Sul pensiero che don Apollinare non aveva peranco smesso il rancore rimastogli contro Giuliano, nacque nella mente della signora Maddalena quest’altro, che don Marco, non essendosi più fatto vivo, avesse dimenticato lei, il suo figliuolo e il caso doloroso di quell’amore, in cui la sventura avea posta la mano. Ma, se fosse stata a vedere come il povero prete s’annuvolava ogni volta che pensava a queste cose, all’animo suo delicato sarebbe parso d’aver aggiunto un dolore ai tanti che gli contristavano la vita. Egli s’era messo in via almeno dieci volte per andare alla casa del signor Fedele, a vedere da sé quello di cui non avrebbe osato chiedere a chicchessia, ma non era mai giunto sino a quella, non potendo vincere una ripugnanza confusa che gli nasceva appena arrivato a scoprire la palazzina. Si soffermava a guardarla, ondeggiava un tantino tra il tirare innanzi e lo starsi, poi dava di volta e tornava a casa accorato. E in verità, se il signor Fedele gli avesse chiesto in nome di chi veniva a mescolarsi nelle cose sue, quale risposta avrebbe potuto dargli, sebbene fossero amici dell’infanzia? Forse che istruito di certe istorie, andava a lui per consigliarlo? Ma questi consigli chi glieli aveva chiesti? O non v’andando da amico, doveva dire che da prete gli recava la parola del Signore? Don Marco non aveva osato mai chiamarsi ministro di Dio, di cui sapeva tenersi dal nominare invano il nome. E così, aggiungendosi che forse la sua visita avrebbe nuociuto a Bianca, finiva sempre lasciando al tempo che facesse lui. Quell’Alemanno, coll’essere lontano, si sarebbe fors’anco scordato della fanciulla; e, a conti fatti, le gite intraprese verso la palazzina, s’erano tutte mutate in passeggiate meste e solitarie.
Tornava appunto da una di queste, quando intese che le genti di val di Bormida ritornavano scompigliate dalla spedizione, e, per non vedere lo spettacolo che doveva essere nelle vie del borgo, si ridusse a casa per il sentieruolo a piè delle mura, fatto altra volta in compagnia della signora Maddalena. Si chiuse con diligenza, e udendo i briachi cantare scempiamente, accostò gli scurini; poi, essendo sull’imbrunire, si mise a letto e s’addormentò, con un cuore che gli diceva cose poco liete di sé, ma anche meno del mondo. Sognò sin verso il mattino mille mestizie; ma, quando fu vicina l’ora in cui soleva destarsi, vedeva i cieli nuovi e la terra nuova, promessi nell’Apocalisse. All’alba gli si ruppe il sonno, e, aperti gli occhi, sorrise e disse: - alle volte si sognano cose tanto belle, che peccato non dormire per sempre!
Si vestì alla lesta, e fattosi sul terrazzino, stette ad ascoltare se s’udissero ancora i rumori della sera innanzi. Suonava nei boschi un ultimo corno. Ne fu quasi lieto, e guardò a lungo nel cielo quel bel mattino di maggio. Ma abbassando gli occhi sulla casa del signor Fedele lì in faccia, si rifece pensoso, gli parve di veder Giuliano tendere a lui le mani da lungi supplicando, e di sentirlo dire: - Maestro, e perché mi ha fatto dire da mia madre che si sarebbe adoperato per me? Io non mi sarei mai allontanato dai luoghi dove mi si toglie la donna mia. Maestro, se la sposeranno ad un altro, udirà parlare della mia morte. Perché m’ha tradito?
- Sicuro! - sclamò don Marco - se un guaio avvenisse, io ne sarei in parte l’autore... Questa volta andrò ad ogni costo!
Così dicendo uscì, stupito di non trovare alla porta il passeraio di fanciulli che vi si raccoglievano ogni mattina, per andargli a servir la messa, ma tosto conobbe il perché di quella assenza strana.
Dopo i fuggiaschi paesani, arrivavano i Piemontesi e gli Alemanni, feriti due giorni innanzi dalle parti di Loano, e il popolo traeva ad incontrarli, recando pannolini, ristori, con quel pronto animo che in esso non muore mai.
