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Capitolo 13

Sul vespro di quel giorno, mentre Giuliano, cavalcando già vicino a Dego, scopriva tra il verde del castello il campanile che pare a un amico, appiattato per dar voce del suo ritorno, sul piazzale di casa sua sedevano alcune donne del vicinato, a rammendare camicie, a filare, a fare qualcosa, ascoltando i racconti di Marta. Essa pigliate le mosse dai molti Alemanni giunti di quei giorni, parlava delle guerre degli Spagnuoli, venuti sul principio di quel secolo, pochi anni prima che essa nascesse, a devastare le valli della Bormida, dove erano passati come la maledizione di Dio.

Dai racconti di guerra, era caduta in quelli della fame e della peste, e ne aveva sballate di così grosse, che le povere contadine Si pregavano di morire, piuttosto che star al mondo a veder altrettanto .

Una delle uditrici era Tecla che, alle parole della vecchia, badava poco o punto. Perché i suoi pensieri erano lontani cli molto: e vi avesse anche badato, la sua mente aveva fatto, in quei due mesi, così lungo cammino, che le cose strane dette da Marta, non potevano più nulla sull’anima sua. Si era in tutto mutata, e, a poco a poco, aveva pigliato nei portamenti e nel viso, l’aspetto di fanciulla nata in istato migliore di quello donde era uscita. La signora l’aveva, sin da principio, vestita di panni fini: e la villanella vi si era avvezzata, con gran meraviglia di Marta, che ormai non sapeva più sgridarla né tenerle il broncio, e parlava di essa benignamente. Nessuno del borgo, neanche lo stesso pievano, aveva più osato menzionare il fatto della scappata notturna di lei; e, sapendo che viveva raccolta, sempre alle gonne della signora Maddalena, tutti la chiamavano fortunata. Le donne del vicinato, che la vedevano qualche volta alle finestre di quella casa, cominciavano a mostrarsi rispettose; le fanciulle ne avevano invidia; suo padre e sua madre si stimavano qualcosa da più, ma quasi si peritavano a chiamarla loro figliuola. Essa, punto insuperbita, diveniva ogni dl più dolce; e, sebbene paresse che, essendo giunta a quella fortuna, dovesse stare allegra, una malinconia diffusa sul suo viso, rivelava che il cuore piangeva dentro; e il pensiero del suo destino, e la tema d’una caduta, che forse sarebbe stata più dolorosa, quanto più essa saliva, cominciavano a nascere in lei, sicché l’avvicinarsi del giorno, in cui Giuliano sarebbe tornato da Torino, le pareva una montagna che fosse lì per franarle addosso a schiacciarla.

Quel giorno, seduta in quel crocchio di donne, all’ombra del pergolato, da cui pendevano grappoli li lugliatica, che la signora voleva serbati intatti per Giuliano, badava poco o punto, ai racconti di Marta; c questa che, dal gran dire, si sentiva la gola di pomice, essendo sul finire, esclamava:

- Oh! le mie care benedette, i flagelli di cui vi parlo li manda il Signore; guerra, fame e peste, gli avremo tutti, uno dopo l’altro. E ancora bisognerà ringraziare, se si morirà di due uno, come ho veduto io nella mia giovinezza. Ma, se avvenisse come centotinquant’anni or sono, quando, da queste parti, i rimasti vivi erano come le mosche bianche? Quella fu una moria! Io ho conosciuti due signori di Cairo che venivano qualche volta a desinare qua, dal padrone buon’anima, quello vecchio. Essi erano i figli d’uno dei soli quattro uomini, che la peste d’allora lasciò vivi, in quel borgo di tremila anime. Eh! se li aveste intesi! raccontavano le cose udite dai loro padri i quali le avevano avute dal nonno, e, solo a rammentarIe, non mi sta in capo il fazzoletto. E anche allora si era detto che la peste nascesse dai tanti soldati morti in guerra... Baie! Io so che a Cairo, l’avevano formata tre sorelle coi loro unti..., una notte di sabato, in un loro podere, dove solevano trovarsi col diavolo... (qui Marta si segnò per l’ubbia che, menzionando il demonio, questi le facesse tre salti d’allegrezza dinanzi). Ammannirono l’unto, e, tornate la domenica all’alba nel borgo, unsero le porte delle case e le panche in chiesa, e, sin da quel giorno, cominciò a morir gente per certi tumoracci tanto fatti...

