L’indomani, un po’ dopo l’alba, don Apollinare stava sotto il portichetto della chiesa, con parecchie divote che avevano sentito la messa; lo speziale apriva la bottega, e, uscito a vedere che tempo facesse, si mescolava al crocchio: un uomo attempatetto, che era il cerusico, montato su d’un cavalluccio, si fermava a barattar con essi qualche parola, sul fatto della sera innanzi: parevano l’ultima nuvola d’un temporale notturno, risolto da un vento benefico, in un mattino quieto.
Marta, che manco per mezzo mondo, non avrebbe lasciato nella propria vita il vuoto d’una messa perduta, perché le sarebbe parso di non poter più fidare tranquilla all’eternità, aveva penato a non trattenersi a dire anch’essa la sua; ma s’era fatta forza, e discendeva dal castello frettolosa per giungere a tempo se la padrona e don Marco, levandosi, bisognassero di nulla. E camminando le pareva di aver sognato, su quello che le era stato detto dalla signora, che Tecla, da quel giorno in poi, in cambio di andare a pascere il branco e a spigolare dietro i mietitori, sarebbe rimasta in casa come una figliuola. Il villano che per pietà prese la serpe in seno, al sentire di Marta, non se n’era di certo pentito come si sarebbe pentita la signora, inconscia del capriccio annestato in capo alla figlia di Rocco. Eppure non poteva avvisarla, non poteva dirle che badasse bene. Perché don Marco l’aveva consigliata a tacere quel suo sospetto; e per essa contradire un prete, se proprio non v’era tirata pei capelli, valeva quanto usare scortesia ad un angelo del cielo, se l’avesse incontrato per la via, come ai tempi d’Abramo.
Giunta a casa, trovò che la padrona, don Marco e Tecla, facevano colazione, sebbene non fosse ancor l’ora! e vedendo che la fanciulla, servito il latte, ed affettato il pane, sedeva a mensa con essi, assai ben composta, capì con dolore di non esser necessaria là dentro; ingelosì, corse in cucina e forse pianse. Tecla si era accorta dell’animo di lei, e dalla confusione manco non aveva osato levare gli occhi a guardarla. La signora e il prete non badarono ad esse, occupati l’una a pregar l’altro a rimanere, mentre questo si schermiva, e persisteva nel voler partire; e, alla fine, si accomiatava che poteva essere un’ora di sole.
Passando dinanzi alla casuccia di Rocco, vide costui che dava dentro nel pestello a fare un savoretto d’aglio da spalmar la polenta, e capi che il pover’uomo, mezzo scornato la sera innanzi, stava sulla porta e pestare, perché le donne del vicinato lo vedessero, e fossero persuase che in casa sua v’era tutt’altro che guai, dacché vi si scialava a mangiare. Lo salutò senza potersi tenere dal sorridere di quella semplicità; e Rocco e la sua moglie riconoscenti, per poco non gli chiesero Sa benedizione come ad un monsignore.
Indi a poco Anselmo, fatto chiamare dalla signora Maddalena, giungeva a cavallo sul piazzale. Questa, afflitta per l’addio di don Marco, gli diede la lettera di lui da portare ad Alba, al gastaldo della marchesa di G..., coll’incarico di dire a costui che la mandasse alla sua padrona di Torino. Anselmo, avute le raccomandazioni e alcune monete, levò il trotto allegro come il sol di maggio; e, poi che fu sparito, la signora Tecla e Marta si ritirarono in casa, ognuna pensando a Giuliano secondo il proprio cuore, meste come se quella solitudine in cui rimanevano non avesse dovuto mai più finire.
