Indice - 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23

Capitolo 14

Se in casa alla signora Maddalena s’era vegliato in quella notte al tardi, a Cairo, dal signor Fedele, non tutti avevano dormito: e l’alba trovava il padre di Bianca affaccendato, come un maggiordomo di famiglia doviziosa, che abbia corte bandita.

Egli aveva ricondotte in Cairo le figlie e la cognata, da sola una settimana, perché dal giorno in cui don Marco e il padre Anacleto s’erano bisticciati nella sua palazzina, e Bianca aveva detto apertamente al primo, d’essere disposta a fare il volere del padre suo, egli adagiato nelle dolcezze della compagnia, s’era dilettato a colorire i disegni che aveva nel capo. Di piàti e d’ogni negozio dell’arte sua, non si era dato pensiero, contento di quello che teneva tra le mani grandissimo, il matrimonio di Bianca coll’Alemanno.

In verità questi due, guariti l’uno del corpo e l’altra dello spirito, mostravano oramai d’aver fretta; e ogni giorno poteva essere vigilia di quella festa, che, alle volte, pone l’uomo dentro al tempio del bene e alle volte gliene sbatacchia in faccia la porta.

A misura che la festa s’appressava, damigella Maria pareva restringersi con Margherita, tanto da fare con essa una sola persona, annuvolata e taciturna. Essa aveva fatto come colui, che, vedendo pieno di crepe il muro della propria casa, s’industria di tenerlo ritto, con puntelli d’ogni sorta e tira innanzi, dall’oggi al domani finché vi rimane sotto schiacciato. Messa in disparte l’idea d’andarne di casa al cognato, quetatasi nella promessa che l’Alemanno non avrebbe menata Bianca lontana, s’era acconciata a vivere là, dove tutto pareva farsi a suo dispetto.

Il signor Fedele poneva ogni cura a non darle appicco di tornare a mezzo con quell’idea; badava bene a non capitarle tra’ piedi e le lasciava volentieri il sollazzo della compagnia di Margherita, in cui la poveretta aveva posto la vita. Così, a poco a poco, tra lo starsi e l’essere tenute in disparte, in quella faccenda del matrimonio, esse erano divenute a Bianca quasi straniere. Questa poi, dal dì che s’era chiarita ben disposta verso l’Alemanno, occupata di sé, delle cose nuove che si vedeva intorno, e delle tante che sapeva immaginare con quella sua fantasia, riscaldata, si reputava felice; e, vedendo esse accorate, faceva spallucce, e diceva tra sé che nelle loro malinconie non ci aveva colpa. Le cansava con accortezza, e, quando non era col fidanzato, col babbo o col padre Anacleto che veniva nel borgo a visitarla, se ne stava nella propria camera soletta, non come la primavera addietro, afflitta, stanca di tutto, ma ai cassettoni del suo cantarano, a cavare e a riporre uno dopo dell’altro, vezzi d’oro, e monili e collane; e poi sete, e trine, e vesti, e pettini, e reticelle, e guanti di ogni colore levando da certa scatola che era da per sé una galanteria, ne cavava certi fiocchi di piume di cigno, e, accostandosi allo specchio, s’impolverava un po’ di capelli sulla fronte e un po’ di gota, e rimaneva a guardarsi nello specchio, come per saggiare se incipriata tutta sarebbe parsa più bella. Oh! se la mala ventura, che poneva Giuliano a sì dure prove per amore di lei, l’avesse portato a vederla solo una volta, in quelle ore solitarie! Egli avrebbe cacciato presto dal cuore quella fanciulla che se per memorie importune rivedeva il giovane scolare del terrazzino, quella donna che tre mesi prima l’aveva baciata in viso, e pensava al dolore in cui forse vivevano per essa; faceva come pel cordoglio della zia, si stringeva nelle spalle e pareva dicesse: - che colpa ci ho io?

In quanto a don Marco non appariva più alle finestre rimpetto, perché, da parecchio tempo, si era andato a ricoverare in certa sua casuccia sui monti, dove lo rivedremo; ma se egli fosse stato nel borgo, le avrebbe qualche volta dato ad intendere, con un solo sguardo, quanta era la colpa che essa aveva nei dolori di quelle persone. Ma essa non se ne sarebbe doluta, assordata come era dalle ciancie degli adulatori che, sparsasi la voce del matrimonio, erano corsi a congratularsi a lei, e gli ufficiali Alemanni erano stati i primi. Costoro le usavano cortesie da grandi, e quello stesso generale che aveva rimbrottato il fidanzato, dandogli i fogli della licenza giunta da Vienna, s’era rabbonito con lui per la bella maniera, con lui aveva toccata la sua ferita, e per la bellezza della fanciulla.

