Tornato alla villa, il signor Fedele cominciò dall’assalire Bianca coi ragionamenti, e, trovandola sempre uguale, la condannò a starsi tutto il giorno in una stanza appartata. Guai alla zia e alla sorella se avessero tentato parlarle. Per maggior umiliazione la faceva venire a mensa, ma in un angolo, senza tovaglia, a mangiare in certi piatti di terra nera, presi dalla cascinaia. E anche in quel tempo le vietava di aprir bocca. Sui volti delle altre due si fecero in breve profondi i segni dell’animo afflitto, ma, temendo di procacciare a Bianca maggiori mali, tacevano; ed essa, per certo raggio degli occhi nuovo e soave, mostrava di crescere in forza a sopportare quei trattamenti, e, si consolava pensando che, per amor di Giuliano, avrebbe patito anche più, se più fosse bisognato.
Così entrava il maggio senza che la festevolezza della stagione valesse a ricondurre in quella casa la pace e la gioia. Damigella Maria e Margherita, libere di starsi o di uscire a diporto, non movevano guari, per non godere quel che a Bianca era vietato. Avrebbero volentieri mutata sorte colle donne più tapine della valle, e udendo i campagnoli cantare strambotti pei colli, in quelle notti piene di misteriose melodie, i loro pensieri s’incontravano mestamente con quelli della infelice.
- Oh! - diceva la cieca - hanno bel dire, ma le contadine sono più felici di noi! Vengono su pascendo le pecore e sarchiando il campo; durano stenti grandi, è vero, ma almeno quel po’ di pane che Dio manda, lo mangiano in pace senza tante ambizioni...!
Margherita, assorta nei canti che s’udivano lontani, chiedeva che volessero significare a quell’ore insolite, e pareva passionarsene; la zia, sospirando, rispondeva: - cantano la primavera tornata; la tua bella età, che Dio protegga, sicché tu sia più fortunata di tua sorella!
- E Bianca? - ripigliava la giovinetta - che farà di là? le piaceranno questi canti, a lei così afflitta?
Non era da dubitarne. Bianca porgeva orecchio alla sua finestra, e pensava ai mai che i contadini piantavano cantando dinanzi le porte delle foresi loro fidanzate. E anch’essa cadeva in quell’idea che, nata villanella, sarebbe stata più lieta, e che, pur di potersi sposare all’uomo amato, la sferza del sole non la si doveva sentire, e lavorare sul solco da un’avemaria all’altra, doveva parere un trastullo. Ma per sé non poteva sperare che lo sterile rifugio d’un monastero. E, in quei giorni di silenzio e di solitudine, ne parlava seco stessa, menzionando la pace, il sepolcro, mille malinconie, in guisa che, se la zia l’avesse intesa, si sarebbe alfine levata contro il cognato; e delle due l’una, o egli smetteva dal tormentare Bianca, o essa se ne sarebbe andata a viver da sé.
- Mah! - diceva la povera giovane, in certe ore che l’aspetto della vita le si faceva più lugubre: - quando sarò nel monastero, e mi avranno tagliati i capegli, e la mia faccia si sarà fatta smorta, se egli venisse a vedermi una volta, e mi ravvisasse, e mi dicesse: tale divenisti per amor mio! oh! come sarei lieta di morire in quel momento! Ho inteso dire che le monache pregano nelle loro chiese dietro le grate, non viste... E se egli venisse in chiesa per vedermi... se cantasse per farsi conoscere da me...! Già, non intesi mai, la sua voce, non ci siamo mai parlati...! Eppure quanti discorsi abbiam fatti, egli dal terrazzino di don Marco, io dalla nostra altana! Mai una parola... mai un cenno... ma fa bisogno di dirsele certe cose? chi sa dove sarà? A Dego? Chi sa se mi incontrerà mai più...? Oh! viva o morta lo sentirò venire e tremerò tutta!
Di questo andare s’era accostumata a considerarsi già fatta monaca; e mai che fosse venuta in pensiero di ribellarsi del tutto, fuggire, e andar in cerca di Giuliano, o di fargli sapere cli sé per qualcuno di mezzo. Scrivergli non avrebbe osato: solo il filo di speranza che attraversava le sue miserie, faceva capo a don Marco: e qualche momento osava sperare ch’egli avrebbe rimediato a ogni cosa; ma quel pensiero di lui su’ Francesi che sarebbero venuti a liberarla, cominciava a parerle una promessa mancata. Non venivano mai quei Francesi.
