La sera di quel giorno, a notte chiusa, Rocco ritornò menando a mano la giumenta del giovane, e smontò alla porta della signora, che volle dargli la cena con sé, e gli fece raccontare dell’andata e dei discorsi che, come egli disse, erano stati corti e mesti. Tra via non avevano avuto altra molestia che di sentirsi ad ogni tratto chieder novelle dei francesi, e il colono s’era scompagnato dal padrone in sul mezzodì, lasciandolo in Alba, alla osteria chiamata un tempo dello Scudo di Francia, donde faceva conto di riporsi in via l’indomani, al proprio destino.
Così i nuvoloni addensatisi sul tetto della signora Maddalena, erano dissipati dal vento che soffiava dall’Apennino, portando innanzi altri nuvoloni gravidi di maggior tempesta. E già si sentiva quanto sarebbe stata furiosa nello scoppiare soltanto a vedere come a Cairo corressero giorni di gran travaglio per la soldatesca che vi aveva le stanze da parecchi mesi. Il generale Alemanno pareva sulle brage attendendo di Lombardia aiuti che non capitavano mai; ed in cambio gli giungevano ogni tantino cavalieri che venivano dalla marina, per quel che si poteva argomentare, con novelle non liete. A poco a poco, il popolo indovinava le verità tenute nascoste, e già si sapeva che i francesi, sul cominciar dell’aprile, ripigliate le offese, si riscattavano assai bene dei danni patiti l’anno innanzi, per forza dei Piemontesi, i quali li avevano fugati a Raus, e afflitti di molte morti. Adesso tornavano grossi e minacciosi, e, sebbene per quell’anno non fossero ancora venuti a battaglia di campo, tuttavia l’aspetto delle cose era da far presagire che sarebbero usciti vincitori.
In casa del signor Fedele qualcuno aveva aperto il cuore alle voci di prossimi eventi, e Bianca sentiva una dolce promessa da quell’aria di guerra.
Dopo che s’era confidata colla zia dell’amor suo per Giuliano dicendo che tra l’Alemanno e la morte, avrebbe scelta questa, la povera cieca, consigliatasi con don Marco, la confortava a persistere nel rifiuto, ma con dolcezza. Il buon prete, ogni volta che lo poteva, dava ad esse novelle di quelle parti donde tornavano soldati Piemontesi o Alemanni feriti, narrando cose dell’altro mondo, e sgomentando i compagni che vi s’avviavano melanconici, come persone che sapessero di andare a certa morte. Egli e le donne ne provavano pietà, ma facevano voti per i loro nemici; il prete sperando da questi miglior vita pel popolo, esse pensando che, a vincere il signor Fedele, nulla avrebbe giovato se non la calata di quei Francesi, i quali, per quanto male si udisse di loro, alla fine dei fini, dovevano essere uomini anch’essi. Era vero che si potevano credere cose terribili a vedere le centinaia di famiglie Liguri che capitavano ogni giorno, coi loro preti, in lunghissime processioni; gli uomini carichi di masserizie, le donne coi bambini in sulle spalle, i vecchi menati dai nipoti, scalzi, piangolosi, affamati; ma che valeva? Interrogati come avessero abbandonati i loro villaggi, non sapevano che si dire, e, coll’aspetto di chi va, né sa dove, narravano di danni patiti, di casi atroci avvenuti nei loro borghi. A conti fatti venivano cacciati a quel modo dalla paura. Maria poneva mente a una cosa che non s’udiva raccontare da quella gente che i Francesi avessero fatto onta alle donne. E da questo traeva conforto a sperare che il diavolo fosse men brutto di quello che si credeva, perché se i Francesi rispettavano le donne, di certo erano in tutto migliori degli Alemanni, che avevano dato a parlare di violenze fatte qua e là nel contado, e, per quello che se ne diceva, non erano state poche. E non si tenevano dal menarne vanto i loro uffiziali, ché anzi vi facevano sopra le grosse risate. La cieca, che sapeva queste cose da don Marco, pensava come la pensarono indi a poco i popoli delle Langhe, i quali lasciarono per ricordo un proverbio che diceva, di quei Francesi d’allora: «meglio essi nemici, che gli Alemanni amici».