- No, Marta, non fate segni colle mani! - esclamarono quelle donne, che credevano di malaugurio il mostrare col gesto la grossezza di tumori, di biscie, di piaghe e d’altre cose cattive.

- Le tre sorelle - continuò Marta - allegre del fatto loro, partirono per andarsi da un loro parente del Genovesato; ma il podestà di Cairo fece dar loro dietro coi corni marini, e furono colte dalle parti di Savona, là dove la Vergine Maria comparve al beato Antonio. Legate, battute, menate a Cairo, furono bruciate vive al cospetto del popolo, tutte e tre insieme, come anime dannate... e io ho visto il luogo.

A questo punto, dando un’occhiata intorno, Marta si avvide di Tecla, che aveva sulle labbra un certo sorriso di compatimento a qualche baggianeria, uscita di bocca a lei. Si sentì punta nel vivo, da quel sorriso di incredulità, in mezzo a tante credenzone, e: Già, - eclamò -quei dai vent’anni in giù, ridono delle streghe, del diavolo, di tutto! Chi non crede al diavolo, non crede bene neanche a Dio! dice il signor pievano; me l’ho appiccicata all’orecchio, e penso anch’io come lui che, se si va di questa gamba, fra un altro po’ d’anni, pioverà zolfo acceso. Per me avvenga che può, e rida chi vuole; io sto col signor pievano, chi ha da salvarmi è lui...

Le donne non guardarono che viso facesse Tecla alle parole di Marta; ma pensarono alla profezia del zolfo, udita lanciare di sul pulpito dal pievano. E cominciarono a parlare di lui, e a dirne tante lodi, che se davvero uno si sente fischiar le orecchie quando è menzionato in qualche luogo, don Apollinare dovè sentirvisi dentro centinaia di grilli.

Ma, per la bisogna in cui era occupato in quel momento, aveva la testa intronata da ben altri rumori: suon di stoviglie, tintinnio di bicchieri, voci alte, una allegrezza chiassosa. Sedeva a convito, nel presbiterio, una grossa brigata d’ufficiali Alemanni, venuti a spalleggiare l’altre genti della loro nazione, che in primavera ne avevano toccate dalle bande di Nizza, in parecchi combattimenti. Quelle genti, sebbene non fossero centomila, come Giuliano aveva inteso dire tra via, pure ingombravano la valle di Dego sino alle sorgenti della Bormida, e villaggi e casali ne erano zeppi. I popoli di quelle terre ne avevano gran disagio pei molti alloggi, pei viveri di che dovevano fornirle, e più per quel che essi si pigliavano, a mo’ di predoni: e, fra i guai che pativano dagli Alemanni amici e la paura dei Francesi, che calassero a far battaglia con essi di qua dei monti, vivevano col cuore tra due sassi. Né quella paura poteva chiamarsi ubbia, perché, dalle cime dell’Appennino, al San Giacomo, al Settepani, dove avevano poste le grosse guardie i Francesi parevano spiare l’ora acconcia a fare qualche gran colpo, e a sera si vedevano tanti dei loro fuochi, che su quei monti pareva la vigilia di San Giovanni. Don Apollinare si sentiva scottare da tutti quei fuochi, e l’idea della calata dei Francesi tornava ad essere pel lui come un ariete di bronzo, che gli desse delle gran capate nel petto. Sull’imbrunire sempre chiudeva le finestre del presbiterio, che guardava a mezzogiorno, non volendo vedere quei monti d’amaro ricordo, coronati di quei fuochi maledetti: né solo o accompagnato s’era mai più fatto sino al muricciolo, che chiudeva il sagrato da quella parte. Anzi, se gli accadeva di dover discendere dal castello pei suoi affari, pigliava un sentiero a ridosso del colle, per non sentirsi in viso neanco l’aria di quelle montagne, punto badando alla natura selvaggia di quel sentiero che pareva fatto per menare i cristiani a rovina.