Ai lamenti che venivano dal prato, dove quei miseri venivano deposti di sui muli, e di sulle barelle, il buon prete si sentì schiantar dentro dalla passione. Ne vide di tutti i gradi e di tutti gli aspetti: visi robusti, faccie pallide, ed occhi mesti, qua una voce di piemontese chiedeva aiuto, là un tedesco invocava il suo Got; e non era da ridere se qualche donnicciuola rispondesse all’invocazione porgendo un gotto d’acqua, che il poveretto beveva, inconsci dell’equivoco esso e l’altra. Don Marco, fattosi in mezzo a quel dolore, cominciò a darsi attorno a spacciar uno di qua, a chiamar l’altro di là; e, quale in questa, quale in quella casa, faceva ricoverare quei dolenti, che gli volgevano occhiate piene di gratitudine e d’amore, perché, giunto lui, pareva che fosse capitato ad ognuno la madre od una sorella. Si diceva che dei feriti ve n’erano ancora molti tra via, sebbene paressero già troppi quelli arrivati, e, nella furia di torsi dai piedi alcuni che morivano lì di stento, parecchi se ne portavano a seppellire, che non erano per anco spirati.
In un campicello a ridosso del borgo, cinque o sei villani lavoravano a scavar fosse, venivano i soldati coi morti e coi morenti sulle spalle, e li buttavano nelle buche che, poveretti, s’aggrappavano ancora alle prode per tornar fuori, ma una zappata sul cranio e una palata di terra sulla bocca, troncavano il grido disperato e il pensiero della famiglia lontana. Se ne racconta tuttavia ai nostri giorni, e si sanno le ultime parole di quei miseri sin dai fanciulli, i quali, dopo scuola, vanno a ruzzare in quel campicello, e la sera ne fuggono, spauriti dai fuochi fatui, che scambiano per l’anime di quei sepolti vivi.
Nell’opera di misericordia, don Marco ebbe compagni alcuni preti del borgo, e cinque o sei frati del convento venuti all’annunzio, volonterosi. Ma non era tra questi il padre Anacleto, il quale, per nulla al mondo, si sarebbe staccato da Bianca. In quei pochi giorni aveva fatto con essa molto cammino sulla via della salute, e mi duole non poterlo mostrare che in fretta e quasi di scorcio, nei suoi portamenti. Si ricorda il lettore, che l’avevamo lasciato in refettorio, a fantasticare sopra un dipinto? Ebbene; egli non aveva voluto por tempo in mezzo, e sin dall’indomani era tornato alla palazzina. Trovata Bianca che scerpava erbe sotto il pergolato, e ne dava ad un agnellino nato di fresco, s’era fermato a guardare la fanciulla e l’animaletto vezzoso, che ora le saltellava attorno, ora spiccava corse, sprigionando una allegrezza tenuta dentro a fatica, e Bianca sorrideva.
Appena vide il frate, la giovinetta gli si fece incontro, dando notizie della famiglia, di che egli si rallegrò e disse:
- Tu mi sembri più contenta, o almeno quella tua tetraggine, si è risolta in una malinconia dolce, che se ti fiderai di me, diventerà allegrezza.
- E di chi dovrei fidarmi più? - rispose la fanciulla - Ho pensato tutta la notte a quelle cose che mi disse ieri, e l’idea del monastero me l’ho quasi levata dal cuore.
- Ah!... quello era il mal passo! E dire che una volta messo il piede innanzi non lo si può più ritrarre! Gli è come a sposarsi; cari o no, son nodi che, stretti una volta, la sola morte può scioglierli...
- Oh sì...! - sclamò Bianca ponendo sé colla mente in ben altro campo, che non era quello in cui il frate la voleva tenere; ma egli, accorto, le troncò la parola, e riprese:
- Si! sì! sì! tu dici, ma non sai nulla. Voi giovinette, a udirvi, conoscete il mondo più d’ogni vecchio...! E poi che sai tu? neanco la storia di quel nome, che ieri non volesti palesare, e che adesso io so assai bene... E ti debbo dire che l’ira da cui fosti presa udendomi chiamare indegno colui... era mal consigliata da un affetto malissimo posto...!
Questo dire sicuro e solenne, prostrò l’animo di Bianca, la quale, a prima giunta, pareva volersi levare a nuove difese. - Padre - rispose essa chinando il capo, - io non so di chi le abbia detto quel nome, io sono una povera creatura che diventerà scema, e non so che una cosa. Da un mese in qua mi si è oscurato il cuore, mi par d’essere in fondo a un abisso: a momenti m’agguanterei per uscirne, a ferri infuocati; a momenti vorrei starvi per sempre né rivedere più il mondo, né me stessa...!