Non venivano? Avesse potuto leggere nell’animo del proprio padre, l’avesse sentito maledire tra sé i repubblicani e la Francia, e avrebbe capito come i Francesi eran vicini! Egli non andava neanche più al borgo, perché là si dicevano cose da farlo basire. Oggi Sa rotta dei Piemontesi e degli Alemanni al Ponte di Nava, domani la presa d’Ormea, di Garessio, di Bagnasco, tutti luoghi che egli sapeva, alla grossa, poco discosti; un’altra settimana, due forse, e la guerra alpina sarebbe stata perduta pei regi e per gli imperiali, e i repubblicani, eccoteli padroni di scendere a lor agio a divorarsi le Langhe.
S’aggiungeva a queste cose che Sua Maestà Vittorio Amedeo aveva in quei giorni mandato ai magistrati e ai parroci di tutti i villaggi e borghi e città un bando, col quale comandava a tutti di ogni grado e stato, purché atti alla guerra, si provvedessero d’armi e munizioni, quante bastassero per quattro giorni, e si tenessero pronti a muovere contro i Francesi al primo cenno. Il Re parlava di premi e di pene, e il signor Fedele, per parer di quelli non atti alla guerra, oltre a non recarsi più al borgo, quasi non usciva più dalla palazzina.
- O Madonna! - gli era venuto di sclamare una sera spogliandosi per andare a letto - se voi terrete i Francesi lontani dalle mie campagne, se mi renderete sano e salvo il barone e mi aiuterete a condur Bianca sulla buona va, vi edificherò una cappella proprio nel mezzo dei miei vigneti e vi farò celebrare ogni domenica una messa da questi frati, santi servi vostri e del serafico San Francesco.
Nei fondacci della sua coscienza non credeva né alla Madonna, né a San Francesco, né agli altri santi del calendario; ma, allevato a parlar di essi colle mani giunte, da bambino; a metterli in disparte da giovinotto; e, da uomo maturo ad averli sempre in bocca, c a giovarsene come di zucche legate ai fianchi per tenersi a galla sul pelago della bassa gente, che in essi avea fede e in Dio: adesso, di faccia al pericolo, si rivolgeva alla Madonna con la dimestichezza d’una femminetta avvezza a parlarle a tu per tu tutta la vita.
Quella notte s’addormentò con addosso l’indigestione di certe brutte nuove avute dal cascinaio, che le aveva raccolte un po’ dai frati, un po’ dai campagnoli: e, qualche ora prima che fosse l’alba, si svegliò come persona cui venga fatta forza, molle di sudore e tutto scompigliato il letto, pel grande agitarsi fatto nel sonno. Aveva sognato d’essere soldato del Re, caduto in mano ai Francesi con grossa compagnia. I barbari, trucidato e sparato il più grasso tra i prigionieri, se So mangiavano, e ne davan a mangiare anche a lui, che, provandosi con ogni sua forza a schermirsi, si trovava agguantato nella coda e nel mento, e costretto a spalancare le fauci, mentre uno di quei ribaldi lo imboccava di quelle carni spietatamente, spingendogliene in gola con una baionetta lunga lunga, che, ad ogni tratto, si mutava in un serpente.
- Ahimé! - sclamò tastando il letto, e guardando nel buio con gli occhi pieni di quelle immagini, e la gola arsa d’amarezza disgustosa - ahimé che spavento, Gesù Maria! Se durava un altro poco io moriva!
E diede volta sull’altro fianco, studiandosi di non più addormentarsi, pauroso che il brutto sogno ricominciasse. Stette così un tantino rannicchiato, poi riprese a parlare.
- O che è questo picchio nell’orecchio? che sia effetto del sangue?
In quel dire alzava la testa dal guanciale. Il picchio non pareva più un picchio, ma sì un martellare di campane, al quale si aggiunse un altro suono, noto, terribile, quello del corno, sorta di nicchio marino, di cui in quei tempi, come s’usava in Corsica, andava nei monti liguri provveduto ogni casale, sicché di ladri, d’incendi ? di lupi calati l’inverno, si mandava di valle in valle, rapida e lontana la voce.
- Ohe! - gridò allora sorgendo a mezzo, - la campana di Cairo stormeggia e questo è il corno! Signore aiutatemi!
E, balzando dal letto, senza stare a cercar co’ piedi le pianelle, corse a spalancar la finestra. Ma di subito, preso da più stretta paura, riaccostò le imposte e le tenne socchiuse quanto potesse guardar fuori con un sol occhio. In quella il cascinaio, i figli, chi dalla porta, chi dai finestrelli, porgendo il capo, si mostravano anch’essi.