Ma, sino a quel punto, i più non vedevano altro Dio che costoro; e come dèi li adorava Marocco, vecchio volpone, che conduceva in Cairo un caffeuccio, proprio in sulla piazzetta del borgo. Egli se gli era tenuti sempre cari e si dava attorno a servirli colla moglie, che aveva bella, senza far segno di vedere se questa sorrideva ad alcuno di essi o rispondeva piacevolmente ai loro motti arditi.
Pur di brancicar monete, sarebbe stato ad occhi chiusi tutta la vita, e, dacché gli Alemanni erano nel borgo, aveva messo in serbo di belle doppie. La sua era una botteguccia a modo, e antica al mestiere, come si vedeva all’insegna, dalla quale si sarebbe potuto cavare la più bella vignetta, che abbia mai ornato frontispizio di poema eroicomico. Era una tavola dipinta di molte figure, che volevano essere soldati, assorti in enormi stivaloni, e stranamente ingoffiti da grandi cappellacci. Effigiati com’erano a sedere, guai se quei soldati si fossero levati in piedi, tanto erano tremendi per mostacchi non più veduti, e per occhi che mostravano il bianco, come di cani ringhiosi. A ciascuna di quelle figuracce Marocco sapeva dare un nome, e, a udirlo, erano ritratto d’antichi ufficiali del Re di Sardegna, stati a presidio nel borgo per fare la guardia all a repubblica di Genova, che non entrasse in corpo al loro sovrano. Questo era un gran giocator di pallone; quest’altro amoreggiava la madre d’una signora del borgo, che viveva ancora, quello faceva tremare la gente, solo che s’affacciasse alla finestra... Marocco conosceva di tutti vita e miracoli, sapeva dove erano nati, dove morti, e fin dove sepolti. - La mia bottega - diceva egli, mescendo agli Alemanni - fu sempre il ritrovo dei valorosi! Il conte tale, il cavaliere tale, tutti nobiloni dei primi del regno, venivano qui, .d erano soldati allegri e spenditori; ma, come lor signori, in coscienza non ve n’ho avuto mai!
Un giorno, (che non monta sapere qual fosse o decimo e ventesimo dalla partenza di Giuliano da Dego) nella bottega di Marocco si faceva un gran dire della guerra ricominciata. Era voce che il generale alemanno avesse ricevuto ordine di recarsi con tutte Se forze verso Nizza, perché i Francesi venivano cacciando di là i Piemontesi, vinti a Dolceacqua, al colle delle Forche, a Raus, e si parlava della rocca di Saorgio investita. I discorsi si incrociavano come spade, e tutti parevan là dentro sulle brage, pel gran desiderio di menar le mani. Un solo non si mescolava in quei fervori, ed era quell’uffiziale che si sentiva morire per Bianca, e non vedeva l’ora di poterla sposare. Stava raccolto in un angolo, gomitoni su d’un deschetto; di tanto in tanto beveva un sorso d’acquavite, e, chi avesse potuto vedere i sussulti del suo cuore, di certo diceva che bevesse per darsi coraggio. E sì che egli era prode e cimentoso, né si conosceva chi fosse più esperto di lui a condurre partite notturne, a farla da scorgitore, a caricare il nemico menandogli addosso una ruina di cavalli: ma, tant’è, non poteva farsi vivo, e stava mesto in quella guisa, quando capitò alla bottega un giovane trombetto, il quale, data un’occhiata intorno, gli fu dinanzi, e, fatto uno scambietto nel salutare, gli disse: - Il generale lo vuole -.