- E di Giuliano... di quel giovane cui pare abbiano dato il nome dell’apostata sin dal sacro fonte, presaghi di quello che sarebbe diventato...; di quel Giuliano che legge libri proibiti, che non va in chiesa, non fa la pasqua, oltraggia i ministri dell’altare, e dev’essere scritto a qualcuna di quelle società in cui si beve sangue, facendo il patto, e s’impara il segreto infernale di mutarsi in qualunque bestia per far malefici, e si giura morte ai sacerdoti e a Dio; di quel Giuliano, tu non le sapevi le belle cose che io ti dico, coll’anima che mi trema dentro, e colle labbra scottate dalle parole che mi paiono carboni accesi?
A questo segno e, senza quasi addarsene, il frate si trovava colle braccia aperte, la persona curva, l’occhio intento su Bianca, che vinta a poco a poco, s’era lasciata cadere ginocchioni atterrita; teneva il viso alto, sicché la barba di lui le ondeggiava sul collo e sul seno. L’agnellino li guardava.
Oh! che cuore era quello di Bianca! D’amare Giuliano, non s’era confidata mai, salvo che a Don Marco, alla signora Maddalena e alla zia Maria: ora il frate, come aveva saputo quel nome, e come i segreti del giovane, gli orribili segreti che erano per essa più che la scoperta di un cadavere di lebbroso, nel sito ove credeva nascosto un tesoro? - Alzati, va e piangi! - le disse il padre Anacleto, - piangi, che il Signore lo vuole; ed io pregherò che ti perdoni di aver amato un empio; e pregalo tu pure per lui come faresti per un’anima del purgatorio. Domani tornerò.
E con passo spedito s’allontanò.
- Dio della misericordia! - esclamò la fanciulla - pigliatemi, pigliatemi, che al mondo non ci faccio più nulla! O Giuliano, e che ci venivate a fare in chiesa se avete giurato contro Dio? L’avessi saputo, e mi sarei nascosta nei sepolcri, piuttosto che guardarvi...! Eppure... egli mi pareva più buono di quell’angelo dipinto sopra l’altare... Somigliare a quell’angelo, e sprezzar Dio...! - Qui, sentendosi lambire la mano dall’agnellino, gli prese la testa e, parlando all’animale innocente: - mi uccidono, mi uccidono - diceva - come faranno a te, e nessuno dirà: povera Bianca!
Non potè piangere, ma lentamente si rimise a vagare su e giù, mentre il signor Fedele, che aveva visto ogni cosa dal buco di un’impannata, la guardava e gioiva. Il padre Anacleto tornò l’indomani, e il giorno appresso, l’altro e l’altro, coll’accorgimento di un medico di villaggio, che sappia farsi vedere a tempo dall’ammalato. Gli bastava una parola, un’occhiata a sapere l’animo di Bianca; ed era lieto di sé, perché gli pareva d’averla, in meno che non credeva, tirata alla riva, donde, rivolta addietro, avrebbe poi vedute le acque pericolose, in cui senza lui sarebbe affogata. A1 quinto giorno, proprio quello in cui, se non avvenivano in Cairo le cose narrate qui sopra, si sarebbe incontrato con don Marco nella palazzina del signor Fedele; egli ed il leguleio stavano a consigliarsi l’un l’altro sotto il pergolato.
Avevano almeno dieci volte preso a parlare di Bianca, ma il discorso li portava sull’argomento della guerra, e della spedizione tornata in quella guisa vergognosa. Parlavano e sentenziavano e, mentre il signor Fedele diceva che quello di cui più si sentiva afflitto era il non saper nulla del barone; egli seguì un caso meraviglioso. Davano appunto di volta, in capo al pergolato, col nome dell’Alemanno in sulle labbra, e videro venire di buona gamba il procaccio di Cairo, il quale teneva, in mano, una lettera, nell’altra il cappello che si era tolto di capo appena giunto in vista. Costui baciò il cordone al frate inchinò il signor Fedele; poi mostrandosi affannato più che non fosse davvero, disse a quest’ultimo:
- Signoria! Don Marco mi manda con questa lettera; ho fatto come il vento, ed eccomi, fui qui in uno sbadiglio di gallo...