- Dunque che cosa accade? - chiese ansando il signor Fedele - ne sapete qualche cosa voi?
Per tutta risposta, uno di quei villani, che s’era insino allora rattenuto per non destare il padrone, scoppiando dalla voglia, precipitò sull’aia, si recò alla bocca il corno, e ne trasse un muggito così pieno ed acuto, che al signor Fedele parve sentirsi una cannonata nel ventre.
- Ti pigliasse il canchero, te e il tuo corno! birbante: mi vuoi far morire le donne? Buttalo al diavolo!
A queste parole il giovanotto stette come allibito. Non aveva mai inteso il padrone porsi in bocca quelle parolacce. Gettare al diavolo quell’arnese che s’adoperava anche a chiamare in chiesa i fedeli, gli ultimi giorni della Settimana Santa, quando le campane sono legate, e le tabelle sonano le ore! Non osò soffiarvi dentro una seconda volta, ma intanto, per tutta la valle, qua e colà, fu un muggire d’altri corni, un apparire di lumi sulle coste, un chiamarsi da luogo a luogo, un interrogarsi, un rispondere guerra, Francesi, finimondo, tutto nel buio. La campana del convento vicino cominciò anch’essa a suonare a stormo; e quella d’un villaggio, sulla montagna, che chiudeva la vallicella, rispondeva a questa, o forse ad altre della vallata sinistra della Bormida, mentre l’alba spuntava e pareva quella del Dies Irae.
Damigella Maria e Margherita, non è mestieri dirlo, s’erano levate sin dai primi rumori, e Bianca, dimenticato il divieto di venir fuori della sua stanza, correva con esse spaventata. Tutte e tre si facevano intorno al signor Fedele che s’era messo in gamba le brache e in dosso un giubbarello; e, appena mezze vestite, scarmigliate, piangenti, lo supplicavano, lo rattenevano, che non uscisse di casa. Egli, standosi tra Bianca, che colle mani giunte sulle spalle a lui si abbandonava in atto di grande dolore, e Margherita che l’abbracciava alle ginocchia, non avendo forse avuto neanco in mente d’uscire, sclamava:
- Come? La terra del mio re sarà coperta di nemici, e si potrà dire che io non son corso a far testa? Via dame, che non voglio perdere la grazia di Sua Maestà per le vostre lagrime! Via da me, voi, ingrata figlia! Che importa di me a voi? se in dieci giorni, mi avete fatto invecchiare di dieci anni?
- Pietà, pietà babbo - dicevano le fanciulle - non vada, non vada o ci conduca...
- Voi... io... pietà... - rispondeva il signor Fedele dibattendosi fra le donne - ne avete voi per me, quante siete? Pietà di me l’avranno i Francesi che toglieranno dal mondo il più infelice dei padri...
Diceva così sperando di dar a Bianca un gran colpo; ma vedendola niente disposta a dirgli «padre farò quel che vorrà...!» diede uno squasso sì forte, che mandò questa a cadere, e, levandosi Margherita da’ piedi, stette un momento che aveva l’aspetto d’un vecchio re, che si sgombra il passo tra le sue donne, per andarsi a gettar tra i nemici a morire.
Discese sull’aia, al colono che gridava - i Francesi! i Francesi! - dié sulla bocca una gran palmata, ruggendo: - bugiardo! Te n’andrai dal mio servizio! - Poi si rifece sopra se stesso, e, crescendogli il cuore sino alla gola, comandò ad uno dei figli del contadino si mettesse la via tra piedi e corresse a Cairo a vedervi un poco a qual segno fosser le cose.
Ma non fu mestiere che questi partisse, perché già da ogni parte discendeva gente dai monti; gente usciva dai seni della vallata: drappelli di là, venivano a farsi grossi sulla via maestra, traendo verso il convento dei Minori Osservanti; l’affrettarsi, il tumulto, l’aspetto terribile di quelle turbe armate di roncole, di bidenti, di falci, e financo di vecchi schioppi raccolti nelle guerre spagnuole di mezzo secolo prima, si accordavano in guisa tempestosa alla furia di parecchie donne che aizzavano gli uomini e agli atti dei frati agitanti in aria i crocifissi, gridanti guerra e morte, da forsennati. Man mano che la gente arrivava, faceva sosta attorno ad un rialto, e chi mandava baci alla campana del convento, che dindonava rabbiosa anch’essa, chi spiegava al vicino la faccenda com’era, chi più voglioso di andare gridava si andasse, quando venne oltre il guardiano, uomo venerabile per lunga barba, e per la bella salute, che, ad onta dei molti anni vissuti gli splendeva sulle guance.