L’uffiziale accennò d’aver capito, e tenne dietro al trombetto. Il generale era un vecchio prode della guerra dei sette anni, ed abitava, di faccia alla chiesa, una delle migliori case del borgo.
I signori che l’albergavano s’erano ridotti stretti a disagio, ma, pur di piacere a quell’uomo, pur d’averne un sorriso benevolo si sarebbero acconciati a star sui solai, e, nelle molte stanze occupate da lui, avevano accozzati quanti arredi e quadri tenevano in casa, che pareva una dogana. Le volte che egli li degnava, si sbracciavano a mostrarsi più Alemanni di lui, e rammentavano di aver visto i propri padri e tutto il borgo piangere nell’anno 1737, ch’essi chiamavano sottovoce funesto, perché le novanta terre delle Langhe erano state cedute, in quello, dallo Imperatore al Re di Sardegna. Narravano, con sazievole loquacità, a tutta la canatteria di soldati scribi, che ingombrava il quartiere, come avessero avuto uno zio morto a Belgrado, capitano ai servigi dell’Impero, e ne ponevano in mostra il ritratto, meravigliando che quei soldati non s’inginocchiassero a salutarlo.
Quel giorno, in quella casa, tutti s’erano accorti che il tempo era cattivo, e, quando videro l’uffiziale entrare dal generale, gli fecero dietro gli occhi grossi, e osarono compiagerlo, perché certo andava a farsi scaricare addosso qualche sfuriata.
Com’egli fu dentro, rimase poco oltre la soglia, stecchito, con gli occhi negli occhi del suo superiore.
- Venga in qua! - disse asciutto il generale... - Signor uffiziale, ho qui per lei un plico, che mi si raccomanda molto da Vienna; vi deve essere dentro la licenza di sposare una zitella di questa bicocca, e su questo non ho a ridire. Ma ella mi ha taciuta la domanda fatta di qua a sua Maestà, (qui salutò come se l’Imperatore fosse stato là a udire); ella non s’è governata da quel soldato che crede d’essere ed è. Sia grata non a me, ma al rispetto che ho per la sua promessa sposa, a me ignota, se mi accontento di consigliarla a non dimenticare fra la gioia del matrimonio, che noi siamo qui per menar colpi di spada in servizio dell’Imperatore.
E, salutando una seconda volta il nome dell’Imperatore, porse la carta all’uffiziale che fece il suo saluto, quasi barcollando, poi diè di volta sui tacchi tutto d’un pezzo, lasciandone il segno profondo e polveroso sull’ammattonato.
Sebbene le parole del generale gli fossero parse troppo acerbe, egli discese le scale speditamente, come uomo lieto; corse defilato al suo quartiere e, dalla voglia spasimata di leggere quelle carte, ogni passo gli pareva un miglio. Appena potè aprire i fogli, brillò tutto nel volto e nella persona. Era proprio la licenza, che i suoi, gente d’alto stato, gli avevano ottenuta dall’Imperatore. Essi n’erano in collera, ma, come lo sapevano uomo di forti propositi, s’erano acconciati a quel fatto, maldicendo l’italiana, e pregando per lettera il generale a vedere almeno che la sposa fosse zitella dabbene.
Come ebbe letto l’uffiziale si fregò le mani, si rassettò i panni, diè una scossa del capo, e via di buona gamba corse dal signor Fedele.
Costui pareva fosse all’uscio ad aspettarlo, perché egli non aveva ancora stesa la mano al cordoncino del campanello, che già l’imposta s’apriva, lasciando vedere la persona dell’arzillo leguleio, il quale, presolo per mano, lo trasse dentro con paterna dimestichezza.
