Giuliano, detto addio a Rocco, s’era trovato solo dove niuno faceva guardia al rigagnolo che divideva le terre del re di Sardegna, da quelle della repubblica Genovese. Non gli rimanevano a fare che pochi passi, e poi, avesse avuto dietro di sé tutta la cavalleria ungherese, egli sarebbe potuto volgere dall’altra sponda a riderle in faccia, sicuro come fosse stato a Genova in casa al Doge. Sino a quell’ora, la neutralità della repubblica era stata rispettata dagli Alemanni. Ma nell’atto di sconfinare, gli si era fatto un nodo al cuore, e non poteva reggersi ritto a tirare innanzi. Forse i proscritti dei tempi vecchi si fermavano, in quella mesta guisa, al confine del loro comune, volgendo gli occhi alle torri, alle cupole della città donde erano sbanditi per tali: Guido Cavalcanti sulla via di Sarzana collo sgomento dell’esilio in viso, e colla malinconia che gli ispirò poi la Ballatetta afflitta e famosa.
Quante volte il giovane avrà voluto tornare, e quante volte avrà ritratto il piede, nel punto di passare quella poca acqua, che gorgogliava tra i macigni e le radici sterrate dei salici e dei pioppi, egli che aveva corso da Torino a Dego tante miglia, quasi senza abbadarvi! Ma in quel viaggio egli era venuto per terre nelle quali era come essere in patria: adesso, di là da quel rigagnolo, donde pur si potevano scoprire le cime dei monti a’ cui piedi era il suo borgo, avrebbe messo il piede sopra terra straniera. Che importava che la gente vi parlasse, su per giù, un dialetto uguale a quello di Dego? Là si viveva sotto altre leggi; il popolo vi obbediva altri magistrati; il rifugiarvisi d’ogni sorta di perseguitati dava a quella terra cattiva fama tra il volgo; e Giuliano, pur non credendo di capitare in mezzo a gente sbattezzata, gli sapeva male di doversi gettare fuori del regno, come un malfattore. La casa materna non gli era mai parsa lontana come in quel punto, e, di pensiero in pensiero, si ridusse a pregarsi di potervi stare, non da padrone, non da figliolo della padrona, ma sconosciuto, da servitore, pur di poter vedere la madre, Marta e Tecla ogni giorno; Tecla che gli si affacciava da lungi, e pareva venirgli incontro sorridente, amica, sicura. E adesso, dopo il discorso avuto poco prima con Rocco, gli si figgeva in mente come una cosa cui, un giorno o l’altro, avrebbe dovuto pensare.
Sarebbe rimasto su quella sponda chi sa quanto, se non badava al sole che intanto s’era fatto alto. Ond’egli, dato uno strappo a se stesso, era disceso giù dalla ripa e aveva varcato, o ruscelletto modesto, le tue acque, che, in quei tempi, furono salvezza a tanti fuggitivi, come se san Giorgio il valente fosse stato a galoppare, colla lancia in resta, lungo la sua sponda. E tu, allora, non sorgevi vicino a quel ruscelletto, o modesto cimitero di Carcare; né tu, che vi scendesti a riposare colla fede d’andare in terra di vivi, eri peranco nato, o maestro della mia giovinezza, Atanasio Canata, povero Scolopio, cristiano antico. Ma le campane del collegio, che suonavano a doppio la messa, nell’istante in cui il profugo toccò il suolo della libertà, erano le istesse cl e dovevano poi governare la tua vita tanti anni, o dolce maestro mio; quelle istesse di cui mi rimase negli orecchi la romba, cara come la voce tua,, come la voce tua, e come la vostra, o amici dell’adolescenza; che, se mai vi capitasse fra le mani questo racconto, vi rammenterete di me, come io mi ricordo di voi con amore; e vi veggo sempre sulle memori panche della scuola, come or sono vent’anni.
Nessuno mi si faccia severo per questo viluppo d’apostrofi, le quali non son poi troppe, per chi, novellando, si trova con uno de’ suoi personaggi in luogo di memorie dolcissime. E tiri pur oltre, che io baderò a non farlo uscire spedato per le vie, che Giuliano ebbe a fare su d’un muletto, pigliato a nolo nella terra di Carcare, piena allora di contrabbandieri, che facevano servizio, con pronto animo, a chi avesse viso di perseguitato e di largo spenditore.
L’Apennino, salito al passo lento della cavalcatura, era sembrato interminabile al giovane, che, per tutta la via, non aveva bocca a parlare colla sua scorta. Ma giunti in cima al giogo il mulattiere, vedendo il viaggiatore non maravigliato della bella vista che si parava dinanzi, quasi per consigliarlo che alzasse il capo a vedere, esclamò: - il mare!
Quando io ripenso a quel mattino d’autunno, in cui giovinetto vidi la prima volta il mare, di su quel colle, sempre si rinnova in me ciò che allora provai nell’anima e nella persona, e che non seppi mai dire. E però non mi rischierei per nulla ad esprimere quello che provò Giuliano; il quale sapendosi prostrare collo spirito alle grandi bellezze della natura, raccolta nel petto largamente l’aria di quell’altezza, rimase a contemplare a lungo e muto; poi prese la china, come voglioso di correre a tuffarsi, a smarrirsi, in quella lontananza sterminata.