- Don Marco! - pensò tra sé il frate, mentre l’altro leggeva la lettera - o che vuole don Marco...?
Glielo chiarì il signor Fedele ponendogli sotto gli occhi il foglio, e gridando al procaccio: - Corri, va e dici a don Marco che volo, corri, sei qui ancora, lumacone?... - Il pover’uomo, spinto da lui, ripartì, forse pensando da chi avrebbe avuta la mercede di quella su fatica, che quanto al signor Fedele, non toccarla subito, voleva dire non toccarla mai più. La mancia l’avrà avuta da don Marco, il biglietto del quale diceva alla lesta che egli aveva in casa il barone, ferito malamente; corresse a vederlo, che il poveretto non voleva che lui!
- Sono segni del cielo! Corri - disse il frate al signor Fedele e trova modo di portar qua il barone... Chi sa? La compassione può dare l’ultimo aiuto a muovere l’animo di Bianca... va!
In quattro passi il signor Fedele fu in casa, in altri quattro tornò sul prato con panni di gentiluomo indosso: strinse la mano al frate, rimasero che questi sarebbe stato attorno alla fanciulla, per disporla a quelle accoglienze ch’essa doveva usare al barone se per buona sorte, si avesse potuto trasportarlo alla palazzina. Con questo l’uno partì, e l’altro salì dalle signore.
Bianca e Margherita lavoravano di cucito vicine alla zia Maria, cui la gioia di riaverle, come essa diceva, sotto gli occhi, dava nel viso una certa allegrezza. La minorella era gaia e Bianca silenziosa: dire che non fosse mesta, sarebbe troppa bugia, ma un po’ più serena la pareva davvero. E se n’era accorta sin la cieca, che diceva di conoscerlo al colore del viso, ma in verità l’argomentava dai sospiri meno frequenti.
Il frate si mescolò alla buona nei loro discorsi, e, studiando di farsi posto per la faccenda che voleva dar a capire, guardava traverso la finestra le belle ruine del castello di Cairo, che si vedevano dalla sala assai bene.
- Che guarda, signor padre? - uscì a dire Margherita, che vispa com’era, aveva gli occhi su tutto, e usava colle persone un ultimo avanzo di dimestichezza infantile.
- Io guardo, - rispondeva egli, trovando da maestro quel che gli bisognava, senza togliere l’occhio dalla bella vista in cui pareva assorto - io guardo quei comignoli laggiù del castello, e penso che darei un anno della mia vita per poter vedere, non fosse che un’ora, il castello, i baroni, il popolo del borgo e tutte le cose, com’erano, per esempio, seicento anni or sono...: quando le castellane vivevano da sante, e i cavalieri andavano e tornavano di Palestina, pieni di fede, carichi d’armi, a conquistare il Santo Sepolcro e il regno dei cieli...
- Oh!... e come si posson sapere codeste cose? - chiese Margherita, che sempre aveva preso diletto a farsi narrare favole e leggende.
- Dai libri - rispose il padre Anacleto - ma sono libri latini, che non tutti li sanno leggere...
- Ci racconti qualcosa lei, ci racconti - entrò a dire damigella Maria.
- Sì, sì, padre, racconti - incalzava Margherita. Bianca taceva, ed egli, con quell’aria che sanno pigliare anche i più volgari favolatori, cominciò a narrare.
- Fra i tanti fatti che si hanno dai libri di cui vi parlo, ne ricordo uno bellissimo, seguito proprio in quei tempi che il nostro San Francesco capitò quassù a fondare il convento dove noi siamo. Che felicità, nevvero, se vi fossimo stati anche noi? Ebbene, si diceva, in quel tempo che nelle montagne, là verso il mare (vedete? da quella parte dove si leva il sole in questa stagione) si diceva che in una caverna avesse vissuto una famigliuola, di cui nessuno sapeva bene come vi fosse venuta. Io quella caverna la vidi, ed è su per giù dell’ampiezza di questa sala. Abitavano là dentro marito e moglie, colla benedizione di due bei fanciulli. Il padre lavorava a far carbone, la madre a filare lana e a far camiciole, i bambini a cercare nidiate nelle selve, finché, fatti grandicelli, poterono aiutare il babbo nel faticoso mestiere. E recavano sulle loro spalle sacchi di carbone alla città di Savona, che, come avete inteso a dire è alla marina, lontana dalle montagne dov’è la caverna parecchie miglia. Partivano alla punta del giorno, tornavano alla sera, e non si stancavano mai. Una fra le tante volte che v’andarono soli, dice che vennero carichi di balocchi, e senza quattrini, e quei balocchi erano pugnali, spade, elmi rugginosi che valevano un fico.
