno v’erano ridotti e baracche da potervi mangiare, cioncare, fare alle pugna, dopo aver data una ripulita all’anima, con un po’ di perdonanza e un po’ d’elemosina fatta al convento.
La via che menava a quella volta, era tutta una processione, e tanta era quel giorno la folla, che la sagra pareva un giubileo. Sott’essi i pergolati del convento, già sin dal mattino era una briga di mercanti d’ogni generazione, i quali si davano attorno a porre i loro banchi, bisticciandosi alla buona tra loro. Nel piazzale della Chiesa, giocolieri, storiai, vinai, contendevano per un posticino; ed il cerretano, che ogni anno soleva venirvi, faceva gente stronbazzando di su un tavolino, avuto a presto dal frate dentista del convento, pronto a fargli servizio per non parere invidioso. Più in là, dietro l’edificio, nel prato che sembrava fatto a posta, avevano formata una sorta di lizza, e ad un palo pendevano guanti e palle di cuoio di parecchie grandezze, segni di sfida tra i giuocatori dei contorni. Poco discosto, su d’un’impalcatura all’ombra di una quercia, i suonatori d’un ballo campestre cominciavano ad accordare gli strumenti. In fondo al prato poi sorgevano le baracche formate di lenzuola e di frasche; e gli osti stavano a certi fornelletti cuocendo i polli, che le loro fantesche sbuzzavano, pelavano, abbrustivano, frettolose e tuttavia bestemmiate per pigre. Fra tanto folla, che cresceva ognor più, i frati andavano colle labbra e colle tabacchiere aperte a darne pizzicate e sorrisi: per taluno avevano parolette d’invito a farsi vedere in cucina o in refettorio, e il fortunato era di certo un benefattore campagnuolo, o tale su cui la frateria aveva messo gli occhi e le speranze.
Rocco, fattosi via fino alla porta della chiesa, potè entrare a sentir la messa. Pagato così il suo debito al Signore, tornò fuori colle mani nelle saccocce delle brache, tastando le monete avute da Giuliano e da sua madre. Accortosi d’aver fame, tirò il conto delle miglia che gli sarebbe bisognato fare per giungere a Santa Giulia e, non gli tornando bene al ventre né alle gambe, s’avviò a una baracca.
Ivi si davano spasso, bevendo e chiaccherando, parecchi avventori, i quali, dopo aver mangiato, non facevano segno né di voler pagare né d’andarsene. L’oste non osava dir loro nulla, essendo essi miliziotti o soldati. I primi armati di lunghi schioppi, che, alle canne e ai fregi, apparivano di fattura spagnuola, raccattati forse sui campi di battaglia di quelle parti, meglio che mezzo secolo prima) erano stati di quello stormo levatosi in armi il maggio di quel l’anno. E, avendo pigliato diletto di vivere randagi, si soffriva dal magistrato che andassero armati, perché, bisognando, facevano ufficio di guide agli Alemanni, e campavano di questa professione e di piccole rapine. I soldati, poi, erano gente dei vecchi Reggimenti Sardi, pronti e soverchiatori, ma rispettabili per ferite delle quali portavano i segni ancor freschi, e stavano a guarirsi nel borgo. Essi avevano combattuto contro i Francesi più d’una volta, sull’Alpi marittime; adesso, colle gomita sulla mensa, bevevano alla salute dei vivi e alla memoria dei morti, giurando clamorosamente sugli scapolari che avevano di sotto i panni, molli di sudore e sudici. Colle dita intrise di vino, descrivevano sulla tovaglia i campi e le ordinanze in cui avevano combattuto. A udirli, questo era il colle di Raus, quest’altro quello di Milleforche; qui il capitano Zin, co’ suoi cannoni, aveva mandati i sanculotti ruzzoloni giù pei dirupi come sacca di carbone; là era caduto il capitano Maulandi, venerato da quei valorosi che l’avevano veduto morire, e ne cantavano i versi scritti da lui sulle montagne, ove cadde, poeta e soldato. S’accendevano parlando di lui, come si sarà acceso il Botta scrivendone le lodi in una mesta pagina della sua storia. Rammentavano le rive del Tanarello e della Saccarda, di Colle Ardente e di Saorgio, i vili e i traditori. E qui, uno di quei soldati, trovandosi ritto nella foga del suo dire, data una vigorosa palmata sulla mensa, e guardando a cera prepotente quanti erano nella baracca, giurava che il Re era tradito, e che, se i Francesi trovavano la via men aspra dell’anno prima, sebbene le valli fossero zeppe d’Alemanni, accadeva perché, da Torino insino all’ultimo villaggio del regno, v’era in ogni casa un traditore.
- Lo giuro! - gridava egli invelenito su quell’idea, e si rimboccava, dicendo, la manica fino all’ascella scoprendo un viluppo di muscoli poderosi: - questo braccio fu ferito, ma è forte ancora, e, se mi capitasse innanzi un Giacobino, lo ammazzerei, fosse mio padre. Chi è qua dentro che non vuol gridare: viva il Re?