A’ nostri giorni la strada agevole e bella, menzionata sin dal principio di questo racconto, scende da quella vetta, passando a piè della torre di Cadibona. Ivi, Giuliano levò gli occhi in su, a mirare l’altezza della torre; e ad una delle finestre vide una donna soave, bionda, mestissima, che gli sembrò una sorella, affacciata lassù per dargli la buona andata. Tirò innanzi senza chiedere a’ mulattiere chi fosse quella donna; ma si compiacque nell’immaginarla figlia o sposa di qualche vecchio cannoniere della Repubblica, messo là a riposare e a custodire la torre. Mesta era, e la giudicò anche infelice, fantasticando sulle sventure di quella sconosciuta. Senonché le fantasticherie si mutarono in maraviglia, quando si vide innanzi il gruppo di colli anfrattuosi soggiogati dalla torre. Su quei colli splendeva la virtù della forte razza ligure, che assale le roccie, le spetra, le costringe a diventare feconde ed amene. Giuliano ammirò i vigneti, prosperosi e fitti sulle macìe, murate con interminabili fatiche a reggere la poca terra, donde quei montanari cavano il pane. La vendemmia essendo vicina, pei lunghi filari, sovrapposti gli uni agli altri nei ripidi fianchi dei colli, si vedevano i rossi berretti dei vignaiuoli, e i corpetti bianchi delle loro donne, intente, com’essi, a legar alti i tralciati, affinché i grappoli pigliassero meglio i raggi del sole.
E lavorando cantavano, con mirabili accordi, le loro vecchie canzoni, dalle quali spirava qualcosa che somigliava alla tristezza magnanima che ci viene dal canto della servitù di Babilonia. Quella mestizia di toni che non pareva da gente così gagliarda, si mescolò nei sentimenti di Giuliano, e lo fece tornare col pensiero alla donna veduta poco prima e compianta.
Se fosse stato un giovane dei nostri tempi, egli avrebbe pregato tra sé, che venissero i popoli d’ogni parte d’Italia a visitare quei colli, e a impararvi come si muoia meritatamente di fame e di viltà, sui pingui campi lasciati mutarsi in paludi: mentre che quelle rocce dell’Apennino paiono, per mano dell’uomo, la terra promessa. Ma egli tirò oltre senza pensare a questo; e, per boschi selvaggi, continuò la sua via verso Savona, dove (tra il fermarsi a riposare e a rinfrescarsi, avendo fatto quasi notte) giunse colla sua guida all’ora in cui Tecla e Rocco erano comparsi a Dego a levar di pena sua madre, come si è visto nel capitolo precedente. Le vie della città, anguste e tetre per l’altezza delle case, erano affollate di gente. Alle cantonate turbe di donnicciuole e di marinai cantavano le litanie, ginocchioni dinanzi a Madonne sorridenti da belle nicchie fatte d’ardesia e di conchiglie, ingarlandite di fiori, con attorno centinaia di lumicini. Le botteghe dei mercanti, dalla più ricca dell’orafo, a quella del cenciaiuolo, erano tutte chiuse; ma, sopra le porte, avevano ognuna la propria Madonnina col beato Antonio Botta inginocchiato a’ piedi; uomo fortunato, cui anticamente era apparsa la Vergine, come i Savonesi sapevan tutti. Le padrone delle botteghe, grasse e sfolgoranti di vezzi d’oro agli orecchi, ai poIsi, come statue cariche di voti, cinguettavano dalle finestre colle comari di faccia: preti, frati, monache d’ogni colore, andavano e venivano, inchinati dalla gente devota: in mezzo alla quale Giuliano ebbe molto a penare per farsi far largo coll’aiuto del mulattiere, che alfine lo fece scendere ad una osteria, che dava sul porto. Di là si vedeva un poggio, su cui sorgeva un edificio, che, al sito ameno e al campanile, si conosceva per un convento, ed era dei Cappuccini, che, appunto come a Cairo, festeggiavano la Madonna degli Angeli anch’essi.
Fosse la tristezza dell’animo, le memorie di casa sua, o il suono di cento campane, che facevano parere la città una basilica, Giuliano provò un senso di scontento, e quasi gli dolse di essere arrivato. E ancora si aggiunse che dalla osteria d’Alba, a quella lì dov’era, ci correva di molto; perché subito si sentì fra gente che, negli atti, nei visi, nei detti, mostrava di non badare che a sé e ai propri negozi, e sino le voci gli rendevano un suono come di monete che fossero contate in fretta. Cenò di mala voglia col mulattiere, che volle alla propria mensa; poi, pagatolo largamente, si andò a coricare.
All’alba del giorno appresso, egli era già in cammino, uscito dalla città per la via che menava a Nizza; e potè, lungo quella, andando a piedi e a suo agio, confortare la vista in quel teatro di spiagge e di alture. Là i borghi, a vederli di lontano, paiono navigli posti colle vele sciolte ad aspettar il vento o greggi calati dall’Apennino e rimasti sul greppo spauriti dalle troppe acque. Non erano tutti lieti quei borghi; e passandovi (alla vista che fanno le casette nane dei pescatori, e certi fortini mezzo diroccati) il viaggiatore dà anche adesso un’occhiata a questi, un’altra al mare; donde si direbbe che ancora stiano per scendere dalle loro barche stuoli di Barbareschi, a far scempio della povera gente. Ma quelli avevano a essere, senza fallo, i luoghi piaciuti alla signora Maddalena, l’unica volta che era uscita dalla terra di Dego per così lontano paese: quelli i luoghi di cui essa aveva parlato, pregando Giuliano di trovarvi una casetta di quelle che tanto le erano rimaste nella memoria. Egli si mise all’opera sin da quel giorno, sperando di dar del capo in una delle palazzine, sulla quale si fosse posato il desiderio antico di sua madre, e quasi giunse a credere che non avrebbe sbagliato, e che essa, venendovi ad abitare, l’avrebbe riconosciuta.