Messisi a sedere là proprio dove, giorni innanzi, la signora Maddalena e il signor Fedele avevano avuto il colloquio che noi sappiamo; l’uffiziale fu primo a parlare della faccenda, e, dopo lungo discorso, porse le carte allo suocero, che gli pareva un Dio... Questi le prese come roba che aveva in pratica, e si mise a guardarle ammirando l’aquile, le corone, i suggelli, tutte cose significanti la razza gentilesca e il gran luogo ove il barone era nato. Non vi lesse dentro perché non ci si sarebbe raccapezzato, ma, assicurando l’uffiziale che non era mestieri di tanto, ripose i fogli, gli strinse ‘c mani, vezzeggiandogliele e guardandolo in guisa che il poveretto, a vederlo come si lasciava fare, aveva l’aspetto d’un leone in balìa d’una volpe spelacchiata.
- Ed ora, se le par tempo - disse alfine il barone dolcemente - vorrei veder Bianca...
Il signor Fedele balzò, come per rispondere al desiderio più rapido del desiderio stesso, e corse per la fanciulla nell’altre stanze, lasciando lui colla mano sul cuore, pieno di un senso che gli rammentava gli strani ribollimenti di sangue provati sul cominciare delle battaglie. Il pover’uomo aveva più di trent’anni, e amava come un giovinetto di men che venti.
Il padre di Bianca aveva mandato innanzi il fatto sino a quel punto, che non bisognava altro che far gli sponsali, né aveva chiesto alla fanciulla di qual animo stesse verso l’Alemanno, e se fosse per acconciarsi a sposarlo. Perché non ne dubitava nemmen per ombra, e per lui la potestà paterna non aveva confini o rispetti. La trovò soletta a cucire nella sua camera, dov’essa soleva stare raccolta, come le aveva consigliato don Marco.
- Animo! Bianca - le disse - poni indosso il tuo più bell’abito, e vieni in sala a vedere lo sposo.
- Che sposo? - esclamò la fanciulla colta all’improvviso, alzando i dolci occhi nel padre.
- Eh! via! non farmi la bambina! O che credevi che il barone venisse qua per me?
- Se avessi viva mia madre, - rispose Bianca mestamente mi consiglierebbe o risponderebbe per me: ora, babbo, la prego di dire a quel gentiluomo ch’io lo ringrazio, e che se mi lascerà stare pregherò sempre per lui.
- Come! come! come! - tempestò il signor Fedele, incrociando le braccia sul petto, e rimanendo a fissarla un tantino; - moviti e non farmi scene che qui non è il caso di ringraziamenti né di preghiere! Ho fatto tutti i passi per amor tuo, e lo sposo è là che muore dalla voglia di parlarti.
- Ebbene, gli chiegga perdono in nome mio, ma io di là non vengo.
A questa risposta calma e risoluta, il signor Fedele dirugginì i denti, come un beccaio arrota i suoi coltellacci, ma si rattenne. En posta la mano sul capo della fanciulla, che s’era di nuovo curvata al lavoro, diceva colla voce più dolce che gli riuscisse fare:
- Tu... tu... vorresti negare a tuo padre la gioia di vederti ricca, ossequiata da tutti, invidiata da queste signore del borgo, sposa d’un uomo, il quale, nonché barone, deve essere un principe? Tu vuoi vederci morire, lui e me?
- Fosse il figlio del Re, piuttosto che sposarlo, morirei anch’io !
Non aveva finito di dire, che il signor Fedele era li per darle delle mani nel viso, ma, pensando a quel che ne poteva seguire, si trasse indietro un passo, e guardandola con occhio che, se fosse stato al buio, avrebbe mandato lampi, tese la mano minaccioso verso di lei, e uscì di quella stanza. Fuori, stette un istante a ricomporre il volto, poi, colla maggior calma che potè, cominciò a parlare come interrogasse e rispondesse a qualcuno.
- Torneranno? Stasera? Oh la testa vuota! Vecchi! vecchi...! - e rivenuto dov’era il barone:
- Vecchi! vecchi! - continuava - badi, badi a non invecchiare perché si perde il meglio, la testa e la memoria... Vede che mi accade? Stamane ho mandato le mie figliuole a ricrearsi un tantino alla nostra villa vicina a quel convento, là, che si vede stando sul ponte... ebbene, vegga memoria! Andava a cercar Bianca per la casa. Rida, rida, ma perdoni; trovo qualcuno, e mando a dire che tornino subito...