- Il babbo, sì che li avrà sgridati! - disse Margherita, cui pareva di veder i fanciulli, l’armi, la caverna, ogni cosa.
- Che! neanche per sogno! Anzi, fuori di sé dall’allegrezza, e stringendo la moglie al petto: «Adelasia, esclamò, Adelasia! Il sangue nostro parla ai nostri figli dei loro avi e di noi!» Una vecchierella, la quale praticava in quella grotta, intese queste parole, le ridisse meravigliata ad un’amica; l’amica se ne confidò ad un’altra, e via... via, ne venne a sapere tutta la montagna, insino a Savona. In quel torno venne l’imperatore d’Alemagna, con grande esercito, a guerreggiare contro i Saraceni in questi monti, ponete come fosse ora, che abbiamo gli Alemanni contro i Francesi, che sono peggiori di tutti i Saraceni del mondo. Ebbene, dice che quelle parole, quel nome d’Adelasia, giunsero all’orecchio del potentissimo sovrano, che volle vedere la donna, il marito e i fanciulli, e... indovinate un po’...? La donna era figlia dell’imperatore, l’uomo era Aleramo, che l’aveva portata via dalla corte molti anni prima! Povero cavaliere, amato da lei, non potendola sposare, l’aveva rapita, e, penando chi sa quanto, erano venuti dall’Alemagna sui nostri monti, a passarvi quella misera vita.
- Oh! E poi padre, e poi? - chiese Margherita, vedendo il frate far pausa, - racconti, racconti ancora...
- No, no, - egli rispose - non racconto più, perché Bianca non istà attenta...
- Oh! sì! - disse Bianca - io ascolto...
- L’imperatore, proseguì il frate - roso da lunghi rancori contro il rapitore della figlia, che cosa doveva fare? La credeva morta da gran pezzo; rivederla fu per lui come un miracolo. Non so dire quanto penasse a perdonare lei e il marito, ma perdonò; e ad Aleramo diede in feudo il paese bagnato dalla Bormida e da non saprei che altri torrenti. Alla grotta che dicevamo, rimase il nome di Adelasia, e dovreste visitarla un qualche giorno che il babbo sia contento di voi. Vi si arriva in quatt’ore...
- Ma, e San Francesco? - tornò a chiedere Margherita, che, rimasta coll’ago in aria, non si poteva saziare di quei racconti.
E il frate, sempre cogli occhi in Bianca, la quale non aveva mai smesso di cucire, ma, a certi punti della narrazione, s’era abbuiata o rischiarata in viso, ripigliò: - Lascia che respiri, santa pazienza! La stirpe d’Aleramo crebbe, e piantò castelli e torri per tutto, in queste valli, e della storia d’Adelasia durò la diceria per secoli. Tutte le castellane, venute col tempo dalla sua schiatta, furono devote alla sua memoria, come a quella d’una santa. La imitavano in tutto, volevano somigliare a lei in tutto, massime in quel punto d’innamorarsi di chi loro piaceva. Ora accadde che una di queste, figlia del marchese di Cairo, aveva preso a voler bene a un poveraccio, il quale d’armi e di cavalleria ne sapeva quanto ne so io, frate pacifico. E non c’era santi a farle sposare un barone, che aveva castelli e vassalli, e che la voleva, sto per dire, viva o morta. Il padre della zitella si prese termine d’un anno e un giorno, e pregò lui d’andare in Terra Santa, a procacciarsi onori e meriti in faccia a Dio. Egli intanto si sarebbe adoperato a consigliare la figliola, e, alla fine, Se nozze si sarebbero fatte. Il cavaliere partì lasciandosi addietro il cuore: e fu in Palestina dove degli infedeli ne uccise tanti che i menestrelli lo onoravano colle loro canzoni sotto le tende dei più grandi principi della cristianità, ch’erano alla crociata. Ma... (qui entra di mezzo San Francesco) la zitella non voleva saperne delle cento storie che il padre le andava raccontando ogni giorno: questi la pregava, la minacciava, la teneva chiusa. Che! veniva a dir niente. Appunto di quei giorni capitò San Francesco, e il marchese si raccomandò a lui. Date retta che il bello viene adesso. Un dì il Santo stava colla giovane castellanina, lassù in una di quelle sale che ora non son più che rovine, ed essa gli narrava le sue miserie, ed egli le parlava come sapeva parlare un santo pari suo. Le parlava di quel cavaliere, che per amore di lei era lontano a combattere e a patire.