Girò quel giorno e quattro ed otto appresso, finché si fu inoltrato quasi a Finale, senza aver concluso nulla. Delle case ne aveva viste parecchie e bellissime, ma, ora per una causa ora per un’altra, non gli erano parse da poter piacere alla madre sua; e soltanto al decimo giorno, gira e torna, ne trovò una che stimò facesse benissimo al caso.
Era una casetta pitturata a liste scure e gialle, nascosta in una macchia d’olivi, in fondo ad un valloncello deserto, a bacìo, alla quale si giungeva per una viuzza torta, fuori mano, chiusa tra due macìe mezzo diroccate. Si vedeva chiaro, all’erba di cui era ingombra questa e ingombro il piazzale dinanzi alla casetta, che vi veniva gente assai di rado. L’aveva murata un fantasioso, mortovi dentro per passione paturniosa molti anni prima; né poi era più venuto in capo ad alcuno di tornarvi a stare. In verità pareva più da rinchiudervi uno cui si volesse far morire di malinconia, che luogo da menarvi una donna bisognosa di svaghi e di allegrezze; ma al figlio della signora Maddalena, le cose dei giorni passati avevano formato un umore sì tetro, che egli trovò là tutto bello.
E gli tardò d’avere seco la madre, che già sentiva far le grandi lodi della casa, del sito e del mare, del quale non si vedeva che un lembo traverso una gola angusta, un lembo appena come di cosa vietata.
S’affrettò allora a chiedere del padrone di quel podere; e, s’accomodarono per il fitto. Due giorni appresso la palazzina era arredata, Giuliano vi dormiva dentro la prima notte, contento della profonda solitudine che vi si godeva; e il mattino, alzatosi per tempo, scritta una lettera, uscì per trovare uno che la portasse a sua madre. Non ebbe bisogno di scostarsi molto dal suo romitaggio, che trovò un ortolano o vignaiuolo che fosse; uno di quei liguri robusti, che, da una certa età in su, non sentono più gli anni, lavorano gai ed arzilli, e, il giorno in cui muoiono, fanno stupire tutta la parrocchia, da tanto che hanno vissuto. Lo guardò a piantar la vanga, gli piacque all’atto, e alla nessuna cura di lui; poi avvicinandosi gli disse:
- Quell’uomo, sapreste dirmi dove trovare uno da mandarlo a portar una lettera lontano? Gli darei una bella mancia.
- Per una bella mancia son qua io - rispose il vignaiuolo, rimanendo con un piede sul vangile.
- Sta bene! - disse Giuliano... - E la via di Dego di là dal giogo, in val di Bormida, la conoscete?
- Chi lingua ha, a Roma va...
- Eccovi un colonnato per bere. Ma avete da partire subito, e, giunto a Dego, chiedere della signora Maddalena, che tutti vi insegneranno dove sta di casa. Le darete questa lettera, e tornando mi cercherete a quella palazzina lì oltre...
L’ortolano prese la moneta e la lettera, chiese d’andare sino al suo tugurio, a un trar di pietra: e Giuliano, lasciatolo con molte raccomandazioni, tornò alla palazzina. Indi a poco, di sulla porta, vide il suo messo con in capo la berretta rossa, colle scarpe legate alla correggia delle brache sulle reni, e colla giacchetta sulle spalle, inerpicarsi a piedi nudi per gli scorciatoi, dilungarsi e sparire.. Ma non vide la donna di costui, appena ch’ei fu partito, andare al borgo a vuotare il gozzo. E sin da quel giorno le femminette cominciarono a mandare novelle attorno sul conto del giovane forastiero, che avea tolto a pigione la casa del malaugurio. Chi lo diceva uomo fastidito del mondo, chi un peccatore confinato a far penitenza, chi un soggetto da badarsene come dalla peste. Egli intanto, volendo ingannare il tempo finché il messo tornasse, disegnò di fare una gita di là dal Finale, a vedervi i Francesi che stavano a campo da quelle parti e su pei monti avevano le guardie fino alla vetta del Settepani.
Camminò parecchie ore sulla riva del mare, s’abbattè alfine, quasi stanco, in un posto di cavalieri, male in arnese, d’aspetto squallido e misero, ma pur magnanimo, come si conveniva a vincitori. Tali li descrive il Botta, perché pativano di grandi penurie; ma i loro portamenti avean quasi cancellate le brutte memorie lasciate due anni prima per l’eccidio di Oneglia. I popoli di quelle marine cominciavano a mostrarsi con essi meno selvatici, sebbene li reputassero sempre nemici. Piacque a Giuliano la vista di quei soldati sciolti, operosi, niente burberi, dissimili tanto dagli Alemanni, che camminavano come gente curva sotto un gran peso. Negli anni che era stato a Torino, avendo imparato un po’ di francese, appiccò discorso con un giovane uffiziale, che badava ad un drappello di lancieri occupati a governare i cavalli mentre alcuni fanti cuocevano il mangiare, o ruzzavano coi monelli della terra vicina, ai quali insegnavano giuochi e forze e tratti d’armi, con un’amorevolezza quasi fanciullesca. Quell’uffiziale aveva veduta la presa della Bastiglia, il turbine popolare scoppiato sulla reggia, re Luigi prigioniero e poscia morto, e, tra l’uno e l’altro di questi fatti, aveva combattuto sul Reno, in Vandea, sull’Alpi. Adesso, innamorato del cielo d’Italia, pareva lietissimo di poter barattare qualche parola con un giovane italiano, che parlava la lingua della rivoluzione.