Ma a mezzo luglio, venute quelle nuove schiere d’Alemanni, aveva ricominciato a tornar in essere. Si mise di nuovo a pigliare i suoi pasti, a dormire un po’ più tranquillo; e quando potè farlo? dopo quindici dì d’apparecchi, si condusse in casa, a banchettare, gli ufficiali rimasti a campo nella sua pieve.

Donna Placidia, che aveva così in uggia la gente d’arme, che solo a vedere l’elsa d’una spada si segnava; s’era sfogata a brontolare tutti quei giorni; e la vigilia del banchetto pianse. Perché il fratello aveva tirato il collo a tanti capponi, che n’era rimasta vuota quella stia dove, nelle sue noie, essa era certa di trovare un popolo devoto, al quale volgeva la parola eloquente, quanto quella del pievano, dal pergamo, ai suoi parrocchiani. Ma, da quella donna che penava poco a rassegnarsi, perdonò al fratello lo strazio fatto, e badò che il desinare riuscisse a modo. Essa in cucina, essa in cantina, essa a dar in tavola le vivande, faticò per sette, lieta di non essere conosciuta per la sorella del pievano, da tanti gentiluomini, in quello stato. Di tanti affanni patiti durante il banchetto si ricattò quando fu tempo di portare il caffè.

Quei signori avevano mangiato gagliardamente e bevuto da far raccapricciare, e chiacchieravano de’ fatti loro fumando, annuvolando la sala, scoppiando in risa: ma quando videro il caffè, uscirono tutti in uno «oh»! lungo di maraviglia. E, mentre donna Placidia se ne tornava in cucina, compensata d’ogni sua noia, applaudivano don Apollinare che procacciava su quei monti, di così fatte delicature. Egli mescé, zuccherò, si prese per sé una chicchera, e, rimenandovi dentro col cucchiaino, piantato sulle gambe, la persona un po curva, il viso sporto:

- Il caffè - sclamava - Il caffè vuol essere bevuto dai signori, stando in piedi e mormorando...! - E levata la tazza, cominciò a sorseggiare, movendo quelle sue pupille grigie, per modo che pareva un volpone sotto una cesta.

L’allegra brigata fu tutta in piedi. I mustacchi dei bevitori coprivano gli orli delle chicchere, e gli occhi scintillanti pei vini tracannati in gran copia, barattavano sguardi e ammiccamenti, per disopra a quelle. I corpi satolli mandavano il fumo ai cervelli; chi ne diceva una, chi ne sbottava un’altra, e per farla finita, bevute sul caffè parecchie altre bottiglie, uscirono fuori a prender aria.

Ad uno, a due, a quattro giù per la scala, uscivano dal presbiterio come da un’osteria. Donna Placidia, di sull’uscio della cucina contemplava quella strana processione; e, al silenzio che regnava nella sua stia, le pareva che i suoi polli cantassero in corpo a quella gente contenta. Essi, a gruppi, scesero dal colle, col pievano in mezzo, tronfio, beato d’aver pasciuto quei messeri, che lo menavano a zonzo. Ammirati, salutati, invidiati dalla poveraglia, che andava in giro limosinando alle porte, quando furono al piano, pigliarono la via più amena, che era quella sulla riva del torrente; e sempre dell’istesso andare, fumando e celiando, s’allontanavano dal borgo, a seconda dell’acqua.

Gli è quanto dire che movevano verso quella banda, per dove Giuliano veniva; e, in verità, non erano discosti gran tratto? che questi apparve di faccia ad essi, ad uno svolto della via, cavalcando di quell’andare che la povera bestia dell’oste di Alba poteva, dopo sì lungo cammino.

La brigata si cansò dalla via angusta; ed il giovane, che oramai avendo il suo borgo dinanzi, ondeggiava tra il desiderio e la paura di saper alfine la verità su sua madre, passò in mezzo senza salutare, come non avesse veduto nessuno. Gli ufficiali stettero a badare più che a lui al cavallo; ma don Apollinare, soffermatosi, colle mani sulle reni, la testa inclinata sulla spalla, mirò di sbieco; e, col calcagno destro, battendo il suolo, sicché il ginocchio e il polpaccio agitavano le pieghe della talare, sclamava: - pecora, pecora! ora, se io volessi, ci saresti capitata!—

Alle parole strane, tutta la baraonda gli si fece incontro curiosa; ma il più vecchio e il più indorato di tutti quei soldati se lo pigliò a braccetto, si mise a parlar basso con lui, e la comitiva tenne dietro ad essi, meno ciarliera, quasi conscia dei discorsi che correvano tra il pievano e quel vecchio ufficiale, che n’era il capo.