Così dicendo faceva segno di voler andare, ma il barone rattenendolo: - No, no... per quanto mi spiaccia non poterla vedere, non voglio torre alle sue figliuole un’ora di spasso... A domani, a domani...
Il loro colloquio durò un’altra mezz’ora, durante la quale il signor Fedele, pur avendo il capo ai rifiuti di Bianca, seppe così bene non farsi scorgere, che parve tutto occupato del suo interlocutore. Questi poi prese commiato, rimanendo tra loro che l’indomani si sarebbero riveduti per condurre a termine ogni cosa, ed essendo già l’ora dell’abbassar del giorno, se n’andò tutto solo a passeggiare sotto gli olmi, e a guardare la via, se vedesse Bianca tornare.
Aveva bell’aspettare, e, in verità, sarebbe stato meglio per la fanciulla essere su quella via, perché in casa ebbe a passare un triste momento. Suo padre, vistosi solo, fece come colui che giunge a strapparsi il bavaglio che l’affogava. Uscì in un largo respiro e, a passi lento, accigliato, con una mano tormentandosi la coda tirata sul petto, coll’altra agitando la catenella d’uno dei due orologi che aveva nelle saccoccie della sottoveste, fu dinanzi a Bianca non più sola, perché la zia e Margherita erano venute da lei poco prima. Le fu dinanzi:
- E se - disse, quasi continuando il discorso - se voi non lo sposerete, neanche se fosse il figlio d’un Re, in coscienza il barone sposerà voi, dovessi strapparvi la lingua per farvi dir sì - E volto alle altre due con grand’ira: - E voi che fate? Levatevi dai piedi!
- O babbo, o cognato! - sclamarono la cieca e Margherita: e questa gli abbracciava le ginocchia, quella tendeva le mani come per cercare le sue. Ma egli respingendole e gridando che non aveva cognata né figlie, le mise fuori della camera, chiuse le finestre andando e tornando come forsennato; e fu di nuovo sopra Bianca, pallida, silenziosa, seduta.
- Orsù, ripigliò - a qual gioco si fa tra noi? Parliamoci corto: lo sposerete? E Bianca, umile e mansueta: - Non posso.
- Non posso! - urlò il padre - non voglio, dovete dire! Ed è una triste parola per risponderla ad un padre come me! Chi vi ha fuorviata a questo modo? Ho inteso dire che le fanciulle osano talvolta innamorarsi!... Impallidite? Ditemi la parola che vi veggo lì sulle labbra, ditela che me la possa appiccare bene qui all’orecchio...! Dunque voi volete bene a qualcuno? Forse io so a chi... ma non voglio saperne il nome da voi... no... sarei viso da farlo ammazzare...!
Bianca diede un grido, il padre incalzava ghignando.
- Se domani udiste dire da qualche femminetta di quelle che passano per la via: - hanno ammazzato il tale... - Oh! no, no... non temete, per ora non lo farei... ho bisogno di tranquillità... E la troveremo la tranquillità; stasera partiamo... andiamo alla villa, voi non ve ne accorgete, ma siete ammalata... se foste sana dovreste domani essere qui a parlare col barone, e sareste tale da guastarmi ogni cosa... Alcuni giorni di malattia, e do sesto al vostro cervello, e all’altre faccende, e fra tre o quattro settimane si faranno le nozze. Vedete? Il sole va sotto... fra un’ora s’andrà... Spinse l’uscio e, vedendo damigella Maria e Margherita, che non s’erano potute staccare di là dalla tema che egli battesse Bianca: Anche voi - proseguì, - anche voi cognata, e tu pure pupattola mia, tutti alla villa a godersi la primavera! Oh le buone donne! Vedete Bianca? Pregano Dio che vi tocchi il cuore e vi renda il senno. Pregate, preghiamo... E se ne andò.