Giuliano tornò da quella gita collo scompiglio nel cuore. Oh! quelle divise, quelle lancie conficcate nella sabbia, quelle lunghe spade! Averne a fianco una, e una lancia nel pugno, e un cavallo tra le ginocchia, e tra quei valorosi, accozzarsi quando che fosse coi soldati Alemanni, di là dei monti, forse nei propri campi! E tra i nemici intoppare forse colui... no! Questo pensiero non gli si formava intero nella mente; e si mutava nell’immagine di Bianca, che, guizzando come lampo che illumina e passa, gli lasciava negli occhi scolpito, vivo, il viso di Tecla! L’indomani tornò al campo, rivide l’uffiziale Francese, che pareva essere stato là ad aspettarlo per fargli accoglienza, e con esso conobbe parecchi altri di quella nazione. Gagliardi erano, d’onesta baldanza, e di maniere pronte e così cortesi, che a parlare con essi, uno si credeva cresciuto una spanna. Ed egli piacque tanto alla compagnia, che lo vollero trattenere tutto il giorno: né lo lasciarono senza la promessa che sarebbe tornato, né senza averlo menato su d’un poggio, donde gli additarono i campi della loro gente, distesi lontano per quella fuga di grotte, di greppi, di promontori scuri, azzurri, vaporosi, via via nelle lontananze che formavano col mare una bellissima scena. Egli tornò a casa col visibilio cresciuto in capo di tre doppi: e giunse che era vicina la notte. Si sentiva rimordere d’essersi tanto indugiato, mentre là vi era forse il messo colla risposta di sua madre ad aspettarlo; e infatti il brav’uomo, rivenuto da Dego, parecchie ore prima, giaceva sull’erba del piazzale, non sapendo neanch’egli che si pensare.
Ma appena ebbe visto il signorino spuntare da una svolta della via, colui si levò e si frugò sotto i panni gridando:
- Per questa volta è fatta, ma laggiù non tornerei per tutto l’olio che butteranno questi oliveti! o che dalle sue parti, a un povero diavolo che va per la sua via, perché porta una beretta rossa in capo gli hanno a dar dietro coi sassi gridando: al genovese? i genovesi non son cristiani, fede di...?
Mentre l’omiciattolo diceva, Giuliano, affrettato il passo, arrivava, e, pigliando il foglio dalle mani di lui, senza badare a quei discorsi chiedeva: - L’avete veduta? Cosa mi manda a dire?
- Ecco - rispondeva l’ortolano, componendosi, come uno che deve badare a non essere colto bugiardo - sua madre dice che non potrà venire in qua prima di quest’altra settimana, perché vuole lasciar le cose da potere poi star qui quanto le piacerà, senza pensieri della casa, della campagna. Essa prega vostra signoria a starsene tranquilla e a non farsi venire in mente d’andare là, perché... perché..., non me lo disse, ma ne deve parlare la lettera, che mi ha raccomandata coi saluti d’una vecchia e d’una giovinetta che aveva in casa...
Giuliano aveva fissato il messo tra ciglio e ciglio, e allora aperse con gran furia, la lettera, sperando di trovarvi chi sa che cosa. Ma non vi erano scritti che pochi versi. I caratteri erano della signora Maddalena, ma rotti, intricati, arruffati, come di mano che avesse scritto tremando o a disagio. Dicevano come la casa fosse stata cercata dagli Alemanni per ogni verso, proprio la notte della partenza di lui, e come molte pattuglie erano state mosse a cercarlo per la campagna: che non tornasse, non tornasse, per l’amor di Dio, se non voleva vedere sua madre morir di dolore.
Finito di leggere Giuliano tornò a guardare in viso il messo, e colla voce tronca dal batticuore:
- Ditemi il vero - esclamò - ditemelo... mia madre è ammalata... l’avete veduta?
- Malata no, che io non tocchi altra carne battezzata in mia vita!
E, così rispondendo, il pover’uomo metteva la mano sul braccio del giovane, e trangugiava qualcosa, come avesse avuto in gola il nodo d’una bugia.
- Voi non rispondete franco! - soggiunse Giuliano annuvolato molto.
- Gli è che lei... mi pare un giovane fiero... e poi non ho più mangiato da Dego.
- Vedremo! - sussurrò il giovane, e diede due colonnati al messo, che se li lasciò porre in mano, senza mostrare di essere contento. Tuttavia proferì i suoi servigi per ogni caso, e, accomiatatosi, se n’andò accarezzando, fra il pollice e l’indice, le monete che aveva in tasca.