Frattanto Giuliano aveva guadagnato il ponte e, sebbene s’imbattesse in gente nota che lo salutava, egli che in Alba avrebbe chiesto novelle di sua madre a un nemico giurato, adesso non si sarebbe rischiato per nulla a domandarne ai suoi paesani, e tirando diritto infilò il vico. Alla vista dell’arco che metteva nel suo piazzale, per poco non si buttò di sella, per salutare le sue case, e star lì fuori, in attesa di qualcuno, che venisse non chiesto a dirgli la verità.

- Oh! - sclamò Tecla, che era ancora sotto il pergolato col crocchio di donne, e rimase, vedendo apparire Giuliano, colle braccia tese verso l’arco, tinta nel viso di quel roseo, che si vede improvviso diffondersi sulle guancie a qualche giovine morente, e pare il principio d’una aurora più bella. Le donne non ebbero il tempo di levarsi in piedi, e già le zampe del cavallo le avevano coperte di sabbia, e Giuliano, balzato di sella, chiedeva ansando: - E mia madre?

- Santa Vergine! - gridava Marta rimescolata - capitate come i morti la notte dei Santi...

- Mia madre? - tornò a domandare Giuliano, e, senza dar retta alla fante né all’altre donne, gittate le briglie, mosse verso l’atrio; rapido quanto lo fu il suo pensiero a ricorrere alla seconda sera di Pasqua, quando era giunto da Cairo, con altre cure, con altre speranze, e aveva trovato sua madre ad aspettarlo su quella gradinata. Ora non v’era che Marta. Ma, se sua madre fosse stata davvero in fin di vita, o morta, la vecchia avrebbe potuto esser là a svagarsi, e Tecla con essa?

Questo pensiero non ebbe tempo di formarlo che la signora Maddalena comparve ad incontrarlo quasi più affannata di lui; ed egli, col piede sul più basso gradino in atto di salire, essa sul più alto in atto di scendere, si abbracciarono, come persone campate da un naufragio e incontratesi sulla riva.

Le donne del crocchio, peritandosi a star quivi, si allontarono; durò il silenzio un tratto, poi la signora, sciogliendosi da quell’abbracciamento, di cui Giuliano pareva non potersi saziare, pigliatolo per la mano, lo trasse dolcemente in sala. Là egli, sbalordito, e, quasi la stanchezza lo avesse colto improvvisa, si lasciò cadere di sfascio sulla prima scranna che gli venne tra piedi, e fissando la madre, e cogli occhi pieni di dubbio, d’allegrezza, di sbigottimento ad un tempo:

- Oh, mamma! - sclamò - credeva di non fare a tempo...! Ma che tempo? non è vero, nulla, non è...? Mi dica, fu un gioco, un inganno... che fu?

- A che dissimulare? - pensò tra sé la signora mentre Giuliano diceva - a che mentire, per dovergli poi dire domani quello che già sa? - Aperse le braccia in atto di chi sta per dare un grande squasso al cuore altrui, e insieme offre tutto se stesso per confortarlo, e rispose: - Ebbene? Tu, io, il mondo che ci possiamo? Leggi.

E, frugandosi in seno, cavò un foglio, spiegazzato forse in un momento di fiero travaglio, e lo porse a Giuliano. Quel foglio era di don Marco, il quale aveva scritto poche parole, per dire alla signora che si rassegnasse, e che Bianca si sarebbe sposata di quella settimana. Giuliano lesse aggrottando le ciglia più e più ad ogni verso; e poi, quasi riavutosi dalla sua spossatezza: - E si sposi! - urlò balzando bello d’ira improvvisa; - si sposi pure! fosse già sposata! Ma che feci io di male al mondo, perché da ogni parte mi si debba tirar; addosso come ad un malfattore? Ah! marchesa di G.... fu un gioco, un brutto gioco il vostro, e Ranza... aveva indovinato...! A quest’ora sono in carcere tutti!