La cieca e Margherita tremavano strette l’una all’altra come due pellegrine, colte tra via da temporale furioso; né osarono dirgli parola. Ma come furono sole con Bianca, la abbracciarono con gran passione, poi Maria con voce tremebonda, come chiedesse la carità, le disse:
- Ed ora, che faremo?
- Anderemo alla villa - rispose Bianca.
- Ma tu... tu... come ti salverai? come faremo noi ad aiutarti? Oh, quell’Alemanno, chi l’ha comandato per nostra sciagura?
- Oh! - esclamò la fanciulla piena di mestizia e di fede: - la Provvidenza ha salvato fanciulle smarrite in mezzo alle selve, in mano ai masnadieri e abbandonerebbe me...?
In pochi momenti il dolore le aveva fatto pigliare tanto vantaggio sugli animi di quelle due dolci creature, che nel dire parve ad esse una santa. E l’ora passò sì presto, che non avevano ancora raccolto il po’ di fardello che loro sarebbe bisognato in villa, e il signor Fedele venne a pigliarle. Chiuse per bene le porte di casa, uscirono fuori del borgo per quel vicolo dov’era passata la signora Maddalena nel suo ritorno doloroso. Coperte di lunghe guarnacche nere, le due fanciulle reggevano il passo della zia, tenendosi strette a lei, come usavano menandola a messa. E il padre dietro, per un sentiero fuori mano, le fece scendere nel greto del torrente. La povera cieca inciampava nei ciottoli o si pungeva tra le spine, ma non fiatava, dolendosi solo di non avere potuto parlare a don Alarco prima di partire, ché di certo da lui avrebbe avuto qualche sano consiglio. A un certo segno il sentiero entrava sott’uno degli archi del ponte, che rimaneva a secco per la povertà del torrente e, mentre esse passavano, i pipistrelli spiccandosi dalla volta, venivano spauriti a sbattere l’ala nelle loro persone, di che tremavano, poverette, quanto il signor Fedele tremava d’incontrarsi con l’Alemanno, o in chi potesse dar voce nel borgo di quell’andata notturna e misteriosa. E però s’era messo in quel passo, come avesse gente insieme che andasse a mal fare.
Ebbero a tribolare oltre il ponte anche un poco, poi, risalendo a mancina su per la ripa erbosa, furono sulla via grande, ma scura scura per i pioppi fitti che non lasciavano passare la luna, levatasi allora. Di là, per campi e per vigneti, giunsero alla villa dove la famiglia del colono era già in riposo. Solo vegliava il capo di essa, uomo di buona età e vigoroso, il quale sedeva sulla soglia della casa, e faceva guardia alla roba per tema dei soldati Alemanni, che, uscendo la notte dai loro campi, andavano rubando, e ogni mattina s’udiva a parlare di pollai vuotati, e sin di vitelli rapiti.
- Chi va di notte? - chiese costui levandosi con un grosso bastone fra le mani e venendo oltre al rumore delle pedate.
- Siam noi, Lorenzo - rispose il signor Fedele.
- Come? il padrone a quest’ora? chiamo i figliuoli... figliuoli!...
- No, no... sta cheto, non abbiamo bisogno che d’un po’ di lume, m’aiuterai ad accendere, e poi ritornerai alla tua guardia... Avanti, figliuole, che la guazza fa male...
Entrati nella palazzina, e acceso il lume, il colono se ne tornò ai fatti suoi, un po’ meravigliato delle signore, che parevano venute a un mortorio. Il signor Fedele, senza far parola, le mandò a dormire. Poi s’appartò taciturno, s’allungò nel letto, s’affagottò fra le lenzuola, e là si mise a pensar al modo d’indur Bianca alle buone, a quel matrimonio. Interrogava per sé e rispondeva per lei, da principio esortando, poi minacciando. Essa sempre ferma; egli allora a fingersi ammalato dal dolore. Invano. Bisognava rivolgersi ai castighi e si mise a cercarne, e fu buona cosa che presto s’addormentasse, perché, pensando, chissà che inferno avrebbe inventato.