- Evviva il re! - urlarono quaranta o cinquanta gole mezzo ingozzate di lasagne: e all’urto tenne dietro un rompere di tossi, di starnuti, di singhiozzi per contrazione, mentre il soldato, sorridendo a tutti, chiamando tutti amici, andava attorno toccando col suo gli altri boccali. Giunto a Rocco, che mangiava rincantucciato in fondo alla baracca, e si sentiva tremare il cuore, il soldato gli si piantò dinanzi: - E voi - gli disse - che fate costì, che mi parete un volpone sotto una cesta? venite qua in buona compagnia! - E, pigliato il piatto, i pani, il boccale del poveretto, lo tirò a quella mensa dove egli e i suoi facevano quel tanto baccano. Là Rocco dovè rimettersi in loro: mangiò e bevve com’essi vollero; chiese licenza d’andarsene parecchie volte, ma gli toccò fare più di mezzogiorno, ora in cui potè uscire libero, pagando tutto lo scotto di quei soldati.
E ancora gli parve una grazia.
Quando fu fuori trovò che la folla s’era fatta così fitta, da non potersi muovere, uno che avesse fretta, a suo agio. IL ballo campestre bolliva sotto la sferza del sole, e le foresi, danzando coi loro dami gighe e gavotte, si struggevano in sudore. Ma al caldo non ci badavano punto. E bisognava vedere quei garzoni, come, finita una danza, facevano a chi fosse più spedito a ripigliar il posto, affollando il festaiuolo, empiendogli di spiccioli le mani. Ed egli pigliava e ringraziava per sé e pel convento, cui doveva pagare le decime; poi diceva ai musici che tornassero a suonare, e significava, ammiccando, che le suonate volevano esser corte e frequenti.
La vista di quel ballo era la cosa più ghiotta della sagra, e i signori vi si disfacevano dalle risa. Vi adocchiavano le belle campagnuole, imparando a conoscere i loro amori; e, povere giovani, il più delle volte, virtù addio!
Mosso da curiosità, Rocco volle avvicinarsi a quello spettacolo; e a forza di gomiti fattosi un po’ di passo, ecco a quale incontro inatteso riusciva. Lo zio di Tecla, che non era giunto a cavare a questa quattro parole, in ventiquattr’ore dacché l’aveva in casa, messosi in testa di darle un po’ di svago s’era accompagnato con essa ad alcuni vicini, uomini e donne, arrivando al convento, forse un po’ prima, forse un po’ dopo di Rocco. Fatte le divozioni e pigliati anch’essi i ristori, in una delle tante baracche, i montanini avevano finito per mescolarsi alla folla che faceva corona al ballo; e alcune giovinette della comitiva presero a danzare, mentre alcune altre, modeste e quasi mortificate, stavano a vedere. Tra queste era Tecla. Essa si teneva in mezzo alla calca, colle mani alla vita, una sull’altra, guardando co’ suoi grandi occhi le danzatrici. Si sarebbe detto che ne provasse compassione. Era là forse da mezz’ora, stretta, pigiata; ma non si avvedeva di non aver più allato né le compagne, né lo zio col quale era venuta in quel luogo.
E neppure aveva badato che, spinta lentamente, ora indietro, ora di lato, si era scostata, a poco a poco, dai danzatori dei quali non vedeva più che le teste. Ma badavano bene ad essa due giovani signori del borgo di Cairo, i quali, avendole posti gli occhi addosso sin da principio, s’ingegnavano, a quel modo, per trarla fuori della sua compagnia; di certo coi disegni che sanno fare i vili fortunati che un tempo della loro vita spendono a svergognar donne; un altro tempo a rifare gli averi, e, vecchi, finiscono in chiesa coi salmi penitenziali. I due avevano la fanciulla in mezzo, e già si rallegravano colle occhiate del termine cui speravano condurre chi sa che ribalderia, quando s’udì un grido tra la folla, un grido come d’uomo che tastandosi sotto i panni si trovi rubato.
- Tecla! Tecla! - e un volgere di teste, un mareggiare della gente, un moto di braccia tenne dietro a quel grido, percossa dal quale, Tecla si riscosse, e, vedendosi allato i due sconosciuti, si sentì le vampe, e potè appena rispondere: - Son qui!
Colui che l’aveva chiamata era lo zio, accortosi improvvisamente di non averla più vicina. Ma primo a romperle attorno la calca fu Rocco, il quale, capitando appunto, aveva riconosciuta la voce del cognato e quella della figliuola.
- Largo! Largo! - gridava egli lavorando di braccia - Cognato, Tecla, son qua io! - E si mostrava di subito così indraghito, che guai a chi si fosse avvisato di trattenerlo; guai a chi aveva fatto male alla fanciulla; guai a quei due, che non la stringevano più ma che non si poterono cansare, quando egli, per disopra le loto spalle, potè porle la sua larga mano sul capo, gridando: - È mia figlia !