Egli fece far silenzio alla moltitudine, levò dalla manica un foglio, e vi lesse ad alta voce, come predicando. Era il bando del Re che comandava ai sudditi di tenersi pronti al primo squillo di campana.
- Lo squillo di campagna è dato - gridò il guardiano, quand’ebbe letto - è dato qui, a Cairo, a Dego, per tutto in questa valle e nell’altre! Armiamoci e andate, o popoli, che Dio v’accompagni, a sterminare i giacobini che vogliono discendere fra voi, a vuotarvi i granai, a contaminarvi le donne, a porre le mani nel sangue dei vostri sacerdoti! Volgetevi da quella banda (tutti si volsero a guardare i monti di San Giacomo e del Settepani, che si vedevano assai bene, ammantati dal verde primaverile) vedete lassù? Ciò che ora è verde diverrà rosso come sangue; e dove oggi nascono i fiori passeranno i demoni, e ne verrà un odore di inferno da rimanerne affogati...! popoli all’armi... ecco lassù il Signore che ci fa segno d’essere con noi!
I poveracci non videro il Signore, ma credettero al frate. E, - andiamo, andiamo! - cominciarono a urlare - Dio è con noi! Viva Dio! Morte ai Francesi! Viva noi! Viva il Re! Il primo giacobino che mi dà tra i piedi lo strozzo, fosse mio fratello. Lo mangio, fosse mio padre! Morte ai giacobini!...
Fra questo tempestare di viva e di morte, si fece udire una voce su tutte gridar chiaramente: - E chi ci condurrà? -
E un’altra voce rispose: - I nobili, i signori! Passeremo per Cairo, v’è il signor Francesco, il signor Crispino, il conte, don Luca, verranno con noi, anzi li troveremo belli e pronti...
- E chi ricusa, a morte!
In quella il signor Fedele, voglioso di sapere, e fidandosi troppo, giungeva ad una svolta della via vicino un trar di pietra. Udire quelle grida, arrestarsi come avesse dato del petto in una rupe, fu tutt’una cosa: porse orecchio un tantino. - Come? - disse tra sé - i signori vi hanno a condurre alla battaglia? Acchiappami se puoi, ché io vengo. - E, pensando di non essere stato veduto, diè di volta, correndo verso la palazzina, nei fossati, curvo e spedito. E si teneva certo del fatto suo, ma il guaio fu che qualcheduno, o donna o uomo, l’aveva scoperto, e s’era messo a gridare:
- Sì! sì! i signori, eccone laggiù uno...
- Il signor Fedele, l’avvocato! e’ fugge... dàgli dàgli... lo vogliamo con noi!
- E vecchio! - diceva un frate.
- Ed io son giovane? - rimbeccava un contadino.
- Ed io son più vecchio di lui! - gridava un altro di quei furibondi - ho moglie e figli, e terre al sole per me il Signore non ce n’ha messe...
Con questo vociare, una dozzina di villici si lanciarono alla volta della palazzina, agitando le falci, i forcoli che brandivano e chiamando a nome il signor Fedele.
Questi, toccata la soglia, s’era volto addietro alle grida; e al luccicare di quelle armi, credette di sentirsele cascare sul capo, entrare nelle reni, fredde, diaccie, si vide fatto in pezzi a dirittura, e peggio che nel sogno della notte innanzi.
- Son morto! - sclamò, e chiuso l’uscio a due mandate, tirò il catorcio, mise la stanga, non istette a rispondere alle figlie venute incontro piene di terrore, ma, per un andito scuro si cacciò in cantina, si buttò carponi, e, squarciandosi i vestiti, e insozzandosi le mani e il viso, spingi, ponza e rispingi, potè rannicchiarsi sotto un tino, donde mandò fuori rangoloso queste parole alle figlie:
- Se non mi volete morto, andate via di qua...! Via...!
Subito un gran rumore di colpi, menati contro la porta, fece ammutolire le poverette, e più terribili dei colpi si udirono queste grida furiose:
- Fuori il signor Fedele! Aprite, vogliamo lui! Siam della valle! Veniamo a pigliarlo per capitano! Vogliamo che ci meni ad ammazzar i Francesi! daremo loro come ai cani arrabbiati... al lupo.. al diavolo in carne!