In quanto a Giuliano non avveniva di lui come di tanti, che, mentre a casa loro si sta dì e notte in pena per essi, cercano lontano gli spassi e la lieta vita, badando a fare i magnifici della roba sparagnata dai parenti. Davvero se fosse stato a D .., sotto gli occhi di sua madre, non avrebbe potuto essere più raccolto, né più severo di vita, e dal dì del suo ritorno a Torino, che facevano appena due mesi, s’era così mutato, da mostrare qualche anno di più. Seguiva di lui come di certe fanciulle, che, dall’oggi al domani, ti capitano innanzi indonnite, e pareva un uomo, che già avesse trovato il suo da fare nella vita. Non era malinconico, sì che altri se ne accorgesse, ma schivava ogni spasso; taciturno e solitario, invece d’uno scolaro, che non vedeva l’ora di potersene tornar medico alle sue montagne, lo si sarebbe creduto uno dei tanti fuorusciti francesi, che, di quei giorni, andavano randagi, coi segni in viso di lutti domestici, o di sconfitte toccate alla loro parte. Faceva le sue passeggiate per le vie più deserte della città; desinava or qua, or là nelle osterie più basse, per ascoltarvi i discorsi dei popolani, i quali già osavano sussurrarsi qualche parola, e mostrarsi vogliosi di vedere i mutamenti del mondo. Ma, il meglio delle sue giornate, studiava nella camera, che aveva presa a pigione sui lembi della città, dalla banda della fortezza; luoghi memori dell’eroismo di Micca, i cui discendenti non so se rosicchiassero ancora il tozzo di pane, dato dai re in memoria del prode. Di certo gli accadde più d’una volta di meditare sul gran gesto del popolano canavese, e di vederne l’ombra passare nelle tenebre, colla miccia in mano, e coll’anima immortale tutta negli occhi. E, pensando ai Francesi combattuti da lui, e a quelli che adesso si affacciavano all’Alpi, gli parve che, a mutare l’ira dei popoli in fratellanze durature, non mancasse che un po’ più di luce nelle menti delle moltitudini.
Il mattino e la sera soleva salire sulla terrazza della casa; e di lassù pasceva l’animo contemplando. E talora sprofondava lo sguardo nelle valli delle Alpi, velate d’azzurro vaporoso nelle lontananze; e colla fantasia trovava in seno ad esse, i villaggi, sorgenti in mezzo al verde di prati irrigui, o fra macchie di pini. Sulle case vedeva levarsi i campanili delle chiese, e, all’ombra di queste, serene figure di vecchi parroci, sedere fra i borghigiani, poveri e degni di riverenza. Ma la memoria di don Apollinare, subito gli guastava nella testa la dolce visione. - Illusioni, illusioni! - diceva; tali quali si fanno, i preti sono tutti d’un modo; noi ce li figuriamo sacerdoti, e in cambio non sono che uomini, i quali fanno un mestiere.
Spingeva allora quello sguardo dalle valli basse alle altissime vette; e si pregava di essere un pastore, d’avere lassù sua madre e Bianca, per vivervi con esse d’amore, di meditazione e di libertà. Poi si volgeva dalla parte di mezzodì, cercando, nell’orizzonte, gli Appennini nativi, sebbene sapesse di non poterli scoprire; e così rimaneva lassù sin che facesse notte, e la città e i colli che soggiogano il Po, cominciassero a brillare d’innumerevoli lumi.
Fantasticava quali di quei lumi rischiarassero le quiete delle famiglie, quali il piacere, lo studio, il dolore, e quali la morte. Allora lo coglieva un’onda di pensieri lugubri; e se qualche rintocco
di campana gli veniva da lungi nell’orecchio, provava un’amarezza soave e pensava alla religione della sua giovinezza come ad un bel sogno, che non gli era dato rifare. Altrettanto gli accadeva, passando la sera dinanzi a questa o a quella chiesa. I suoni dell’organo gli avevano molte volte rotto il passo e si era fermato. L’ombra che piena di misteriosi inviti, avvolgeva i divoti, la luce tremolante che, diffusa dall’altare, si frangeva nel fumo degli incensi, la voglia dei ricordi infantili serbati nel cuore, tutto gli faceva forza. Ma ecco il ricordo delle sue vacanze di Pasqua, ecco l’immagine di don Apollinare affacciarsi di nuovo alla sua mente, ecco quelle di tutti i preti a lui noti; e, sola tra tante, la umile e mesta figura di don Marco, che gli paresse spirar qualcosa della religione predicata dal clero. Allora egli tirava oltre, pensando se mai fosse venuto sulla terra un sacerdozio veramente cristiano; e finiva ricoverandosi nello ospedale, cercando il letto dell’infermo che fosse più giù della vita, e medico a un tempo e consolatore, vi stava la notte intera. E se su quel letto discendeva la morte, le parole - parti, o anima cristiana... - suonavano all’orecchio del moribondo sentite, piene, feconde. Persino gli infermieri piangevano, perché pareva loro di non averle mai udite, nel modo che quel giovane, selvatico e fantasioso. sapeva dirle. Egli credeva.