La prima volta che l’aveva veduta, le aveva parlato di Vienna, di Corte, dello stato che l’attendeva: e Bianca, d’allora in poi s’era sentita crescere l’orgoglio e i desideri: e l’animo non aveva più cessato di farle dentro la ruota come un pavone. Non poteva più reggere a stare in quella casa, che le pareva sin troppo umile e pur di andarsene, sarebbe partita magari di notte, senza dire addio a nessuno.

Finalmente venne il gran giorno delle nozze che fu il primo d’agosto; quello stesso in cui Giuliano si sarebbe ridestato nel proprio letto di Dego chi sa con quali propositi nell’anima offesa.

Il signor Fedele aveva dormito poco la notte, e, sin dall’alba, si dava attorno con le fantesche e dei servitori in casa lì per lì, tanto che la faccenda della festa e del convitto fosse mandata innanzi per bene. Le signore del borgo, anco quelle che del matrimonio avevano parlato più da maligne, andavano e venivano profferendo a Bianca i loro servigi; l’una per essere stata l’amica di quella buona anima della signora Costanza, l’altra perché in fatti di così gran conto, s’era sentita ribollire nel sangue la parentela...

Le più si facevano innanzi per quell’assillaccio della curiosità, sì vivo in certe donne, che si trovano dovunque, a feste, a funerali, sempre colle labbra mosse in guisa, che non si sa se siano per dire una parola d’augurio, di compassione, oppure una facezia.

Bianca stava in una stanzetta che le teneva luogo di spogliatoio. Non aveva fatto altro, in tutta la mattinata, che aprire cofanetti e cassettoni, sturar boccettine d’acque odorose e spruzzarsene; si provava anelli e pendenti, braccialetti e collane, e, già molto prima dell’ora fissata, essa era pronta per andare in chiesa. Fattasi dinanzi ad uno specchio, che il fidanzato aveva fatto portare sin da Venezia, stette un tantino a contemplarvisi piena d’ammirazione per la bellezza che si sentiva in tutta la persona; poi, piegando il collo verso le signore che l’avevano aiutata a vestirsi, disse altera come una regina:

- Ora possiamo andare.

- Ma lo sposo? - chiese una di quelle dame.

- O che modo è questo di farsi aspettare? - esclamò Bianca; battendo dalla stizza col piede, che fu visto, in quest’atto, chiuso in uno scarperotto di raso bianco, stretto fin sopra la noce, da un intreccio di cordelline di seta, le quali spiccavano sulla calza traforata e sottilissima. E, così dicendo, cavò dalla cintura un orologio tempestato di gemme, che mandavano dalle mille faccette raggi e lampi come gli occhi di lei, e andò in collera.

Le donne s’ingegnarono di quetarla; e, per consumare quell’altr’ora che rimaneva, presero a narrare i matrimoni illustri che ai loro giorni avevano veduti nel borgo. Bianca, tornata a sedere, ascoltava e proseguiva a vagheggiarsi nello specchio, paragonando sé colle spose delle quali sentiva dire.

Frattanto il signor Fedele aveva finito di far apparecchiare la mensa in quella sala stessa, dove, alcuni mesi prima, la signora Maddalena s’era trattenuta con lui. I convitati dovevano esser molti, epperò lo studio per far posto a tutti, era stato lungo. Il vasellame di stagno forbitissimo, le bocce, le guastade, facevano un bel vedere sulla tavola foggiata a ferro di cavallo, e coperta di tovaglie ad opera, candide che avrebbero rimessa la voglia in un ammalato agli sgoccioli. Le pitture della Samaritana al pozzo e della scala di Giacobbe, con tutte le altre anticaglie, erano state tolte; e la sala parata a nuovo non pareva più quella neanco per l’ampiezza, tanti erano gli arredi, e tale il bell’ordine con cui ve li avevano assettati. Arazzerie e festoni d’edera, appiccati ai travicelli del soppalco ed alle pareti, formavano sopra la tavola una sorta di padiglione, con trofei composti dall’organista del borgo, che parevano simboli delle nozze tra il guerriero e la montanina.