Rimasto solo, Giuliano rilesse due o tre volte la lettera di sua madre. Sebbene gli si destasse in mente una guerra di dubbi fortissima, a poco a poco si quetò nella promessa che di là ad una settimana sarebbe venuta. Così gli aveva detto il messo, ed egli, quasi per sincerarsi della verità, volò col pensiero, se la immaginò in tutte le guise, sana, inferma, malinconica, lieta; parlò con essa e con Marta di mille cose, e la presenza di quella giovinetta che l’ortolano aveva menzionata, e che di certo era Tecla, finì di metterlo in pace. Perché gli apparve che, se qualcosa di guasto fosse stato laggiù, Tecla non era cuore da tenerglielo celato, e gliene avrebbe mandato a dire per via dell’ortolano stesso o del proprio padre. Con questi pensieri, gli veniva soave nella fantasia la visione di sé e della famiglia, in un tempo non lontano, in cui quella fanciulla teneva luogo di sposa a lui e di figlia alla signora Maddalena; una visione, su per giù, come quella avuta a Dego il dì che sua madre era andata a chiedere per lui la mano di Bianca. Vedeva Marta affacendata correre di qua e di là per la casa, col viso lieto; sua madre gli pareva contentissima di Tecla, tirata su da lui, e già colta e gentile, come donna allevata nel miglior casato, che si potesse pensare. Soffermandosi a lungo in queste immaginazioni sorrideva come chi accarezza un disegno, e tornava a pensare alla degna opera che sarebbe stata quella di menare per donna una contadina, alla dolcezza di istruirla, di educarla, di vederla crescere come fiore di ramo trapiantato in un giardino a prosperare: si compiaceva a figurarsi le dicerie del volgo, le meraviglie dei suoi pari, e fin la stizza di don Apollinare, al quale un matrimonio di quella fatta, sarebbe parso una nuova scelleratezza, foggiata su qualche modello di Francia.
Durò questa sorta di visione tutto il tempo che egli stette a coricarsi, e fu lunga e anco lieta. Senonché ogni tratto, senza volerlo, rompeva in un sospiro, e gli usciva detto: - Povera madre mia! - come se vi fosse stato qualcosa in lui, che dalle illusioni non potesse essere sviato. Penò molto a pigliare il sonno. E se il dimani fosse uscito a farsi nel borgo, anche i bimbi avrebbero indovinato che egli non era felice; ma, alzatosi tardi, non mosse se non per andare sino al tugurio dell’ortolano, di cui mandò pel cibo; poi rimase chiuso in casa, colle proprie malinconie, ad aspettare che quella settimana benedetta volesse passare.
Pel borgo poi tornarono a correre le dicerie sui fatti di lui, ma si aggiunse che egli era un ricco medico novizio e che la sua signora madre, donna di gran conto, non istava bene della salute. Di questa voce Giuliano non seppe nulla, come non aveva saputo delle chiacchiere già messe attorno sull’essere suo.
Quando fu finita la settimana, tanto gli si allargò il cuore, che gli parve di essere uscito di sepoltura. Tutte le cime dei monti, sovrastanti alla villetta, egli le salì per vedere se qualche comitiva apparisse; almanaccò, girò, sperò fino a sera; vegliò tutta la notte; corse ad ogni rumore che sorgesse fuori o nella sua fantasia; ma non fu nulla. Allora egli buttò da parte l’obbedienza dovuta ai voleri della madre, e pensò di porsi in cammino per un lungo giro di montagne, facendo conto di poter capitare a casa di notte, a vedere cosa fosse. Era sul partire, quando, per un procaccio di quelle parti, gli venne un’altra lettera, spedita da parecchi giorni, e passata per molte mani, tutta gualcita. Scritta, in nome della signora Maddalena, da persona poco esperta, non recava di lei altri segni che il nome a piè della scrittura, nella quale lo si confortava a stare di buon animo, a non darsi pensiero di quello che avveniva a casa sua. Perché, diceva la signora, non le pareva di potersi muovere, se la stagione non avesse dato giù un poco, onde il viaggio non avesse a tornare molesto a Marta, caduta ammalata, però non da impensierirne. Quanto a sé, aggiungeva di star bene, e che si svagava ogni giorno, continuando a insegnare a Tecla un po’ di leggere e scrivere, con quel frutto che egli avrebbe visto dalla lettera, vergata dalla fanciulla. Aspettasse in pace, e, sovratutto, badasse a non tornare, che, guai a tutti; aspettasse, ed essa e Marta sarebbero giunte, facendosi precedere da Rocco, e da un po’ di roba. Non dubitasse, cercasse svagarsi; insomma stesse dov’era.
- Pazienza! - sclamò Giuliano, fermandosi coll’occhio a lungo su quella scrittura: - aspetterò!... — Ma allora la sua tristezza si accrebbe; solitudine, noie, disegni fatti e disfatti, furono la sua vita; e quella esclamazione: «povera madre mia!» gli uscì più frequente a qualunque cosa ei pensasse. Procacciatisi alcuni libri, leggeva, meditava, scriveva, per sollievo dell’animo: e spesso era veduto arrocciarsi pei greppi, discendere al mare, tuffarsi, star sommerso tanto, che qualcuno accorreva per aiutarlo; ma egli tornava a galla un istante, poi si rituffava, quasi in quel gioco studiasse di cosa fosse fatta la morte, e se di spasimo o di piacere. Per tutto questo, già quei della terra lo chiamavano pazzo, pur avendolo in grande rispetto, perché lo sapevano medico; e poteva loro accadere di aver bisogno dell’opera di quel signor Magnifico, titolo che, da quelle parti, danno anche adesso i vecchi ai medici dei loro villaggi. L’ortolano, a poco a poco, gli si era addimesticato e lo serviva: un giorno che Giuliano aveva la noia sino alla gola, gli recò certe voci, secondo le quali, a Torino, molti giovani, carcerati poco tempo prima erano stati messi a morte dal carnefice. Il pover’uomo aveva inteso la cosa nella spezieria del borgo, dal parroco e dai signori. Giuliano a quella notizia si sentì schiantare il cuore. Coloro, egli sapeva chi erano; e dal raccapriccio non gli stava il cappello in capo. Quel giorno decise di tornare al campo Francese, dove qualcosa avrebbe potuto saper di più certo; e, siccome la venuta di sua madre non gli pareva che dovesse seguir sì presto, chiuse la villetta, diede la chiave all’ortolano, e rimase d’accordo che, se qualcuno fosse capitato a cercarlo, egli corresse al campo dei Francesi, che, in qualche modo, l’avrebbe trovato; poi per la via più corta si incamminò verso Loano.