Le voci diverse sonavano d’ogni parte intorno alla palazzina, né valeva il cascinaio a far che quei bifolchi smettessero dal gridare selvaggio. Ché anzi, alle due fanciulle, da dentro, pareva girassero cercando modo di salire sulle finestre. E stavano strette l’una all’altra, aspettandosi ad ogni istante di vederli entrare quando cessò il vociare, e, porgendo orecchio, udirono la parola soave della zia Maria, che si volgeva alla fiera brigata da una finestra del primo piano. Costoro, vedendo quel viso di donna cieca, sicuro, innocente e quasi di fanciulla, stavano a bocca aperta ascoltando, tornati in quel rispetto che avevano sempre avuto per la famiglia del signor Fedele, e già vergognavano d’aver osato tanto. Diceva la cieca:
- Buona gente, abbiate compassione delle mie nipoti e di me; già mi pare a. le voci conoscervi tutti. State quieti, voi cercate di mio cognato, ed egli non è qui...
- Come? non l’abbiamo visto coi nostri occhi? - diceva uno della brigata, quasi consigliandosi coi compagni. E un altro: - Ehm! pareva anche a me che avessimo preso abbaglio... Il signor Fedele sarà a Cairo, nevvero signora damigella Maria?
- Sicuro, è a Cairo - usciva a dire un terzo, togliendo alla cieca il pericolo di dire una bugia: - passeremo di là e lo cercheremo... lei capisce, signora, che se alla fine delle fini, non siamo guidati, noi ignoranti siam buoni a nulla...
- A rivederla, signora Maria, stia di buona voglia, che i Francesi sin qua non verranno; e se qualcuno volesse farle male, ci faccia chiamare anche a mezzanotte, che siamo tutti per lei.
Così diceva un quarto e, con questa e con altre scuse e profferte, si allontanarono sberrettando si come se la cieca avesse potuto vedere quei loro atti rispettosi. E con essi volle partire il cascinaio, conducendo seco il maggiore dei suoi figli, tra le strida della moglie e delle figliuole, che fecero intorno alla casa un piagnisteo.
Tornati quei furiosi al convento, la compagnia potè mettersi in cammino. Con alcuni dei frati presero la via di Cairo cantando a squarciagola, e levando un gran polverio. Di tanto in tanto qualcuno dava nel corno e a quel suono rispondevano altri corni da altre vie dove si vedevano altre brigate, volte del paro verso Cairo. Questo era luogo di gran convegno, perché il parroco vi aveva dignità di vicario foraneo; vi sedeva il magistrato del Re per la giustizia; il borgo era come la capitale delle Langhe, e giaceva in sito da potervisi raccogliere gli stormi di tutta la vallata, per quindi moversi alla gran ventura.
Tra questi stormi, uno ne veniva numeroso per la via maestra, lungh’esso l’opposta riva della Bormida; e se non fossero state le armi, che si vedevano luccicare, pareva una di quelle processioni, le quali Si solevano fare appunto in quella stagione, per implorare dal cielo i buoni raccolti. Cantavano litanie e salmi e ogni poco prorompevano in urli feroci, come per tener deste le ire, e innanzi a tutti cavalcava un prete.
- Quelli là hanno a essere quei di Dego; li conosco; conosco la giumenta del pievano... - dissero a un tempo due o tre della brigata venuta dal convento; - se da tutte le pievi ne vengono tanti, ci troveremo a Cairo parecchie migliaia. Viva il pievano di Dego!
- Viva San Francesco! - risposero quelli che erano proprio di Dego, e il pievano levò in alto il cappello, a salutare tre volte, coll’atto di un generale.
Don Apollinare, in quel momento eroico della sua vita, si rifaceva gongolando delle cose patite nell’ultime settimane. Le sue pene erano state tante, che dal giorno in cui gli era capitata la lettera del rettore di Montefreddo, aveva perduta del tutto la bella pace goduta tant’anni; e quando il padre Anacleto, dopo la domenica in Albis, l’ebbe abbandonato per tornarsene al suo convento, si sentì cadere le braccia. Il suo pasto si venne assottigliando, le notti si svegliava scosso da visioni che avrebbero fatto incanutire un leone; il presbiterio gli pareva un aculeo, Placidia un ingombro fastidioso tra i piedi, la calata dei Francesi un’uggiosa minaccia che gli faceva dire: - o dentro o fuori una buona volta! - Pur di finirla in qualche modo, accadesse quel che doveva accadere, ma alla lesta: e stava pronto, la giumenta colla bardella addosso, e la briglia lì appiccata al chiodo; sicché il bando reale lo trovò, sto per dire, coi lembi cinti e col bastone in mano. Lo lesse una, due, tre volte sospirando: ma, fattosi animo, si picchiò sul petto una palmata e proruppe:
- Oh! alla fin fine, anche questo è un rimedio: avvenga che può: meglio morire d’una cannonata che a furia di punture di spillo!