La povera Margherita provava per tutto quello sfoggio uno sgomento che non le lasciava aprir bocca; e, dopo d’aver aiutato il babbo in quelle opere, non le era parso vero che questi le comandasse d’andarsene in camera dalla zia; perché, essendo zitella, gli usi del paese non le concedevano di stare alla festa. Essa non se lo fece ridire, e passò da damigella Maria, la quale s’era posta a letto per ammalata, non volendo esser costretta a sedere a mensa, quel giorno ch’essa stimava più tristo d’un funerale. Raccolta con essa, Margherita le raccontava le cose vedute in casa.

- Vengono, vengono! - esclamò a un tratto la fanciulla rimescolata.

- Allora tu non ti muovere più di qui, e, mentre andranno in chiesa, noi ce ne staremo coll’anima di tua madre, che certo a quest’ora è con noi. Pregheremo che scampi te da queste cose; inginoccchiati e metti la tua faccia qui sul guanciale, vicina alla mia.

Così dicendo, damigella Maria, da seduta com’era, si distese, e, coll’imboccatura delle lenzuola, si coperse il capo per non udire. Su per le scale venivano, con allegri clamori, ufficiali, signorelli e dame, e passavano con belle cerimonie, nella stanza, dove il signor Fedele soleva dare il suo ballonzolo in carnevale. Ivi i parlari gai, le piacevolezze gentili si mutarono in un bisbiglio d’ammirazione all’aprirsi di un uscio, donde, tra le portiere verdi, fu vista apparire candida, sfavillante, franca di passo, accompagnata dalle signore che l’avevano vestita, quella Bianca alla quale, pochi mesi prima, un pittore avrebbe messa in mano una palma e in capo una corona per ritrarre una martire. Adesso un pettine di gala raccoglieva quelle sue treccie, altra volta annodate così modestamente; e da esse, impolverate e acconciate, come se Lucifero vi avesse posta la mano, si spiccava un velo bianco trinato che le scendeva giù pel collo, ornato d’una doppia filza di perle, e lambiva le spalle ignude e belle.

Per poco non fu uno scoppio d’applausi. Quei soldati stranieri, usi alle Corti, potevano aver veduto qualcosa di uguale; ma i convitati del borgo non avevano visto nulla mai che somigliasse a quella bellezza. Pareva una gran luce e le donne la circondavano silenziose e pensose.

Allora l’Alemanno si fece innanzi, tenuto per mano dal suo generale, che, vecchio ed arzillo, somigliava ad uno sparviero un po’ spennacchiato, di faccia a una colombella. Il fidanzato ricuperata intera la sanità, aveva ripigliata la sua aria altezzosa e fiera, ma la gioia lo faceva parere men duro, e per Bianca, all’ora che correva, non v’era uomo sulla terra più bello di lui. il generale, poiché ebbe detto alla donzella, che facesse conto di vedere in lui il padre dello sposo, pose le loro mani, l’una in quella dell’altro, e pronunziò queste parole, studiate parecchie ore, e mandate a memoria: - Questa è la prima volta che m’accade una cosa di questa sorta. Signor Barone, se io avessi quarant’anni di meno, e fossimo ai tempi dei tornei, vorrei chiedervi di rompere meco una lancia; adesso non posso che applaudire, e narrare poi, quando saremo tornati nel nostro paese, che quassù delle ferite ne toccaste due: una nel braccio, l’altra nel cuore. Che siano state toccate da bravo lo diranno i vostri commilitoni per quella del braccio; per quella del cuore chi vedrà la vostra Bianca, non avrà bisogno di testimoni. Ora se vi par tempo andiamo in chiesa. - Prego! Un momento! - esclamò il signor Fedele, fra il giocondo bisbiglio, suscitato dalle parole del generale; - beviamo prima alla salute degli sposi, ai quali siano propizi i destini, e le loro Maestà l’Imperatore d’Austria e il Re di Sardegna nostri sovrani!