Era il settembre già molto innanzi, e di Francia giungevano ai campi della Liguria nuove armi e nuovi armati. Di su di giù per quei borghi, era un moto, un andare e tornare di messi, un ridestarsi come di gente che, riposatasi un tratto, volesse rimettersi in marcia. E i soldati della Repubblica, cominciando a fiutare altre battaglie, cantavano a cori quella Marsigliese meravigliosa, che nelle guerre d’allora dovè toccare il cuore di chi voleva la libertà, quanto di chi la contrastava con egual furia. Giuliano non aveva udito mai nulla di più alto; e, in quei canti, gli pareva suonassero insieme le note dell’organo che l’avevano fatto piangere bambino, la voce di don Marco quando traduceva alla scolaresca il Coeli enarrant, cogli occhi levati e gonfi di lagrime o di desiderio, il grido di tutte le generazioni passate nella sventura, sentito da lui nella storia, e la bufera, e il sereno, e l’odio, e l’amore, tutto vi trovava ascoltando da lungi, mentre il mare, col suo fiottare a tratti, parea rispondere a ciascuna pausa dell’inno una voce, voce dell’infinito che dicesse: - è vero! - Allora provava una smania di correre, e il primo generale Francese, che gli venisse fatto d’incontrare, pregarlo d’un’arme, d’una divisa, d’un posto in quelle schiere: senonché l’immagine della madre gli si mostrava in quei furori mesta, timorosa, cogli occhi bassi, come un’amante offesa, e gli sussurrava dolcemente: - tu in battaglia potresti sfogarti e morire; ma io, a saperti armato per queste nostre contrade, come un nemico, io che farei? - Subito egli sentiva dar giù l’animo, e sclamava:
- Ahimè! fummo pur allevati dappoco: ed ecco, perché un prete, come don Apollinare, ha potuto mettermi in fuga, soltanto coll’aggrottar le ciglia! - Non aveva mai osato dire cose di questa sorta, che potevano anche toccare la madre sua, e forse si sarebbe pentito d’averle dette, ma non ebbe il tempo di farlo, perché appunto allora arrivava in mezzo ai Francesi. Chiesto degli uffiziali che l’avevano trattenuto l’altre volte, fu menato a trovarli; e le belle accoglienze furono molte, ma le maraviglie, perché egli non s era fatto vivo da tanto tempo, furono anche più. Egli si scusò come potè meglio, e quegli uffiziali, che gli si erano legati di sentimento, lo vollero a mensa con loro.
Nei parlari amichevoli di quella brigata, venne a conoscere la verità sul fatto dei giovani messi a morte in Torino, e le gazzette che capitavano di Francia a quei campi, n’erano piene. Giuliano lesse i nomi degli sventurati. Alcuni erano d’amici, altri d’uomini noti per odio ai governi d’allora, per amore alle cose nuove. Nel suo cuore pianse; arrossì di essere scampato alla loro sorte; ripensò con rammarico al beneficio che la marchesa di G.... aveva voluto fargli, ma con pietoso inganno, mandandolo via da Torino; e, più di tutto, si sentì umiliato all’idea che forse quei generosi morti avevano dubitato di lui, della sua fede, o del suo coraggio, nel momento in cui la corda del carnefice li aveva strozzati. Da quel punto, si fece in lui un gran mutamento; disse ai Francesi che se il loro generale l’avesse voluto, esso si sarebbe scritto soldato; e che pregava di volergli procacciare quella licenza. Non uno, ma due, ma sei di quei giovani si proferirono pronti a servirlo, promettendo che l’indomani il generale l’avrebbe accolto.
E l’indomani Giuliano fu presentato al generale. Era questi il vecchio Dumorbion, e aveva il quartiere in un convento di frati, rimasto vuoto sin dal primo apparire dei Francesi, la primavera innanzi. All’ora in cui Giuliano arrivava da lui, n’uscivano tutti i colonnelli, e i generali dell’esercito repubblicano. L’uffiziale che lo accompagnava, lo trattenne sul piazzale della chiesa a vederli passare, e gliene diceva, così, di volo, i nomi e le gesta. Quello era il Laharpe, svizzero di nazione, giovanissimo, come si vedeva all’aspetto, prode, sapiente e giusto; quell’altro, Massena, venuto su da piffero in un reggimento, a quell’altezza di onori e di fama. Cervoni ed Arena gli tenevano dietro, parlando tra loro, come cospiratori: quei due, che ai panni si conoscevano per gente non di spada, erano Albit e Salicetti, rappresentante del popolo; e via via. Ne nominò molti, dolente di non potergli additare quello che era il più illustre di tutti. - Ma lo troveremo forse dal generale. - disse l’uffiziale e, pigliato Giuliano a braccetto, lo fece entrar nel convento. Il giovane si lasciava fare come un fanciullo, perché, a vedere quei personaggi, gli pareva di non aver mai vissuto. Essi non avevano aspettato le rughe per esser uomini, e già, poco men giovani di lui, empivano l’Europa dei loro nomi!