Venuto l’ordine di far la mossa, messosi d’accordo coi signori del borgo, i quali, pur non volendo, mostravano i segni della mala voglia, mandò gente per la Pieve a dare la posta per l’indomani sul sagrato, che tutti gli uomini atti alla guerra vi venissero con armi e munizioni. Il tramestio fu grande e la notte egli potè vedere, dall’alto del castello, correre i lumi in ogni parte della campagna. Gli parve d’avere sulle braccia un mondo, e, fatto venire a sé il sagrestano, gli disse:
- Mattia, domattina si va... Un’ora prima dell’alba darete dentro a suonar a stormo... O perché ciondolate...? che avete paura?
- Paura io che ho fatto tremar mezze le Langhe? - rispose Mattia trascinando le parole.
- Dunque siete briaco?
- Oh! signor pievano - rimbeccò Mattia, quasi offeso; e spingendo innanzi un piede, si provò a reggersi ritto sull’altro; ma vacillò, vacillò sicché per poco non andò a cascargli addosso.
- Schifoso! - urlò il pievano levandosi in piedi; - briaco la vigilia d’un giorno in cui potremmo morire! Levatevi di qui... e se domani non sarete a segno, mal per voi!
Mattia partì; e camminando tastoni per l’andito, passò dinanzi all’uscio della cucina. Placidia che stava là dentro, sospirando l’ora di poter andare a letto, e dicendo il rosario colla coroncina tra le mani sotto il grembiale, indovinò che Mattia era in disgrazia, e gli disse dolcemente: - Tiratevi dietro la porta. - Egli obbedì, e tirata l’imposta dell’uscio da via, misurò contro quella i pugni chiusi, esclamando: - Non dà un Cristo a baciare in tutto l’anno, e se si beve, pare che si beva del suo! Sta pure, che, se andiamo alla guerra, ti farò vedere il diavolo nell’ampolla!
Entrato nella sua catapecchia destò la moglie e le comandò di tenere l’orecchio all’ora, e un tratto prima dell’alba lo destasse, poi si coricò vestito sul giaciglio, e, con le tempie martellate dal vino, cominciò a russare. Don Apollinare, messosi a giacere per riposare, quelle poche ore le passò fantasticando; e stava per addormentarsi, quando squillarono i tocchi della campana martellata a stormo da Mattia, che, con la spranghetta al capo, aguzzava dal campanile gli occhi nel crepuscolo mattutino. Tutta la campagna era un moto di villici; là, come nella valletta dove giaceva la villa del signor Fedele, come sarà stato in tutte le pievi, era un accorrere, un gridare, un chiamarsi, un suon di corni che non finiva. Il pievano balzò dal letto e si diede attorno a vestirsi, stupito di se stesso, perché gli pareva sentirsi dentro un cuor di guerriero, nascosto, sino a quel giorno, a sua insaputa, sotto la zimarra del prete. Placidia, venutagli in camera a vedere se gli bisognasse nulla, meravigliava anch’essa dell’aspetto sgherro di lui; ma, come egli badava a vestirsi, si ritrasse vergognosa in cucina ad ammanirgli il caffè, che poteva esser l’ultimo. - Placidia, io parto - le diceva egli venendo sin sulla soglia della cucina e abbottonandosi la sottoveste: - l’avvenire è nelle mani di Dio; voi rimarrete qui, rispettata da tutti... e, ad ogni evento, nel mio inginocchiatoio troverete di che vivere... ah! son pur venuti i giorni amari!
La povera donna imbambolò, più pel suono della voce insolita ed amorevole, che per le parole; e intanto la campana continuava a suonare, e il sagrato a popolarsi, e l’ora della partenza a farsi vicina. Allora il pievano mandò un ragazzo a prendere il posto di Mattia sul campanile, e fece dire a costui che scendesse ad arnesargli la giumenta, e al popolo che, aspettando, cantasse il Vexilla.