Quelle notti, passate fuori di casa, avevano dato nell’occhio alla vecchia che gli appigionava la camera. Accostumata con giovani pigionali, che non si davano pensiero, se non di far buon tempo, pensava che qualche intrigo di basso amore, lo tenesse fuori fino a quelle ore insolite; ed era stata più volte ad un pelo di lagnarsi con lui, che non 1 aveva posta di mezzo in tali faccende. Se egli avesse indovinato i contacci, che colei faceva sui fatti suoi, ne avrebbe preso sdegno, come fanciulla dabbene cui venga usata villania disonesta, e, messo in fascio roba, libri, ogni cosa sarebbe tornato di casa altrove. Ma, in tutto il tempo che era stato là dentro, non aveva barattato con essa quattro parole; non le aveva mai dato appicco di dire più che il buon giorno, o la buona notte, augurio sibilato tra i denti lerci da quella arpia che gli porgeva la lucerna che egli pigliava camminando diviato in camera, senza badarle. Così ignorava di che pensare essa fosse, e come non avesse saputo porre gli occhi sopra di lui, giovane e bello, senza bruttarlo coi suoi pensieri.
Quella era una donna, che guardando il cielo stellato, non vi avrebbe visto più di quello che vi vedono le giovenche e gli alt: i animali; e Giuliano, casto come i veri forti, e pieno di amore per fanciulla lontana, cui si avvicinava col pensiero, ora per vie ridenti di fiori, ora per altre meste come quelle dei cimiteri, non meritava d’essere giudicato da lei. Ma questo era il minor male che gli potesse incontrare, perché, guai a lui, se essa avesse avuto naso più fino! Sarebbe andata ad accusarlo al bargello, e una bella notte avrebbe fatto lume ai birri. Egli s’era scritto ad una di quelle compagnie d’amatori di cose nuove, e usava trovarsi con essi ai notturni convegni.
Quelle compagnie erano già numerose, e, da quartiere a quartiere, da città a città, si cercavano, si davano l’intesa, si adunavano di segreto, crescevano ogni giorno di speranza e d’ardire. In quelle fratellanze misteriose, egli si vedeva accolto di gran cuore, come giovane di alti pensieri, d’animo pronto e devoto~ stimato dai compagni di studio come uno dei loro capi. E della scolaresca, i buoni s’ingegnavano di somigliargli; i chiassosi, diluviatori, sfaccendati, n’avevano soggezione; e nelle ore pentite pensavano a lui, invidiandogli quella sua bella natura. La parola di Giuliano suonava, in quei convegni, ricca di immagini, come sogliono averla i marinai ed i montanari: si capiva che tutto quello che egli diceva lo credeva, e che sarebbe morto per confermarlo, se fosse bisognato. Tutti gli leggevano in viso qualche segno, come di una potenza che dall’infuori gli governasse l’animo; ed era un occhio dolce di donna, che egli si vedeva dinnanzi, intento, amico, ispiratore. Quell’occhio lo accompagnava per tutto; sotto quella vista cresceva nella arte sua, s’afforzava nei pensieri di ribellioni generose; s’avvezzava sobrio ed austero, studiava, sperava ed amava; la scienza, la rivoluzione, sua madre e Bianca, erano i suoi amori. Di questa, in tutto il tempo che mancava da Dego, non aveva avuto né chieste novelle, non volendo risicare la illusione, per sapere cose che, delle due l’una, o erano conformi a quella, o tali da struggerla tutta. Pure gli avveniva sovente di non poter levar dal cuore una mestizia, che gli recava in malaugurio ogni cosa. Il parentado con Bianca gli pareva stornato da lunga pezza; immaginava che l’Alemanno l’avesse sposata in quei mesi, o fosse lì per isposarla; voci misteriose lo ammonivano dal fondo del cuore; di pensiero in pensiero, di dubbio in dubbio, andava tanto oltre che vedeva il corteo nuziale l’altare, il frate, i due felici alla balaustrata della chiesa di Cairo, là dove, fin dai primi anni che aveva vista Bianca, egli si era messo a sognare d’inginocchiarsi con essa, a darle l’anello.