Allora andò attorno un vassoio coperto di bicchieri, e tutti ne presero, salvo che Bianca e lo sposo, i quali dovevano ancora comunicarsi. E fu un tintinnio che venne inteso sin dalla via, e fece accapricciare il cuore di Margherita, che assettò meglio il lenzuolo sul capo della cieca affinché non sentisse. Poi le dame si presero Bianca in mezzo, e gli uomini dietro di loro discesero con esse. V’era alla porta una lettiga sontuosa, che l’Alemanno aveva fatto pigliare a nolo nella vicina Savona, e quattro lettighieri, in abito di gala a capo scoperto, attendevano ognuno al suo posto. Bianca non sapeva di quella pompa, ne provò tanta meraviglia, che non si avvide neanche delle centinaia d’occhi che, dalle finestre, dalle porte, dalla via affollata, guardavano lei. Un drappello di soldati Alemanni faceva siepe alla lettiga, perché il popolo non la investisse; la sposa fu messa dentro in quella con una delle dame, e subito che si sentì levata da terra e portata, un suono di strumenti scoppiò improvviso ed allegro; le campane di tutti i campanili del borgo suonarono martellate a festa; e lo sposo e il corteo mossero in bell’ordine, dietro i lettighieri.

Vi furono fanciulle che si trassero dalle finestre stizzite accusando se stesse e i parenti, che non avevano saputo procacciare anche ad esse sì bella sorte: e vi furono dei garzoni che si sentirono umiliati, pensando alle loro fidanzate, cui non avrebbero potuto recare tanto fasto, e che forse in quell’ora, facevano, nel secreto dell’animo, indiscreti raffronti. il mondo fu sempre così.

Dietro al corteo incalzava la folla popolare, e, quando la lettiga s’arrestò, la scalinata della chiesa fu stipata come fosse la domenica dell’ulivo. L’organo riempiva le volte delle sue armonie: ma, per quanto la mano del suonatore si studiasse di trovarle festose, non veniva a capo di cavarne una, che non fosse di malinconia. Perché, sebbene fosse povero organista, le sue segrete fantasie le aveva anche lui; e forse non gli pareva giusto che quella giovinetta si sposasse, per andarsene chi sa in qual terra, così lontana che non sarebbe più mai tornata a sentirlo suonare, neanche nella sagra del Santo patrono del borgo.

Al primo passo che mosse dentro la chiesa, Bianca rimase tocca da quei suoni. Impallidì per modo, che una delle dame a lei più vicine, le chiese se la veste le stringesse troppo la vita, e se si sentisse male. La giovane sorrise, senza rispondere; ma quando la si vide giungere al banco parato di damaschi rossi, dove si aveva a inginocchiare, le parve d’aver fatto un grandissimo acquisto, perché si sentiva venir meno. Si pose ginocchioni coll’Alemanno, che le venne allato; appoggiò i gomiti sui cuscini gallonati, raccolse nelle mani la fronte, e stette ad ascoltare quel suono d’organo, che sembrava avesse a dirle qualcosa. Oh! le ne aveva a dir tante, che né Giuliano, né la signora Maddalena, né don Marco, avrebbero potuto di più. Quelle armonie erano un linguaggio noto ed inatteso, che trovava le vie del suo cuore, meglio d’ogni più dolce, o più acerba parola. Pareva che gli angeli del cielo, ai quali nei primi tempi dell’amor suo per Giuliano aveva parlato colla fantasia tante volte, si librassero tutti sotto le arcate della chiesa, e ognuno le ridicesse ad alta voce, i pensieri mesti o lieti che essa usava confidar loro. Cadde a poco a poco in siffatto accoramento, che, se l’Alemanno l’avesse potuta vedere in viso, da quell’uomo leale che egli era, le avrebbe chiesto se fosse pentita. Ma in quella, il tintinnio di un campanello annunciò che entrava la messa, e dall’uscio della sagrestia, fu visto il sacerdote, parato con gran fasto, andare all’altare con passi gravi, e cogli occhi bassi: maestoso, che pareva portare in mano le sorti dell’universo. Egli diede uno sguardo verso il banco degli sposi, inchinò al crocefisso inalberato sopra l’altare, salì i gradini, e incominciò il suo ufficio, mentre la moltitudine si inginocchiava con un rumore sommesso e diffuso.