Un urlo, che parve di selvaggi, tuonò sul piazzale, destando un’eco solenne dalla chiesa; poi s’intese l’inno cantato da voci gravi diverse; e, ad ogni tratto nuova gente, signori e villani alla rinfusa, si mettevano in coro. In mezzo alla folla si vedeva Mattia, che teneva a mano la cavalcatura del padrone, tastando cinghie, rivedendo ardiglioni, parlando alla bestia, quasi per darle ad intendere dove l’avrebbe condotta.
Alfine, avendo bevuto il caffè, ed essendo l’ora di porsi in cammino, il pievano apparve sulla soglia del presbiterio. Aveva indosso una giubba smessa, in gamba certe brache vellose e rattoppate, e, in un fagottino, recava la talare, ché poteva accadere d’averne mestieri. Appena fu visto, scoppiò un gran battimani; ed egli, ringraziata co’ cenni la folla, aiutato alla meglio, montò a cavallo. Poi, data un’occhiata a Placidia rimasta alla finestra, piangente e sbalordita, tese la mano e sclamò: - Dio è con noi! Ci siamo tutti? Andiamo!
Discesero di castello, e trovarono al piano altra gente con armi e forcole e falci, cento maniere d’arnesi da far sangue. Le donne benedicevano dalle finestre e dalle porte; i fanciulli si mettevano in brigata, le madri li tiravano fuori sculacciandoli; e la signora Maddalena, guardando dal suo piazzale quel moto confuso, ringraziava il cielo che Giuliano fosse lungi da casa. Vedeva quella turba irta di armi e quegli stendali delle confraternite drappellati come dalle braccia di pazzi, e raccapricciava. Marta, standole vicina, si doleva di non essere un uomo per poter andare contro i Francesi, e non fu quieta che quando lo stormo sparì e la campana cessò di suonare.
Avesse suonato a lutto tutto quel giorno, e sarebbe stata giustizia. Perché la gente di Dego, nel passare per la prima terriciola che trovarono, fu come la maledizione di Dio. E sì che il villaggio si poteva dire tutt’una cosa col loro borgo, tanto erano vicini; ma trovate le case non difese, per avere gli uomini fatta anche essi la leva in massa verso Cairo, cominciarono a pigliarsi brutti spassi, a spaurir le donne, a mandar a male il vino nelle cantine, a guastar alberi ed orti; e se don Apollinare non si fosse adoperato a rabbonirli, certo sarebbe rimasto poco da fare a quei Francesi, dei quali s’andava a impedire la calata e si dicevano tante ribalderie.
Come piacque al diavolo, ripresero la via verso Cairo, dove arrivarono, come abbiam veduto, che il sole era già alto. Il borgo pareva un formicaio. Vi si lavorava a più non posso a far cartocci, ad affilare vecchie armi d’ogni generazione. Chi faceva scrivere, chi dava carta, o la pigliava, dei suoi negozi dinanzi ai notai, stando per andare tra la vita e la morte; sotto i filari d’olmi si davano le cariche ai maggiorenti, che pigliavano diletto ad essere elevati SU su, grado grado, ai più alti onori della milizia, generali, colonnelli, capitani: guai al popolo se avesse dovuto provvederli tutti. Tuttavia le cose correvano onestamente, ma, fra la moltitudine, s’aggiravano certi ceffi, furfanti da bosco e da riviera, segnati nei libri della giustizia, che adesso ripigliavano ardimento e parevano i più valorosi. Alcuni ribaldi affollavano la porta chiusa del caffè di Marocco. La moglie di costui tribolava in mezzo ad essi lagrimosa, supplicando pel marito, che, poveretto, stava morendo, e aveva in camera il prete che gli raccomandava l’anima.
Povero Marocco! Due giorni innanzi gli avevano dato schioppo e cartocci, che stesse pronto a partire. Ma il meschino, a vedere quell’arnese, si era sentito giù per la schiena come un secchio d’acqua, e, fattolo portar di sopra, stette un poco rannicchiato vicino al fuoco; poi, levatosi in piedi pallido come un morto di tre giorni, prese la moglie in disparte e le disse: - Tasta che cuore! Sono un uomo morto! - Postosi a letto e chiamato il cerusico, né questi seppe trovargli il male, né egli volle dirne la cagione; ma non tolse più gli occhi da quello schioppo, la baionetta del quale scintillava in un angolo della camera e gli pareva l’occhio di un assassino. Chi l’avrebbe mai detto! Un uomo par suo, che aveva sempre avuti in casa soldati, s’era messo in capo che quello schioppo l’avrebbe ucciso; e, poveraccio, moriva proprio in quel punto che un suon di tamburi, di corni, di trombe, un vociare di signori ornati di grandi pennacchi, annunziava che lo stormo dei guerrieri della religione e del trono moveva contro la Francia.