Se ne sentiva al cuore un dolor di morte, ma subito il dolersi, il piangere, gli parevano lo sfogo dei dappochi, e gli balenava l’idea del ritorno improvviso. Tornare, sì, a casa; correre a Cairo, scendere dal signor Fedele, e, sposa o no, portarsi via Bianca. Ma... se fosse già di quell’altro - gli chiedevano quelle voci misteriose -se la fortuna ti pigliasse a gabbo, così che tu capitassi laggiù proprio a vederli in chiesa, a sentirli dire di sì... - Allora gli si levava dentro un fiotto d’ira, e sin che gli suonassero nella memoria le promesse di Bianca, portategli da sua madre quando era stata a Cairo in quelle vacanze di Pasqua, meditava cose lugubri. Tornata la calma, ripigliava lena a studiare; affrettava coi voti il giorno in cui sarebbe partito da Torino colla sua pergamena da dottore in saccoccia; gli bisognavano poco più che due mesi, e poi il signor Fedele e il suo Alemanno l’avrebbero visto.
Con questo frequente mutarsi di timori, di dubbi e di speranze, viveva e scriveva a casa ogni quindici dì, quando la posta correva: e, tra bene e male, veniva anche per lui la fine di quel maggio, nel quale, dalle sue parti, era accaduta la spedizione del popolo in armi al Settepani, la conversione di Bianca, l’assunzione di Tecla a più nobile vita: quel maggio in cui, per amor suo, la signora Maddalena non s’era manco accorta della bella stagione, né aveva sentito quegli inni che il cuore canta anche ai più miseri, e il labbro non sa ridire, né il poeta ha mai scritto.
Uno di quei giorni, che la lettera di don Marco alla marchesa di G... era capitata al suo destino, da una settimana, Giuliano stava alla finestra della sua cameretta, coll’occhio rivolto alla fortezza dove era insolito moto. Vedeva sugli spalti erbosi molti soldati e sui vasti piazzali un volgersi di schiere, un andare e venire di messaggeri, con quell’aspetto strano che avrebbe avuto un villaggio dove non fossero né femmine né fanciulli, e gli abitanti vestissero tutte ad una foggia, e non sapessero camminare se non armati, allineati in molti, stecchiti ed arcigni. Turbe di popolo traevano dalla città, e si fermavano a piè delle mura ferrigne, dal ciglio delle quali sporgevano molti cannoni a guisa d’animali che posassero, e luccicando al sole parevano mandare biechi ammiccamenti. A un tratto comparvero, dentro quelle mura, due uomini, accompagnati da un drappello di fanti, sino a mezzo lo spazio, e là sederono su due scranne, ciascuno con una persona nera allato, prete o frate. Giuliano senti, come se fosse stato al posto d’un di quei due, il peso degli sguardi di tutte quelle schiere; capì che erano condannati a morte, e sentì un rapimento dell’anima in alto, a guisa di aquila, che, turbata ed offesa, va a nascondersi tra le nubi. La scena, rimasta silenziosa un poco, fu mutata da un suon di tamburo; la folla, fuori la fortezza, ondeggiò commossa da quel suono; i soldati fecero un gran moto di braccia e d’armi: le sentinelle, uscite dai casotti sugli spalti, si atteggiarono a rispetto; qualche cavaliere corse su e giù dall’uno all’alto dei gruppi pomposi di pennacchi; poi il silenzio tornò lugubre. Allora