Non andò guari che, mentre egli giaceva russando forte, e le tre donne vegliavano parlando basso tra di loro, un suon di campana venne per la solitudine dell’aria, come voce che dicesse al cielo, o ai morti, o a non so che altro di misterioso che esiste: «qualcuno veglia a quest’ora sopra la terra!».
Era la campana del convento dei Minori di San Francesco, che sorgeva poco discosto. A quei tocchi Bianca alzò il capo, e porse ascolto con desiderio, come se fossero state voci della madre sua, morta. E poi volgendosi alla zia, nel buio della stanza:
- Oh! - disse - e noi non ci avevamo pensato! Zia, se mi facessi monaca?
- Preghiamo, - rispose la cieca - i frati s’alzano a quest’ora e discendono in chiesa a pregare...
Margherita piangeva. Tacquero, rimasero deste un altro momento; poi, come l’ora e la stanchezza poterono più del travaglio del cuore, s’addormentarono. Bianca sognò tutta notte monache e canti devoti.
L’indomani il signor Fedele s’alzò prima dell’alba e, fattosi sulla soglia della loro camera, gettò dentro queste parole:
- Nessuna di voi vada fuori, sino a che non sia tornato.
E disceso alla casa colonica che era muro a muro colla palazzina, comandò al cascinaio e alla moglie di lui che non parlassero ad anima viva né della sua venuta in villa, né dell’ora, né d’altro; e badassero bene a non farsi vedere con damigella Maria e con Margherita, per non dar ombra a Bianca, alla quale, gli fossero segreti, pareva stesse per dar volta il cervello, dalla gran paura dei Francesi, e in tutto e tutti vedeva nemici e spie.
- Povera signorina! - esclamava la cascinaia impietosita, asciugandosi gli occhi col grembiale, intanto che prendeva gli ordini del padrone per la colazione delle signore: uova, cacio, latte; poi fece vedere una focaccia cavata allora di sotto la cenere, avvolta in un mantile bianco come la neve, e cotta proprio per esse. Il signor Fedele, contento della donnicciuola, partì.
La curiosità è femmina e sorella dell’ignoranza, e però pungeva l’animo della cascinaia. Costei non attese d’esser chiamata, ma, presa quella roba che le aveva detto il padrone, se la recò in un cesto, entrò nella palazzina, salì le scale, e facendo a fidanza colla bontà delle signore, disse fra sé: - Se mi colgono, dirò che veniva con questa grazia di Dio, se no, voglio un po’ vedere che cosa è questo mistero... - Catellon catelloni, s’appressò all’uscio della camera ove esse erano, le vide attraverso la toppa, e si mise a origliare.
Altro che andar in volta col cervello! Bianca parlava di suo padre, che voleva sacrificarla, ma, con calma affettuosa, e diceva di volersi far monaca per togliersi da questo mondo che non le era parso mai bello. Le altre due le rispondevano, ingegnandosi di consolarla, ma il discorso era così avanti che la contadina non ci si poteva raccapezzare. Quanto avrebbe dato per saper tutto quello che avevan detto! A un tratto le parve che Margherita volesse muoversi, ed essa, togliendosi di là come un folletto, e chiamate di sulla scala le signore, fece le viste d’esser venuta allora allora, portando la colazione.