- La giovinetta, essendo come tutte le fanciulle bennate, molto pietosa, ascoltava il Santo e si sentiva rimordere delle fatiche e delle sofferenze, alle quali stava per cagion sua quel valoroso barone. E già era vicina a piangere, quando, a un tratto, facendosi come fosse stato in mezzo ad una battaglia, il Santo proruppe: «in questo momento, cade il prode dal suo cavallo e gli infedeli gli sono sopra per trafiggerlo con cento lame». - «Signore Signore...!» Un grido della fanciulla che pareva smarrirsi, richiamò il santo dalla sua visione: «o Dio - aveva esclamato—Salvatelo! e sarò sua sposa!». Questo era un voto fatto col cuore, e la fanciulla stette settimane e mesi, ad una delle tante finestre che vediamo lassù ornate di quelle colonnine di marmo bianco, ad aspettare come in penitenza, sperando che qualcuno venisse di Terra Santa a recar novelle del cavaliere. E questo qualcuno venne; ma chi era? Il cavaliere in persona, che tornava colle ferite appena chiuse, e le aveva toccate proprio in quel momento che San Francesco, per virtù divina, aveva avuto quella visione. Spirava appunto il termine d’un anno e un giorno dalla partenza, e, di là ad alcune settimane, fecero nel castello un gran torneo, e i banchetti e i festini non ve li so dire; tutto in onore della sposa e del cavaliere valoroso e pio. La storia non dice che San Francesco fosse al convitto; già, noi poveri frati, facciamo il bene, poi ci tiriamo in disparte: dunque il santo non vi sarà stato. Vi piace?
Damigella Maria accennò col capo; ma il frate, che non aveva raccontato per lei, non badò. Gli pareva d’aver trovato così bene il filo di cui aveva mestieri, Bianca s’era fatta, ascoltando, così trasparente, egli aveva potuto leggerle così chiari in viso i confronti che essa faceva di sé con quella castellana favolosa, che, lietissimo dell’opera propria, neanche s’accorse di Margherita, la quale, insaziabile, lo pregava a tirare innanzi, come se il racconto non fosse finito.
- Dio mi ha proprio ispirato, pensava - Chi avrebbe potuto disporla meglio? Essa non ha più bisogno che d’un tratto, e, se Fedele mena quaggiù il barone, la cosa è fatta!
E il barone giaceva in casa a don Marco, il quale, nell’ufficio pietoso di quella mattinata, s’era imbattuto in lui tra i feriti. Pensando al gran bene che avrebbe potuto fare, avendolo in casa, il buon prete gli aveva profferta l’ospitalità, ed egli non s’era fatto pregare, perché sapeva come don Marco stesse di casa vicino a Bianca. Stupito di non vedere il signor Fedele, non aveva osato chiederne, ma, l’andarsi a porre discosto due passi da lui, gli pareva la miglior ventura che gli potesse incontrare. Il prete, dal canto suo, era contento, perché sperava di pigliare confidenza con quel soldato, cagione di tanti dolori a Bianca, alla signora Maddalena, e chi sa di quali guai a Giuliano che viveva lungi, accarezzando vane speranze, come colui che innaffia una pianta morta, ingannato dalle poche foglie di cui verdeggia ancora.
- Io potrò parlargli, supplicarlo di dimenticare quella poveretta, di far sacrificio del suo amore per la felicità di due creature, che s’amavano prima che egli venisse quassù. Gli dirò che non gli sta bene; gli chiederò se nessuna donna piange nel suo paese per lui; talvolta i soldati hanno spirito, si commuoverà, vedrà il bene che può fare; pregherò tanto che mi darà ascolto.