- Ma che è questo? - gridò sbigottita la signora, che in quelle parole non ci capiva nulla.

- Mamma, m’hanno mandato qua facendomi credere che ella fosse morente! La marchesa di G.... m’ha ingannato!

- Ah! Allora ti ha scampato da qualche guaio! - interruppe . signora, balenando di gioia e di gratitudine per la gentildonna e don Marco, che a questa aveva scritto.

- Sì, - sclamò Giuliano - per farmi chiamare fuggiasco, vile e peggio!... Eppure sia benedetta!

E qui ricadde a sedere dinanzi a sua madre, e le narrava del viglietto avuto dalla marchesa, del viaggio fatto quasi senza sosta, parlando, con certa calma di cui egli stesso stupiva, non sapendo come l’anima si sarebbe ridestata al dolore, non appena dissipata quella sorta di pace, in cui, per aver trovata viva la madre, si sentiva preso. Narrò tristamente, e parlò sempre lui quasi pauroso di lasciare, tacendo, il posto ad altri pensieri, finché Marta, fatto riporre il cavallo, venne dentro recando la lucerna accesa, perché si faceva notte.

- Il cavallo - disse essa, per non istare lì a fare le accoglienze al reduce peccatore, - Il cavallo l’ho fatto legare in disparte, che quelli degli Alemanni non gli possono tirare...

- Che Alemanni? - saltò su a dire Giuliano col sangue a cavalloni; - dunque nemmeno in casa mia, potrò stare senza costoro tra i piedi?...

- Per carità! - disse - Marta - che essi non avessero a sentire sono lì sul piazzale...

- Giuliano abbi pietà di me! - pregò la signora - ci han dato due uffiziali ad alloggiare: soffri in pace, e, se ti volessero salutare, sii buono.

- Non voglio vederli, sono stanco, casco dalla fatica...!

Così dicendo, Giuliano partì sdegnoso, e, senza lume, prese la scala che menava alla sua stanza.

Marta, sollecita, accese una lanterna a mano, e gli tenne dietro: la signora Maddalena rimase ritta un tantino in mezzo alla sala, incerta se dovesse seguirlo, o star lì, a far buon viso agli Alemanni, se venissero dentro. E siccome questo le parve il meglio, così accostatasi alla porta, si mise ad ascoltare, tremando che essi avessero inteso le parole oltraggiose del figlio. I due, tornati mezzi avvinazzati dal banchetto del pievano, erano proprio sul piazzale, come Marta aveva detto, e davano ordini ai loro servitori, parlando imperiosi la loro favella. Essa in quei loro parlari non ci capiva nulla, ma, spiegandoli a se stessa alla sua maniera, già si figurava che davvero toccassero il suo figliuolo. Senonché coloro, riveduti i loro cavalli e detto ai servi quel che avevano a dire, se ne andarono di nuovo, forse a godere la serata, per tornare tardi pieni di vino e di gioia.

Appena se ne furono andati, e sul piazzale non s’udì più che il passo dei servitori, e il cigolare dei secchi e della carrucola del pozzo, la signora si provò a salire di sopra. Ma si fermò, perché Marta, lasciato il lume in camera a Giuliano, veniva giù tastoni e strisciando il piede per trovare i gradini.

- S’è buttato sul letto vestito e stivalato, com’era, e rimase addormentato morto. - Così la vecchia; e la signora: - Oh dorma! dorma! e che non gli venga in mente nulla, né Cairo né Torino...! - e salendo in punta di piedi andò ad ascoltare e a vedere da sé.

La stanchezza del corpo aveva potuto più dello scompiglio dell’animo, e Giuliano dormiva sì fisso, che tutti i tuoni del cielo non sarebbero bastati a destarlo. Essa spinse l’uscio, entrò nella camera, appunto come aveva fatto la notte prima della sua partenza, e al chiarore della lucerna lasciata da Marta stette a guardarlo. Giaceva supino; il petto gli si gonfiava a lunghi respiri; le guance attenuate dalla fatica erano pallide; le sopracciglia, i capelli, i panni aveva polverosi; pareva un guerriero che riposasse dopo la battaglia. Oh! se essa avesse potuto vedere il cuore di lui; se avesse potuto leggergli attraverso la fronte i pensieri! Eppure meglio averlo lì sotto gli occhi, tribolato quanto si fosse, meglio lì che a Torino, nel carcere, da cui la marchesa di G.... l’aveva forse scampato... Oh! la gentildonna pietosa, sì che l’aveva trovato il modo di farlo partire!... E la ringraziava dal fondo del cuore, e le pareva che ormai si sentiva forte da poterlo difendere contro ogni nemico: i sbirri, gli Alemanni, il pievano, chiunque volesse fargli male, li avrebbe Visti in viso! Rimasta un altro poco a guardarlo, baciò il guanciale non osando baciar lui in viso; poi si tolse non sazia ma quasi contenta.