Intanto il signor Fedele era in via alla volta di Cairo e vi giungeva che il sole non era peranco levato. Molto stupito vedendo gli Alemanni in armi sotto i filari d’olmi e la squadra di cavalli schierati e pronti, non come gli altri giorni per andare agli esercizi, ma con quell’aspetto diverso, affaccendato, quasi zingaresco, che hanno le milizie quando levano il campo. I signorelli del borgo si tenevano in mezzo agli ufficiali, dando e ripigliando strette di mano, con quella cera tra sciocca e sbigottita dell’uomo che, rimanendo a casa, conforta a starsi di buona voglia chi va agli sbaragli della guerra. I preti v’erano tutti, salvo don Marco, ed avevano la faccia compunta, e parlavano del Dio di Sabaot, che guardava dal cielo le invitte spade dei loro amici. Gli ufficiali ridevano e s’accarezzavano i mustacchi.
Quando il signor Fedele fu veduto, il barone che non aveva perso d’occhio un istante quella via per cui veniva, gli corse incontro, chiedendo che fosse stato di lui e della famiglia.
- Nulla! - rispondeva quegli - non fu nulla; ma qui, che è questo che veggo?
- Ma Bianca...?
- Eh non mi faccia piangere! Ieri sera venne il colono a dirmi che le aveva preso male, e ho dovuto andare alla villa...
- Malata! - proruppe l’Alemanno - ed ora...?
- Ora sta meglio, e all’alba l’ho lasciata che dormiva chetamente. Ma qui che c’è di nuovo?
- Andiamo alla volta di Oneglia - rispose l’Alemanno mestamente .
- Maledetti i Francesi! - sclamò il signor Fedele, ma l’altro interrompendolo: - No... maledetti no... il generale ricevette l’ordine d’andar là stanotte... torneremo... ma... Bianca... se mai le dica ch’io parto, ma che appena potrò... Chi sa...? su quei monti... e si volse a guardare dalla banda della marina.
Il sole illuminava le vette di San Giacomo e del Settepani, i quali giganteggiavano lasciando che per l’aria limpida del mattino l’occhio penetrasse nelle loro selve, e scoprisse le vie alpestri, che gli Alemanni avevano a salire.
Le parole del barone erano state dette con tanta mestizia, che facevano contrasto meraviglioso colla sicurezza che gli si vedeva in tutta la persona. Ma il signor Fedele volle confortarlo, e chi sa che sciocchezze stesse per dirgli, quando si sentirono dei cavalli e le trombe suonarono, e gli ufficiali corsero ciascuno alla sua schiera. Anche il barone diede l’ultima stretta di mano al suocero futuro, corse al suo cavallo raccolse le briglie e montò in sella leggiadro, ma col lutto nel cuore.
Alle voci dei capitani rispose un moto e un rumore d’armi, poscia silenzio. Il generale veniva in mezzo a parecchi cavalieri, e il popolo faceva largo dinanzi a lui. Fu cosa di pochi momenti, un andare, un tornare, un parlarsi sommesso da questi a quello, un gridar alto alle schiere, tutto con quell’aria di mistero che usano le gerarchie sacerdotali e militari quando fanno mostra di sé. Indi a poco si spiccò la squadra d’ulani condotta dal barone, e presero la via verso mezzogiorno a mo’ di scorgitori, e dietro i fanti, e dopo questi le artiglierie, portate a dorso di muli; da ultimo salmerie, monelli e cani, tutti misurando il passo al suono dei pifferi e dei tamburi.
Poche ore dopo tutto nel borgo era quiete. La sera s’incominciò in chiesa un triduo per invocare la vittoria dell’armi alemanne. Si pregava di cuore, ma gli animi aspettavano paurosi le novelle del campo. Marocco era stato colto da uno struggimento, ch’egli solo sapeva quanto fosse grande, vedendosi ridotto a quella compagnia d’avventori paesani che l’avrebbero tenuto sobrio sobrio. Il signor Fedele si fregava le mani, parendogli che la partenza dell’Alemanno gli fosse tanto oro, avendo mestieri di tempo per ridurre Bianca. Tuttavia pensava che il barone avrebbe potuto morire, e allora si grattava la nuca plebeamente.