Entrati dal generale Dumorbion, lo trovarono dinanzi a un ampio tavolo, sul quale un colonnello d’artiglieria gli segnava col dito certe sue diavolerie, scritte su d’una carta. Era costui quel personaggio, che l’uffiziale aveva sperato di vedere là dentro: giovane, di forse ventiquattro anni, magro, malazzato, che non pareva vivere che cogli occhi, ma di volto bellissimo e maestoso. Egli non levò gli occhi dalla carta, ma parve attendere ad un tempo a questa, ai due sopravvenuti e a Dumorbion; il quale, cominciando senza cerimonia, chiese all’uffiziale chi fosse il giovinotto che aveva seco.
- Generale - rispose Giuliano in lingua francese, senza dar tempo al compagno di parlar per lui: - io sono il tal dei tali, medico di Dego in Val di Bormida e vengo...
- Val di Bormida? - interruppe Dumorbion, che appunto allora aveva levati gli occhi di sulla carta, su cui era segnata quella vallata: - e che cosa si fa laggiù?
- Laggiù? - rispose Giuliano - Laggiù il popolo soffre, i ricchi godono, gli Alemanni comandano.
- O perché non li avete scacciati a quest’ora? - sclamò il generale. - Vedete la Francia? L’anno passato ebbe addosso mezzo il mondo! Venivano da tutte le parti come lupi affamati! Ed ora dove sono? Ingrassano i nostri campi, o sono tornati a casa a dir che in Francia non ci si entra, o vi si lascia l’ossa!
- Generale, noi non abbiamo armi; e quand’anche ne avessimo i preti che possono tanto non ci menerebbero di certo contro gli Alemanni !
- Lo so! Vi menerebbero piuttosto contro i Francesi, ma a dar di volta solo a vederli ballare la Carmagnola, come hanno fatto in maggio costassù, dalle parti di Garessio.
- Spero, generale, che voi non vorrete avere i miei compaesani per vili! - disse Giuliano con calma e con sicurezza: - e voi, sapendo la storia, m’insegnate che essi sono i discendenti di quei liguri, che i Romani, vincitori dappertutto, non hanno mai potuto domare per bene!
- Lo sappiamo! - entrò a dire il colonnello, parlando la lingua italiana, con accento italiano, e levando allora soltanto il capo dalla carta su cui era venuto studiando con Dumorbion: - ma, se invece di declamare le pagine vecchie della vostra storia, voi badaste a farne di nuove e gloriose, meglio per voi, per noi e per tutti!... - E qui, mutando il linguaggio in francese, e voltandosi al vecchio Dumorbion, proseguiva: - Cittadino generale, questo giovane viene a parlarvi in nome de’ suoi compatrioti?
- No - rispose Giuliano, non aspettando d’essere interrogato, e, parendogli d’aver dato di cozzo in un monte: - io vengo da per me, a chiedere uno schioppo!
- La repubblica francese - disse il generale - porta ai popoli libertà e pace, e ve lo darà.
- Ma, se ho bene inteso, - tornava a dire il colonnello - questo giovane è medico: cittadino generale, non lo potremmo adoperare più utilmente con la sua professione?
E Dumorbion a Giuliano, facendo su questo pensiero: - Benissimo! Giovinotto un posto di chirurgo vi garberebbe?
- In quanto a me, rispose Giuliano - quello in cui vi sembrerò più utile, ed io lo farò.
- Sta bene! Voi sarete scritto chirurgo, e darò ordine che vi si provvegga di un foglio di libero passo, in mezzo a noi. Cittadino capitano, fategli gli onori del nostro campo; domani potrà girare da sé. Andate pure.
Così Dumorbion all’uffiziale che aveva accompagnato Giuliano. IL quale non era peranco uscito del tutto da quella stanza che, fattosi all’orecchio del compagno, disse, colla voce tronca dall’ansia: - E chi è colui che mi ha parlato così bene italiano?
- Quello - rispose l’uffiziale - è il Corso che ha fatto cader Tolone. Qui, dove Dumorbion comanda tutti, egli, comanda Dumorbion.
- E come si chiama?
- Si chiama Bonaparte...
- Bonaparte! - mormorò Giuliano; - mi piace anche il nome!
E da quel giorno non si tolse più da quei luoghi. Oggi dall’uno, domani dall’altro, in poco tempo fu conosciuto ed amato da tutti gli uomini di qualche conto e lieto come allora non si sentiva d’esserlo stato mai. Gli pareva d’aver vissuto sino a quel punto come un ottuagenario, e di essersi fatto giovine a un tratto e così tirava innanzi, tastando il polso ai repubblicani ammalati, e passando mattina coi sani, finché si cominciò ad avvertire quel moto d’uomini e di cose, quello sfogo di struggere, quella smania di nulla lasciare addietro, che precede le mosse d’un esercito, vicino a volersene andare. Allora gli entrò un’angoscia nuova, quella di vedere forse sua madre capitare a mezza via, nell’accozzarsi dei Francesi cogli Alemanni, se mai la sventura che pareva essersi allogiata in casa sua, l’avesse fatta movere appunto in quei momenti. La coscienza sorse ad accusarlo, l’amore a spingerlo, l’onore a rattenerlo; ed egli non sapeva più dove dar del capo per aver un consiglio in quelle sue tribolazioni.