Tornata in sala, trovò la fantesca gomitoni sul tavolino e allora soltanto, vedendola sola, si rammentò di Tecla. - O Tecla? - chiese essa, rimescolata per l’assenza della giovinetta.

- Tecla? - rispose Marta con certa voce che pareva chiedesse anch’essa. - Tecla, questa volta ne sono certa, e non è più tempo che taccia. Mi scaccerà se vorrà, tanto in questa casa non ci sono quasi più per nulla, ma voglio dire la verità. Ascolti, quando vedeva lei usare tanti bei garbi a Tecla, e avvezzarla a leggere, a scrivere, a parlar bene: ecco, diceva tra me, una signora che si apparecchia da sé il miele amaro! Ma dalla tema di farle male, mi teneva in gola tutto...

- Ma, o Marta - sclamò la signora, battendo forte col piede il pavimento: - o che strazio è questo che volete fare?

- Tecla la strazierà; non io...! Tecla, Tecla... vuol bene al signorino !

Fu come se nella sala non vi fosse rimasto più anima viva, dal tanto silenzio che vi si fece a quelle parole. La signora si abbandonò sul suo seggiolone, raccolse la fronte tra le mani, e non fiatò. Marta, ritta, immobile, sbigottita, stava come se avesse, senza volerlo, ucciso qualcuno. E, sentendosi rimordere forte di avere dato quel tuffo alla padrona, afferrò il primo pensiero che le balenò alla mente, fece come colui che lava la piaga colla prima acqua che gli viene alla mano, non badando se sia immonda. Chinandosi a lei, quasi a parlare nell’orecchio sommessa, disse con ingenuità meravigliosa: - Ebbene? Che male c’è? E dacché quell’altra di Cairo si marita...: se il bene che Tecla gli vuole, servisse di sfogo a Giuliano...

A queste parole, la signora Maddalena sollevò la fronte sdegnosa, ma d’uno sdegno sì alto, sì generoso, che alla vecchia parve di non avere visto mai nulla di più potente, a farle chinare gli occhi mortificati.

- E questo, - sclamò - questo, Marta, è il più tristo pensiero che abbiate concepito dacché siete al mondo; voi, che come io avete un piede nella fossa! - E, preso un partito, lasciando la fantesca a meditar le parole che aveva detto, s’avviò sola, al buio, in casa di Rocco.

Là s’era rifugiata Tecla, sin dal primo apparire di Giuliano, senza che la padrona, o Marta avessero badato a lei. E chiusa in quella cameruccia dove non aveva più posto piede da quella sera, in cui era salita a pigliarsi i panni, per andare a Torino: pensava a Giuliano come ad una visione, pensava a Marta, che forse gli avrebbe detto, come essa fosse vissuta quei due mesi alla mensa della signora Maddalena; le veniva in mente quella fanciulla di Cairo di cui aveva inteso parlare da don Marco; provava uno sgomento profondo della venuta del signorino, e insieme corruccio contro l’ingrata che non lo voleva sposare. Oh! se la grazia di essere amata da esso, il cielo l’avesse fatta a lei! Qui arrossiva d’avere osato tanto pensiero, e in questa guisa, ora cadendo d’animo, ora levandosi, se ne stava rannicchiata nel buio; d’una cosa temendo su tutto, ed era che prima o poi la si venisse a cercare.

I suoi l’avevano veduta venir in casa così di furia che n’erano rimasti spauriti; ma, già accostumati a menarle buona ogni cosa, dacché pareva portata in palma di mano dalla padrona, non s’eran manco rischiati a chiederle che avesse. E tra quel fatto, e il ritorno improvviso del signorino, ondeggiando turbati, non osavano coricarsi, e stavano, a quell’ora, ancora in cucina.