un ufficiale s’appressò ai due condannati; si vide all’atto che strappava ad essi le divise, mentre un altro a cavallo pareva leggere un foglio, forse una sentenza: quindi si allontanarono e rimasero i preti, che bendarono gli occhi agli infelici, poi se ne staccarono anch’essi; e allora s’udì un fragore di molti tamburi e uno squillar di trombe, un nembo di fumo avvolse per un istante quei due; e subito, dissipato dal vento, li lasciò vedere distesi a terra... Si levò dalla finestra collo scompiglio nell’animo e, quasi senza avvedersene, sbattè le imposte e gli scurini in faccia alla luce, che non gli entrasse in camera, adesso che aveva rischiarato l’orribile scena. Poi si buttò sul letto bocconi, e, colla faccia contro il guanciale, stette tribolandosi in abissi di fantasmi, di luci stranissime, di deformità chimeriche. Indi a poco, irrequieto come per bevanda che lo turbasse, si levò da giacere, riaperse la finestra, provo un altro desiderio: uscire, andare a una lunga passeggiata, fuori la città; andare dove che fosse, anco lontano fin dove il vento arrivava a soffiare.
Uscì col fare di un uomo che, preso il broncio in famiglia, vada a gironzare per isvagarsi; ma, discendendo, trovò per le scale un tale, che aveva rondinato sulla via, mentre egli era alla finestra a guardare la scena descritta quassù. Costui soffermatosi a fargli largo, si scoperse il capo rispettosamente, e lo domandò del suo nomi: - Giuliano... da Dego - rispose il giovane, che non badava ad andare sconosciuto; e si fermò a guardare quell’uomo, il quale, inchinatosi un’altra volta, gli disse: - S’è tanto mutata, da quando non. l’ho più riveduta, che penava a ravvisarla. Come vede dalla mia livrea, io servo la eccellentissima marchesa di G..., la quale mi manda a cercare di lei da parecchi giorni, e questa sera la vuole nel suo palazzo.
- Ditele, in mio nome, che non mancherò di venire.
Il servitore fece la sua terza riverenza e s’accommiatò. Giuliano gli tenne dietro strologando su quello che la marchesa di G... potesse voler da lui, non tornato più a rivederla dalla prima volta ch’era venuto a Torino, due anni innanzi; e come fu sulla via, si lasciò portare dalle gambe, senza por mente verso dove.
Per chi sa quali varchi, che a noi non importa conoscere, riuscì di là del Po, dove i margini del fiume reale, la collina, il monte dei Cappuccini, gli parlarono delle rive modeste della sua Bormida e del castello di Dego, al quale il monte e il convento somigliavano un poco per la conformità e per la postura. Ma, non sapendo neanch’egli qual fosse desiderio suo, o invito che venisse dall’aria, pigliò la via che saliva lassù, e pareva quella che a Dego, per l’erta del colle, menava al presbiterio di don Apollinare. L’acciottolato, l’erta delle prode, l’ombra delle quercie, tutto v’era come a Dego; senonché là si abbatteva in frati che discendevano, in devote brigate che montavano e il colle pareva un luogo santo di pellegrinaggio. Al castello di Dego in cambio, salvo i dì di festa, non si vedevano mai che le stesse persone, i signorotti della terra, che menavano vita allegra e sconclusionata.