Con questi pensieri, conduceva il ferito che camminava da sé, reggendosi a lui e ad un vecchio servitore, menato dall’Alemagna. Questi tirava per le briglie il cavallo su cui il padrone, tribolando molto, era venuto pei monti, dal campo di Loano, dove aveva toccata la ferita. E il povero animale teneva dietro a testa bassa, quasi umiliato di non averlo più in sella. Legato ad un arpione dell’uscio da via, rimase a guardarlo mentre saliva la scala, e gli mandò dietro un umile nitrito. Quando furono dentro, il servitore, vedendo la prima stanza affatto disadorna, arricciò il naso. Un lettuccio da sedervi sopra, perdeva l’imbottitura per gli strappi del marocchino; e gli ridestò l’immagine dei cavalli visti di fresco sui campi, colle viscere fuori delle pancie squarciate. Nella stanza del terrazzino dov’era il letto di don Marco, aggrottò le ciglia; e questi che se ne avvide, pensando che il servitore avesse notato nel barone qualche segno di ripugnanza a quella povertà, disse fra se: - Pazienza! Ma che ci posso fare se io non sono né un vescovo né un parroco ricco?... - E si pentiva quasi d’aver fatto quel passo, ma subito si consolò vedendo il barone porsi a giacere come su d’un letto suo. Allora si provò a dirgli che era tempo di riveder la ferita; profferse ristoro di cibo c di bevanda, ma ebbe un bel dire, l’altro non chiedeva che d’essere lasciato in pace. A un tratto, volti gli occhi al terrazzino, chiese a don Marco: - Quella casa là è del signor Fedele, nevvero?
- Sì, rispose il prete abbuiandosi.
- Ci sarebbe modo d’averne nuove?
- Non è nel borgo - disse don Marco mettendosi più sul riservato.
Il barone si tacque un istante e parve assopirsi: poi levandosi sul gomito ripigliò risoluto:
- Ah! voleva pur dirlo che forse non era nel borgo. Reverendo, m’usi questa cortesia, faccia chiamare il signor Fedele o anderò da me a trovarlo dov’è. Il prete alzò gli occhi al cielo, quasi per dire addio alle speranze fallaci, concepite poco prima; gli parve di non meritare l’amarezza di quel che le circostanze gli facevano fare, e scrisse quel biglietto, che, mandato al signor Fedele, lo fece correre dalla villa al borgo più presto che il barone stesso non avrebbe creduto. Questi, a vederlo apparire sulla soglia della camera, balenò, in quei suoi grandi occhi verdastri, d’una gioia ineffabile. E, sebbene negli abbracciamenti il signor Fedele lo urtasse col petto proprio nella ferita, non fece segno di dolore, ma quando si vide lasciato solo con lui, quasi continuando la domanda che gli aveva fatta il giorno in cui era partito pei campi della riviera, gli chiese:
- E Bianca?
- Bianca? - riprese il signor Fedele - Bianca non dico nulla, la vedrà. Alla lesta, se la sente di far un altro po’ di via? Alla villa ci aspettano tutti colle braccia aperte...
- Oh! - sclamò l’Alemanno - un ferito in casa...! si recano tante molestie. - Molestie? In casa mia niuno sa quel che voglia dire questa parola. Alla lesta, ripeto, si tenga pronto, io torno in dieci minuti con una lettiga... - Ma... no... - disse il barone pigliando la mano di lui per rattenerlo: son venuto a cavallo sin qua... se mi concedesse di guarirmi in casa di questo buon prete...
- Storie! non parliamone più...
Il signor Fedele chiamò don Marco, il ferito si alzò, ringraziò dell’ospitalità avuta, e il prete mesto e quasi umiliato stette a vederli discendere. Poi, quando furono fuori, tornò nella sua camera e sclamò: - ii finita Giuliano! Bianca sarà sua! - Sedé, si pose gomitoni sul tavolino, chinò il capo e pianse.
Intanto gli altri s’avviavano lentamente alla villa dove il padre Anacleto stava colle donne, stringendo i panni addosso alla povera Bianca. Egli s’era affacciato forse la quinta volta, a vedere se il signor Fedele tornasse, quando lungi un trar di schioppo, apparve la comitiva tra le siepi di biancospino, che facevano riparo ai campi, dove il grano vegeto di molto ondeggiava, mosso da un’aria dolce di primavera.
Il frate chiamò alla finestra Bianca, la quale fu sollecita a correre, e, additandole da quella parte, le disse - Parlavamo testè della castellana e del cavaliere ferito in Palestina: chi ci avrebbe detto che uno ve n’era per via, cui manca una madre, una sorella una consolatrice, e fu ferito per nostra difesa...?