Quel sacerdote era il padre Anacleto. Il quale, avendo condotto Bianca a quel passo, per compiere l’opera s’era procacciato l’onore di dire la messa dello sposalizio. E, sebbene i preti del borgo glielo avessero conteso, esperto ad uscir da ogni passo, egli aveva ridotto il parroco a farlo pago di quel suo desiderio.

Bianca sapeva come il celebrante avesse ad essere lui; ma, assorta in quelle voci misteriose della fantasia, non lo vide entrare. Però, quando la parola sonora e profonda del frate si mescolò a quell’altre che udiva essa sola, le parve un aiuto che capitasse valido ed opportuno; si segnò e levò la fronte. Che valevano quelle note dell’organo e quegli angeli della sua immaginazione? Non era vicino a lei il padre Anacleto, la cui voce, nell’orare, si levava ora ai toni più alti, ora scendeva ai più gravi, quasi di persona che parli un po’ al cielo un altro poco alla terra? Così, man mano che s’appressava il momento d’andare alla balaustrata, sentiva qualcosa che la staccava per sempre dal passato.

Costumava su quei monti, che una zitella, andando a farsi chiedere dal prete se fosse contenta di sposarsi al suo fidanzato, vi si facesse accompagnare da un cugino o da altro congiunto, il quale era quasi un testimone del parentado, contento di dare una delle proprie donne ad un uomo d’altra gente, che la facesse sua. Bianca aveva dietro di sé questa sorta di ministro del sacrificio, il quale quando vide essere venuto il tempo della cerimonia, la prese per una mano e la condusse alla balaustrata, mentre l’Alemanno vi si fece condurre dal generale. Là s’inginocchiarono di bel nuovo, e tutto il corteo fece corona intorno ad essi. il frate, spiccatosi dall’altare, accompagnato da una moltitudine di preti che recavano torcie accese, venne verso di loro.

Per la chiesa era un silenzio solenne; la moltitudine si premeva e ondeggiava; si vedevano le teste degli uni sporgere sulle spalle degli altri, e molti salire ritti sui banchi, e monelli arrampicarsi alle colonne, intenti tutti a raccogliere le parole del frate e il Sì che doveva uscire dalle labbra di quegli sposi beati.

I quali furono comunicati dal frate, in quella cerchia d’amici, che li nascondeva agli occhi del popolo: poi l’organo tornò a suonare a gloria; fu vista la mano del padre Anacleto, alta sulle teste dell’Alemanno e di Bianca, in atto di benedire; questi si levarono, baciarono quella mano, diedero di volta, e, scendendo da quei gradini, la sposa ebbe cuore di guardare la moltitudine fino in fondo alla chiesa.

Oh! se l’Alemanno non prometteva invano, essa si sarebbe vista ammirata tutta la vita, come in quel momento. Le scintillava in dito una gemma di tanto prezzo, messale pur allora dallo sposo, che le pareva d’essere stata inanellata con una stella; un’altra gemmina le brillava in fronte a mo’ di diadema; ora la sua fantasia poteva spiegare i voli sicuri; essa si riputava davvero la castellana del suo borgo natale! Che più?

Un coro di fanciulle vestite di bianco, si fece dinanzi agli sposi cantando un inno cavato dalla Cantica di Salomone; e celebrando la beltà e l’amore di Bianca con quelle ardenti parole, facevano far largo alla folla, sino alla porta del tempio, perché il corteo potesse uscire. Quando questa fu sulla soglia, i suoni, le grida, gli applausi proruppero; e l’Alemanno, che si menava al braccio Bianca ormai sua, aveva l’aspetto d’un eroe che traesse seco, dalla vittoria, il premio invidiato d’una regina prigioniera volenterosa.