- O chi ve la vuol mangiare? - sclamò uno dei giovani vedendosi guardato da Rocco a squarciasacco.
- So dir che sì! - rispose Rocco, cui l’istinto paterno ammoniva del vero; ma ravvisando colui per uno dei quattro che la notte innanzi, fuggendo dalla cella del Padre Anacleto, s’erano imbattuti in lui e nel signorino: - Lei, - soggiunse - lei, lo so che cosa è buono a fare... ma! - e si morse la lingua. Baciò, come si suol dire, il bastone, e gli parve un bel che poter uscire di quel passo colla figliuola. La tirava così per mano fuori della folla, pallida che metteva compassione; e il cognato veniva dietro trovando scuse, ed egli a rimproverarlo con aspre parole.
Bisticciandosi, andavano verso il convento, quando a stornarli dalla loro lite videro la gente sul piazzale della chiesa far largo, e udirono sussurrare: - gli sposi! gli sposi! -. Era Bianca, era l’Alemanno, con parte dell’allegra accompagnatura del giorno innanzi, che avendo desinato nella palazzina del signor Fedele venivano adesso trascinando in quel luogo la festa nuziale.
Tecla vide, e l’amore le fece indovinare chi fosse quella donna felice. Osò guardarla in viso, e le parve men bella di quel che aveva inteso dire tra la signora Maddalena e don Marco, e ne gioiva. In tanto un frate, fattosi al portichetto del convento ad incontrare la comitiva, salutò la sposa con dimestichezza, e fu da tutti salutalo reverentemente pel padre Anacleto.
Padre Anacleto! Rocco si tastò se era vivo, vedendo allegro quel frate di cui aveva inteso la storia dai quattro capi scarichi, la notte innanzi... Ma più fu turbato quando di quei quattro vide sopraggiungere i due che poco prima s’erano messi ai panni della sua figliuola, e, tutti inchini e rispetti a quella dama, avere da essa e dal frate strette di mano e sorrisi, come gente dabbene. A quei portamenti, non potendo più reggere, fu a un pelo di correre dal padre Anacleto, gridando:
- Oh che razza di frate è ella mai, che tutti i cattivi cristiani che sono al mondo li ha per amici?
Senonché in un uomo del popolo come egli era, gli sdegni generosi salivano sì, ma subito si rincasciavano in cuore. Rocco, rattenendosi anche questa volta, tirò via con Tecla, accomiatandosi dal cognato, dolente di vedersela tolta in quella dispettosa maniera.
La fanciulla camminava dietro del padre, paurosa d’esser ricondotta a casa, di spiacere alla signora Maddalena, e d’incontrarvi Giuliano che non sapeva partito; e Rocco, pensando a quei giovani, alla propria collera della notte innanzi, al fatto del padre Anacleto, combatteva con un dubbio che gli voleva entrare nel cuore, sulla santità dei sacerdoti, né, per quanto fu lunga la via, gli venne detta parola.
Così giunsero a Dego nell’ora in cui la signora Maddalena soleva sedere in sala, al balcone che guardava dalla banda ond’essi arrivavano, perché vi si godeva una bella vista, e il sole non vi poteva, e un venticello, che pareva mosso dall’acqua del torrente, vi recava una deliziosa freschezza. Essa stava là appunto, donde non si era mossa in tutto il giorno, piena ancora dello sgomento cagionatole dagli Alemanni, la notte innanzi. E, vedendo i due apparire, si levò con l’anima tutta negli occhi:
- Ha passato il confine che appena era l’alba - disse Rocco arrivando sul piazzale.
- Iddio lodato! - sclamò la signora; e, togliendosi dal balcone, venne nell’atrio a incontrare il colono, che si fece passare la figliola dinanzi. - E per via non aveste incontri? - chiese essa, tirandosi Tecla in casa col padre. Egli, avvicinando nella sua mente la fanciulla e Giuliano, per le raccomandazioni avute dal giovane, proseguiva: - è di là, franco come una doppia di Spagna. Mi disse che fra pochi giorni avrà trovata la casetta, e prega lei di andarlo a raggiungere subito...
La signora ruppe la parola in bocca al pover’uomo con un sorriso; perché, a udir rammentato quel suo desiderio d’una casetta in riva al mare, fece come l’uccello che migra, se giunto a scoprire la terra del suo riposo, misuri le forze, e senta di non poterla arrivare. Ma non aggiunse parole a quel mesto sorriso di speranza così languida: bensì voltasi a Tecla: - O Tecla - diceva - dunque tu sei tornata...? Noi ripiglieremo le nostre usanze, le nostre letture, le nostre penne... nevvero? Perdonami sai, se t’ho fatta andare a Santa Giulia; hai fatto bene a tornare, Marta ci darà da cena, tu rimani qua... Rocco, voi e vostra moglie verrete a mangiare con me un boccone, e mi racconterete tutto...
Tecla, sempre colla mano nelle mani di lei, si sentiva tremare il cuore, e ringraziava il cielo che Giuliano non fosse a casa.