Giunto in cima, dove chi s’affaccia al muricciolo che cinge il sagrato, può secondo la natura sua accontentarsi di guardare la città sottoposta, o, per quanto gli vale l’occhio, ammirare la vista sterminata di pianure, di colli, d’acque, d’Alpi, si arrestò, crollò il corpo, diede di volta senza pur badare a quello spettacolo, in cui l’animo suo si sarebbe ricreato, altra volta, lungamente. Tornò a valle, infilò la via lungo la riva destra del fiume, verso Superga; anelò su e giù un poco come smemorato, poi, trovato un navicellaio, scese nel burchio e si fece traghettare all’altra sponda. Di là, per campi e per vie traverse, andò a porsi in un’osteria campestre, vi mangiò, vi bevè; s’allontanò quindi né tristo né lieto, e, per la parte opposta a quella che aveva passato ad uscire, tornò in città che il sole andava sotto.
Ridottosi in camera, si pose in gamba le sue migliori brache, indossò un panciotto ed un giubboncello di seta, ornati assai bene chi sopragitti lungo le occhiellature, alle pettine, ai paramani, calzò un paio di scarpini leggieri, e, tornato fuori, prese la via verso ii palazzo della marchesa. Là trovò una turba di servi a terreno, una turba su per le scale; e, in cima a queste, gli si fece incontro quel domestico, che era stato il mattino ad invitarlo. Costui lo fece entrare in una vasta sala, illuminata come una chiesa in tempo d’uffici, e lo accompagnò annunziandone il nome.
Giuliano si fermò sulla soglia un poco, e le orecchie gli fischiarono come ad uno che, rompendo improvviso in una battaglia, capitasse nel più fitto grandinare delle palle. Tutti quei crocchi, tutte quelle teste bianche che non si lasciavano scernere le giovani dalle vecchie, quegli occhi di donne, che si socchiudevano a sbirciare lui, gli fecero un senso tale, che, per poco, non diede di volta. Ma l. gentildonna padrona di casa gli mosse incontro, lo prese per mano, lo trasse in mezzo a quelle beate amicizie, le quali tutte accennarono garbatamente di non sgradirlo; poi se lo fece sedere allato, e, mentre i crocchi ripigliavano i loro parlari, essa si mise a discorrere con lui.
Egli era preso fra due: da una parte lo splendore dei doppieri, la magnificenza delle arazzerie e delle suppellettili, in cui era sfoggiato lo stile di non so quale Luigi; dall’altra le parole della gentildonna, che lo assaliva con una procella di domande, e di rimproveri, sul non essersi egli fatto vivo, da quella prima volta di due anni innanzi, sicché essa aveva creduto ch’egli, stancatosi di stare a Torino e tornato a Dego, non fosse più rivenuto. Giuliano a trovare scuse, a darle contezza di sé, de’ propri studi, di Dego, di tutto quello che la marchesa menzionava; e intanto i discorsi dei crocchi si facevano più caldi, più confusi, più alti, sul fatto seguito quel giorno nella fortezza, e sulla morte, meritata dal cavaliere di Sant’Amore e da Mesmer, che, comandando l’uno la fortezza di Saorgio nell’Alpi marittime, l’altro quella di Mirabocco, dalla banda di Savoia, le avevano date in mano ai Francesi. Moschettati per traditori, tutta Torino aveva parlato di loro; ma adesso, in casa alla marchesa, se ne parlava ancora, come tra persone che, nelle faccende dello Stato, avevano molto a vedere.
Giuliano teneva un orecchio alla gentildonna, l’altro a quei discorsi: e, ad ogni poco, il cuore gli si accapricciava. La disputa era venuta innanzi così calda che già si cominciava a chiedere d’un arbitro, che sentenziasse fra le due parti; delle qual’ chi s’accontentava della morte data col piombo ai due sciagurati, pur che fossero stati moschettati nelle schiene; chi avrebbe voluto che gli avessero appiccati alle forche, a guisa di coloro che assassinavano alle strade. Provò di essere là dentro uno sgomento indicibile: tutto quello splendore di arredi, di vesti, di vezzi scintillanti dalle gole e dai polsi delle dame, gli parve una cosa tetra; e quando una voce chiamò giudice lui, quasi per fargli capire che egli solo, non essendo nobile, poteva mostrarsi imparziale, purché parlasse col dovuto rispetto, e guardando da sotto in su, egli rispose: - Di quel che corra tra i diversi modi di morte io non so giudicare: questo so che, sino a quando la morte sarà data in pena a chi fa il male, essa parrà agli uomini, se non una cosa turpe, almeno il maggiore dei mali. Cost se ne oltraggia la santità, si allevano gli uomini codardi, e si fa della morte quel che s~ è fatto di tante cose santissime...! E poi, uno sia reo quanto si vuole...; più della colpa mi stupisce questo, che i più caldi a volerlo morto sono coloro che credono esservi un luogo nell’altra vita, dove lo spirito nostro si purga: ora se là, perché non si potrà diventare migliori anche qui...?