Movevano, ma fu gran fatica pei condottieri montati sull’asine e sulle giumente, tutte nappe e sonagliere, meglio che nella festa di sant’Antonio. La moltitudine strepitava, camminava come gualdana infernale; miscuglio di entusiasmo, di vero valore, e di grosse millanterie. Qua cantavano salmi o canzoni popolari; là procedeano silenziosi ascoltando qualche novellatore; alcuni recitavano il rosario tenendo in mano certe corone dai pippori così grossi da poterne, all’occorrenza, far palle da schioppo. E su tutte quelle teste si vedevano l’armi appuntate al cielo. Erano più di due migliaia, e avevano un’aria terribile e selvaggia.
Su su, a quel modo, per val di Bormida, si misero nelle strette, dove il torrente rovina con rumori strani, fra massi ispidi e smisurati. Il sole andava sotto quando i più volenterosi toccarono le vette del monte di San Giacomo, sopra il Finale. Sul mare, che si scopriva innanzi, biancheggiavano vele verso Provenza, vele verso Portofino, vele per tutto il golfo; mirabile alla vista pei mutamenti dei colori di cui s’andava tingendo. Quelle erano vele inglesi, napoletane e francesi, che si davan la caccia in alto; mentre molti legni sottili di genovesi avidi ed audaci, navigando marina marina, recavano provvigioni verso la Francia affamata.
Lassù i nostri battaglioni fecero la loro fermata in sul tramonto, quasi stupiti che il sole osasse discendere come tutti gli altri giorni. Dalla vetta del San Giacomo e da quella del Settepani, non si vedeva che gente, stendardi e croci, non si udivano che grida; pareva la tregenda. Don Apollinare seppe del rettore di Montefreddo e d’altri preti, suoi amici, venuti lassù coi popoli delle due vallate della Bormida, e ne provò consolazione. Ma quel che più gli piacque fu la notizia che i Francesi non erano molto vicini, e, prima d’arrivare sino a lui, avrebbero avuto a sbrigarsela colle soldatesche piemontesi e alemanne. Gli parve di potersi riposare tranquillo a pie’ d’una rupe trovatagli da Mattia. Tuttavia l’ora della sera gli volgeva la mente al suo presbiterio, al desco, a Placidia; persino a Placidia, per la quale sentiva in quel punto un affetto non mai provato.
Mattia intanto sbocconcellava un po’ di focaccia e aveva intorno un capannello di compaesani che si facevano narrare da lui le prodezze della sua vita; perché egli era stato, da giovane, bravazzo ai servigi dell’ultimo signorotto d’una terra vicina a Dego e si diceva di lui che la mira dell’archibugio l’avesse posta bene più d’una volta. Ma erano memorie lontane più di quarant’anni, e di quelle sue ribalderie egli dava carico a personaggi di fantasia, o al suo padrone. Adesso raccontava la mala morte di questo, e diceva ai villici, tutti orecchi ad ascoltarlo:
- Era un vecchio, ponete come son io, ma robusto e prepotente. Un giorno, certo giovinotto, tornava dalla chiesa dove si era sposato alla più bella ragazza della parrocchia. Il marchese si fece incontro agli sposi e alla comitiva, chiedendo i suoi diritti…
- Che diritti? - gridò il giovane stizzito - quelli forse di andar all’inferno? - E lanciatosi contro il marchese coi pugni stretti, gli diede un punzone così forte nel petto, che il povero diavolo andò ruzzoloni e precipitò in un borro, tutto rovi e sassi, sfracellato morto, che non ebbe il tempo di dire Amen!
- E voi? - gli chiedevano gli uditori.
- Io? Io mi affacciai al precipizio, guardai, inchinai gli sposi, poi feci nell’aria un gran crocione, e, addio vicini, mi tramutai. E venni nel vostro paese, dove mi misi col pievano defunto, e vi ho seppelliti mezzi, e ho fatto gran bene all’anima mia. Nevvero signor pievano?
- Sta bene, sì, sì... - disse don Apollinare, vergognoso di vedersi usare dal sagrestano tanta dimestichezza. Ma avendo bisogno di tenerselo amico, trangugiò quel boccone.
Intanto, venuta la notte, s’avvolse per bene nel ferraiuolo, molto raccomandandogli di vegliare. Mattia gli si sdraiò vicino, facendo conto di dormire con un occhio, e di contare le stelle coll’altro.