Un di quei giorni, andando solo a gironi per gli accampamenti, da una voce non nuova, ma che pareva d’uomo non certo d’azzeccarla, sentì chiamare: - Signor Giuliano! - Egli si volse, e si vide guardato da un acquavitaio, che, là vicino, colle maniche rimboccate fin sopra il gomito, cinto di un grembiale di tela azzurrognola, mesceva a destra e a manca la sua zozza ai soldati, che gli affollavano il negozio.
- Mattia! - sclamò Giuliano rallegrandosi come avesse veduto uno del proprio sangue: e, facendosi oltre, verso il banco dell’acquavitaio, il quale si ripuliva le mani nel lembo del grembiale, per stringere la destra che veniva sporta, soggiunse: - Come qui?
- Eh! - rispondeva l’altro - il mondo gira a tondo; e una volta o l’altra ci si ritrova!
I monti stanno, gli uomini vanno: e costui era proprio Mattia, grasso, fresco che pareva un sol di maggio. In quella notte terribile della primavera antecedente, aveva dato del ceffo nella fossa, c in mano degli Alemanni e in mano dei Francesi: ma questi ultimi, forse per giovarsi quando che fosse della pratica che avea di là dai gioghi, pur non perdendolo d’occhio mai, l’avevano lasciato sciolto pei campi: ed egli, da uomo che sapeva navigare a tutti i venti, aveva fiutato quello della buona fortuna. Trovato che soffiava dalla parte dei Francesi, non si sarebbe più allontanato da loro, manco a esserne cacciato a nerbate.
- Servi e non badare a chi, - aveva detto fra sé: e con quel po’ di doppie scroccate al suo paesano, nella notte che per poco non gli era costata la vita, accozzato quel suo negozietto, all’ora in cui Giuliano s’intoppò in lui, era con un avviamento da farsi ricco. Egli non diede tempo al giovane d’insospettire, ma gli narrò alla lesta i casi che l’avevano condotto a quella vita, e gli mostrò un gruzzolo di luigi d’oro guadagnati con sudore e giustamente. Parlò d’un suo disegno di comperarsi poi un poderetto, non volendo più battersi il petto a quel mestiere di campanaro e di seppellitore: e qui, per accoppiamento d’idee, rammentandosi del pievano, chiese sorridendo:
- E don Apollinare, che cosa dice di me?
- Non so - rispose Giuliano - io a Dego vi passai alla sfuggita; e poi, tra me e lui, lo sapete, non si era troppo d’accordo.
- Se lo so! Ma io, vede il torto l’ho sempre dato a lui. Sicuro che non l’andava a dire in piazza; ma so che cosa vale il pievano, e quanto pesano quei di Dego, uno per uno... Oh! se i tempi si mutano! Se questi signori Francesi san fare davvero quello che dicono! Allora sì che ci torno laggiù, e vedranno Mattia...
- Appunto, vorreste farmi un servizio?
- Dieci.
- Ebbene, voi dovreste andare fino a Dego, senza aspettare né Francesi né altro...
- E il negozio qui?
- In due giorni potete andare e tornare.
- Gesùmmaria, tornare! Allora sì che me le pianterebbero sei palle nel petto!
- Oppure rimanere là. L’importante si è che andiate da mia madre a dirle, che quella sua idea di venire a stare da queste parti la smetta, perché la guerra ricomincia e potrebbe trovarvisi in mezzo. Pensi a stare di buon animo e tranquilla sul conto mio; ditele che tornerò in tempi migliori e vicini; ma badate a non dirle che io sono qui al campo dei Francesi.
- Ma se io do un calcio alla baracca e parto fin da questa sera?
- Il denaro paga, e il poderetto a Dego lo troveremo in mezzo ai miei.
- Lasci fare a me... se domani non mi vedrà più qui a vender acquavite, s’immagini che io sono a Dego.
- E dite ancora a mia madre che le raccomando Tecla...
- Tecla?... ah!... sta bene!
- E se le occorre qualcosa, mandi Rocco. A questo poi, in ogni caso, insegnerete come potrà trovarmi... Siamo d’accordo?
- Stanotte parto; ma per carità... zitto!...
- Buon’andata, Mattia, e non dubitate.
- E lei si tenga riguardato dalla disgrazie, e arrivederlo a Dego.
Con questo si lasciarono; Giuliano per andarsene in riva al mare, col cuore alleggerito e tranquillo come la faccia delle acque che si stendevano azzurre sotto del firmamento; Mattia per tornare al banco, che non aveva mai perso d’occhio. Là, affaccendandosi a servire la folla dei soldati, pensava quanta ragione aveva don Apollinare, il quale da tanti anni dava di giacobino al figliolo della signora Maddalena.
Intanto faceva i suoi conti sul modo di sgabellarsi della sua merce, senza dar nell’occhio, e su come partire, non visto, da quei luoghi per servire Giuliano. Del quale aveva capito il latino, quando aveva detto che il podere l’avrebbe trovato a Dego, in mezzo a’ suoi.
La notte sola poteva aiutarlo a compiere destramente i fatti disegni, ed egli aspettava.