A quelle parole Margherita discese sull’aia; la zia cieca fece atto di levarsi da sedere, ma ripigliato il suo posto, annuvolò come chi ha ombra di qualche cosa. Bianca si era sentita, a prima giunta gelar la vita; poi, in quelle cose che aveva intese, e in queste altre che vedeva pur allora, le parve che qualche cosa di miracoloso ci fosse. Padre Anacleto, da uomo avvisato, le bisbigliò che bisogna va, come la castellana, far buon viso a chi soffriva; perché la carità era la corona delle altre virtù. La povera fanciulla si mosse, egli la prese per la mano, e discese con essa. Quale fu lo stupore del signor Fedele quando vide Bianca venir oltre col frate, quella Bianca ch’egli temeva di avere a scovare chi sa da qual buco, arrivando coll’Alemanno! Si sentì addosso quella gioia che fa fare ai fanciulli le capriole, e gli crebbe la forza per modo che bastò da sé ad aiutare il barone a smontare. Questo, dal gran turbamento, stentava a reggersi. Quel frate che veniva incontro a quel soldato ferito, quel vecchio che menava il cavallo a cavezza, facevano un vedere assai pittoresco: ma l’occhio d’uno spettatore gentile sarebbe rimasto fisso su Bianca che, tenendo nella sua la mano di Margherita. tinta d’un rossore leggerissimo, stava sul ciglio dell’aia, dinanzi la palazzina, e pareva davvero una delle donzelle dei tempi antichi, nel punto che a pié del castello paterno, accoglievano il corteo, venuto d’un altro feudo, a chiederle spose.
L’Alemanno si scoperse il capo e fece un passo verso di lei, per chiederle scusa d’aver tanto osato, ma poi, tra pel patimento e pel travaglio del cuore, non vide più che un gran buio, vacillò e svenne. Felice, se in quel momento avesse inteso un grido sfuggito alla fanciulla, ché, sebbene fosse di pietà, l’avrebbe creduto d’amore; ma bisognò portarlo sulle braccia nella palazzina, e come corpo morto fu deposto nel letto del signor Fedele.
Durò in quello stato, ché nulla giovò spruzzarlo d’acqua o dargli aceto a fiutare, quanto padre Anacleto ebbe tempo d’andare al convento e tornare accompagnato da un laico, il quale recava un cestellino pieno di bende e di barattoli, che pareva un barbiere . Messosi all’opera, in pochi momenti ebbe sfasciato il braccio dell’Alemanno, e si vide una ferita sopra il gomito, che pareva una zannata di tigre. Il signor Fedele nascose il viso tra le mani, e al colore delle carni e all’odore che cominciavano a mandare, il frate rimase sgomento. L’Alemanno guardava tranquillo, e i figli del cascinaio che correvano dalla camera alla sala per quel che bisognava, dicevano alle fanciulle, intente a far filacciche, lo spettacolo compassionevole. Esse, tenendo a fatica i singhiozzi, chiedevano alla zia qual santo si suolesse pregare in simili casi. - San Lazzaro, San Sebastiano, tutti i Santi! ma lasciatemi in pace! - rispondeva Sa cieca: e le fanciulle, massime Bianca, tacevano intimorite. Essa cominciava a raccapezzarsi in quella faccenda: e, mentre era donna da aver compassione d’un moscerino, per quello straniero tribolato non provava punto pietà.
Mezz’ora di poi, il barone, medicato, lasciato solo a riposare nella quieta oscurità di quella camera, pensava alla sua casa, al mestiere travaglioso dell’armi, e, facendo proposito di smetterlo a guerra finita, si poneva a piene vele nei lunghi anni d’amore e di pace, che avrebbe vissuti con Bianca. Porgeva orecchio al bisbigliio che veniva dalla sala, e si studiava di distinguere la voce di lei. Là il signor Fedele lieto come un bambino alla mammella, fantasticava sopra l’Impero d’Alemagna che quasi gli pareva d’averlo in casa. Il padre Anacleto si pavoneggiava guardato da Bianca reverente e pensosa, Margherita vicina alla zia pigliava da lei la malinconia taciturna; e di fuori s’udiva il cascinaio, il quale ammaestrato dal servitore, governava il cavallo del barone, con un occhio alla bestia e l’altro allo scudiscio che il vecchio teneva in mano.