La lettiga non era più alla porta della chiesa, perché gli amici e i convitati del signor Fedele, volendo mostrare l’allegrezza che quel matrimonio spandeva nel borgo, l’avevano fatta portar via costringendo, in questa guisa, gli sposi a lasciarsi ammirare. il, durante la messa, mandati fanciulli nei prati e negli orti, e garzoni nei boschi vicini a sfrondar alberi, avevano fatta la fiorita per la via e parati di fronde i muri delle case, come usava nella festa del Signore. L’aspetto del borgo pigliava, dalla chiesa alla casa del signor Fedele, una sì bella e nuova allegrezza, che l’Alemanno ne fu lietissimo. Procedeva a piedi con Bianca allato, calpestando quei fiori, che a lui potevano sembrare emblemi di piaceri passati, a lei di affetti posti in oblio, ed ambedue bisbigliavano verecondi fra gli evviva del popolo e la grave andatura dell’accresciuto corteo, che, lasciandosi alle spalle il clamore festoso della turba, rifece alfine le scale del signor Fedele. Ultimi tra i convitati capitarono i preti del borgo col padre Anacleto, inchinato, lodato, atteso a dare, il cenno, pel quale tutti pigliarono il loro posto a mensa; e se il signor Fedele, avesse avuto in mano un turibolo, avrebbe incensato tre volte e quattro lui, che sedutosi in mezzo agli sposi, governò coi cenni e coll’esempio l’olimpico pasto.

Intanto la cieca e Margherita se ne stavano come due meschine senza parenti né amici al mondo, relegate dalla sventura in luogo; solitario. Le voci e le risa della sala del banchetto, le percotevano come ventate furiose, e, a misura che cessavano e tornavano a suonare, esse ripigliavano le loro querele.

- Ma tu, Margherita, non farai come Bianca no, nevvero? diceva la cieca, cercando, colla sua mano sottile e scolorita, il capo della fanciulla. E questa non ebbe tempo di rispondere, perché appunto uno scoppio di applausi fragorosi, le fece morire la parola sulle labbra. La cieca levò il capo dal guanciale, porse orecchio quasi spaurita, poi, rimettendosi a giacere, parlò basso a Margherita.

- Mi pare che si debba essere vicini al tramonto...?!

- Sì - disse la fanciulla - Il sole batte appena nel comignolo della casa di don Marco.

- Tua madre è morta a quest’ora...

E i convitati, a quell’ora, erano al brindisi del padre Anacleto; il quale aveva provocato quegli applausi con un primo discorso; c tutti avevano bevuto con lui alla salute degli sposi, cui pregò gioie e tanti figli, quante erano stelle in cielo e arene nel mare.

- Ora un secondo brindisi! - tuonava egli colla sua voce, fatta più poderosa dal vino e dall’umore allegro: - un secondo brindisi, e sia alla Francia ammattita!

- Oh! - sclamarono i commensali interrompendo il frate con grandi risa; ma egli, guardato un poco in viso ai più arditi, con occhi scintillanti, e reggendosi alla spalliera della sua scranna, proseguì nello stesso tono:

- Sissignori! un brindisi alla Francia matta e ai suoi giacobini! Mi spiego. Se non fossero state le pazzie dei Francesi, questi gran gentiluomini sarebbero venuti quassù? No. E allora la coppia felice, in mezzo a cui seggo indegnamente, ci sarebbe? Giacobini alla vostra salute: non in questo, ma nell’altro mondo, se Dio vi perdonerà... !

E, fra un nuovo urtarsi di bicchieri e un nuovo erompere di voci, bevve l’ultimo sorso che gli colmò la misura. Allora, sentendosi la testa per andare in volta, prese commiato da Bianca, dallo sposo, e dalla comitiva, dando la mano a baciare a tutti, salvo che ai preti, e partì.

Egli aveva veduto il fondo a molti bicchieri, ed era preso da un’ebbrezza discreta. Ma anche a questo segno non gli poteva seguire alcun male, perché, partendo, si era procacciata la compagnia di quattro giovani di buon casato, suoi penitenti, i quali, sul vespro, andando a zonzo fuori del borgo, s’acconciarono di buon grado a fargli servigio.

Tra la via da Cairo al convento, non rifiniva di lodarsi della maestria con cui aveva condotto a termine quel maritaggio; del quale si sarebbe parlato lunghissimi anni in tutta la vallata; e dicendo era così lieto, che i quattro credevano ogni tratto di vederlo buttarsi in terra, a far capriole. I foresi, che tornavano dai vespri, colle bisacce ricolme di carni e di spezierie, pei desinari che solevano imbandire l’indomani essendo quel giorno la vigilia della Madonna degli Angeli, festa dei Minori Osservanti e di tutta la vallicella dove sorgeva il convento, vedevano la brigata giuliva e ridevano, allentando il passo o affrettandolo, per rispetto a quei personaggi, nella gioia dei quali parevano avere anch’essi una particina. Padre Anacleto salutava alla buona; e via così accompagnato e riverito giunse al convento, se non sano, salvo.