Grande lo stupore di Rocco, quando vide apparire la signora Maddalena, sola, al buio, essa che, dopo l’avemaria, non aveva posto piedi fuori la soglia, forse da dieci anni. Temè che venisse a comandargli di pigliarsi in ispalla i bimbi, le masserizie, Tecla e tutto, per andare in cerca d’altra casa e d’altri padroni; ma, quando la udì domandare della sua figliuola con voce dolce, gli tornò il cuore a posto, e, preso un lume, la menò diritta nella cameruccia di Tecla.

Alla vista della padrona, la fanciulla aperse le braccia, e disse: - sono qui, faccia di me quel che le pare! - E quella, mandato via Rocco: - O Tecla - le disse - tu mi vuoi bene davvero? Dimmi una cosa; se io ti dicessi: bisogna che tu te ne vada per un po’ di tempo da qui... mi daresti retta...?

- Oh sì, - sclamò Tecla - anche subito... come piace a lei...!

- Io ti verrò a vedere qualche volta; ti farò condurre a Santa Giulia in casa ai parenti di tua madre. V’è lassù una bella chiesa sopra una vetta, tu vi andrai a pregare per me... Non temere, di sulla porta di quella chiesa vedrai Dego e la mia casa e la tua... addio.

E, prese le mani della povera giovinetta, le strinse con pietà grande; poi si tolse di quivi, perché se vi fosse rimasta un altro poco, il singhiozzo l’avrebbe strozzata.

Discesa a basso, raccomandò a Rocco di menare la figliola in casa ai cognati ch’egli aveva a Santa Giulia, né disse di più; che dallo sgomento le morivano le parole in bocca. Il buon uomo promise d’obbedire, senza chiedere il perché, ma su per giù, almanaccando, gli pareva d’averlo indovinato, e volle accompagnare la padrona quei pochi passi. Chi li avesse visti a quell’ora che era quasi la mezzanotte, forse avrebbe pensato che in quella casa fosse qualcuno alle ultime fiatate. Una quiete altissima regnava in quella parte del borgo, mentre in castello si vedevano molte finestre illuminate, e veniva di lassù un suono di strumenti, misto di quando in quando di voci allegre, proprio come nei festini del carnevale. La signora udiva e sospirava, pensando ai suoi casi dolorosi: e, giunta sulla porta pose la sua mano ardente nella fredda e callosa di Rocco, il quale, avuta la buona notte, commosso da quell’atto, tornò a promettere che all’alba sarebbe stato colla figliola in cammino per Santa Giulia. Capiva che, obbedendo, faceva un gran bene alla signora, a Tecla, a sé, e, quasi dallo struggimento, il pover’uomo piangeva.

Tornata in casa la signora Maddalena si guardò bene dall’appiccar discorso con Marta, che aveva detto poco prima quelle brutte parole. E perché dalla camera di Giuliano non s’udiva nulla, disse alla vecchia che andasse pure a dormire, e v’andò anch’essa. La notte fu quasi peggiore di quell’altra di tre mesi prima, che aveva preceduto la partenza del suo figliuolo, e la povera donna ebbe un bel rimettersi in Dio, ma non le riuscì di riposare. Manco male, che, per la stagione, il mattino stette poco ad apparire, a guisa d’un visitatore sollecito, che viene e s’affaccia timidamente ad esplorare se giunge gradito. Allora i tamburi batterono la diana nel campo alemanno, rompendo la quiete della prima aurora. Quei tamburi accompagnavano l’andata di Tecla e di Rocco, su per la via che serpeggiando da Dego verso i monti, che dividono le due valli della Bormida, mena al villaggio di Santa Giulia. Salivano, salivano, Rocco portando sulla spalla il fardelletto di Tecla, infilato in un bastone; e Tecla volgendosi addietro, di tanto in tanto, a guardare. A misura che la veduta del borgo si faceva più bassa, e le case impicciolivano allo sguardo, e il campanile del castello pareva assottigliarsi, Tecla si sentiva crescere il cuore, e credeva di elevarsi a regioni piene di un’aura dolcissima di speranza.