Il cielo, a ponente, era colorato di quelle tinte calde, che parlano all anima di tante cose dolci. Al po’ di luce riverberata dai tufi grigi dei colli che sorgevano di faccia al convento, il campanile spiccava nella selva scura che aveva a ridosso, e l’intiero edificio biancheggiando, faceva così placido invito, da invogliare della sua quiete il più felice uomo del mondo.

- Ed ora che mi avete accompagnato, ve ne vo’ dare un bicchiere che mi direte come lasci l’ugola. - Così disse il padre Anacleto, facendo l’atto di mettere i quattro giovani nel chiostro. E, poiché questi si schermivano e mostravano di non voler entrare:

- No, no... nessune cerimonie! - soggiungeva - qui comando io; e, giacché i padri stanno cenando, ed io per questa sera non ho voglia dei loro radicchi, così vogliamo fare tra noi un brindisi a questi colli, che danno i vini deliziosi, e ai contadini che mi portano quanto basta, per fare un po’ d’onore ad amici quali siete voi..

- Ma padre - usciva a dire uno della comitiva: - non per rifiutare no, non vede? Fa notte, e a Cairo siamo aspettati.

- Al ballo degli sposi, nevvero? - esclamò ridendo il padre Anacleto: - eh! via, peccatori, farete sempre a tempo a mescolarvi coi diavoli; sì, coi diavoli! Chi sta a vedere le danze n’ha in corpo almeno un paio, chi danza, sette o otto. Pensate, figliuoli, a quel che dice dei balli San Giovanni Grisostomo; pensate che passare per selvatici, poco amanti della compagnia, non vuol dir nulla: e anche quando sarete violentati ad andare ai balli, pensate che San Francesco di Sales consiglia di metterci sassolini nelle scarpe, acciò quel dolore, che essi danno, ci faccia ricordare dei tormenti dell’inferno! Entrate, figliuoli, che se no vi tengo prigionieri e predico tutta la notte.

Con questa piacevolezza, pigiati attraverso la porta, i quattro giovani entrarono nel chiostro, e, per una scala angusta, andarono in un corridoio di sopra, in capo al quale era la cella del padre Anacleto, dove entrarono uno dopo l’altro. Ultimo, il frate chiuse l’uscio a due mandate, e levata la chiave dalla toppa, se la cacciò sotto la tonaca, sclamando: - Animo! Ora tirate in mezzo quel tavolino, senza far rumore. Un momento! Badate a non mandarmi in confusione queste carte; c’è scritto il panegirico che dirò domani... v’aspetto ad udirlo. Animo dunque, con garbo, così! Tra tutti si fa tutto...; dà una mano a questa panca, tu; e tu accendi la candela; tò acciarino, esca, zolfino... Oh! ora sta bene!

Con questo discorso, il frate alzò un lembo della coltre del suo lettuccio, e disse: - Vedete?

Là sotto, in quella mezza oscurità, rotta da un po’ di luce che vi scendeva dalla candela, alcuni fiaschi brillavano, come occhi di belve in una caverna.

- Oh! benedetti! - urlavano i giovani a quella vista, correndo a fare intorno al letto una genuflessione: ma il frate, lasciando ricadere la coltre, zittì, rattenne il fiato e fece segno ad essi di rattenerlo. I padri venivano appunto allora fuori del refettorio, e v’era pericolo che nascesse qualche chiasso.

La campana del convento suonava intanto l’avemaria a distesa, annunziando la festa all’indomani. Quella della parrocchia di Cairo entrava anch’essa a mandare Il suo saluto alla notte: e a quei suoni s’aggiunsero subito quelli delle campane dei borghi, poco lontani dal convento. Fra l’altre si sentiva assai bene quella di Dego a certo squillo, che suonava nell’aria una malinconia da far pensare all’eternità. Quella sera gli squilli parevano mesti, più del solito, al padre Anacleto: il quale, se fosse stato uomo d’altro cuore, lasciati i fiaschi dov’erano, e accomiatati gli amici, avrebbe piegate le ginocchia e giunte le mani, chiedendo perdono al cielo, d’essersi immischiato in un matrimonio, che ad un giovane, allevato al suono di quella campana, aveva tolta la gioia forse per sempre.