A queste parole si levò un bisbiglio somigliante al ronzio che farebbe uno sciame di api turbato improvvisamente nella sua pastura: e fu uno scontento, un volgersi di teste, uno scuotersi di code, uno scarpiccio irrequieto di gente scontenta. Giuliano, da qual parte mirasse, vedeva nasi agricciati, menti sporti, sorrisetti schifiltosi, ma non uno degnò di rimbeccare, come avrebbe meritato, quel plebeo, il quale aveva osato entrare là con in capo certi pensieri, su per giù come un villano, che vi fosse venuto colle scarpe inzaccherate.
Egli, semplice, sereno e non meravigliato, stette un poco a quella sorta di temporale: poi, rivoltosi alla marchesa, le disse, che se nulla avesse a comandargli, gli bisognava partire; e si levò anch’essa, gli dette a toccare la punta delle sue dita sottili e fredde; lo guardò bene, quasi per accertarsi se egli fosse davvero quel Giuliano di cui parlava la lettera di don Marco; e, avuto l’ultimo inchino lo lasciò che se n’andasse.
I servi stupirono di vederlo partire così in fretta; ma, quando egli fu nella via, diede una grande rifiatatona. La notte era molto innanzi; l’aria quieta. Si sentì allora come un pesce, che, sgusciato di mano al pescatore, dà due o tre saltelloni sulla spiaggia, e si rituffa nell’acqua: andò a zonzo una pezza, e si ritirò che era la mezzanotte. A vedere le pareti della sua camera, senza ornamenti salvo di alcuni quadri di santi, effigiati per modo da parere più alla tortura che fra le gioie del paradiso, fece paragone di quella sua abitazione con la sontuosissima della marchesa e con le soffitte, dove il popolo della città, allora come oggi, nasceva e moriva, sopra poca paglia, coll’orcio dell’acqua e il lumicino sepolcrale in capo al giaciglio. Gli parve d’essere agiato sin troppo, e, pensando a Dego e alla propria casa, che si poteva stimare una cosa di mezzo tra un palazzo ed una catapecchia plebea, più che ad abbellirla, si sentì tirato a farla modesta. Disegnando su questo a seconda dei pensieri che gli frullavano pel capo, si coricò; per destarsi l’indomani a ripigliare la sua vita di studio, di solitudine, di sogni d’amore: ma dalla marchesa non tornò più. Né questa se ne dolse: solo volle tenerlo guardato, per uno dei servi più fidi, vogliosa di far servizio a quella buona signora Maddalena e a don Marco. Seppe che nello studio, proseguiva ad essere riputato dei migliori, sebbene menasse vita selvatica e da uomo di sua testa; ma le dolse chiarire come nei libri della polizia, il nome di lui fosse notato assai nero. Però stette tutta occhi, perché, da quella parte, non gli seguisse niun male. Egli poi, nulla sapendo delle cure che la gentildonna pigliava di lui, diventava ogni dì più assiduo ai ritrovi misteriosi che ho rammentato, e cogli uomini, che di quel tempo erano tenuti in sospetto di voler un giorno dar dentro a rivoltare il mondo, stringeva amicizia, ricambiava promesse, attirando sopra se stesso i tanti pericoli, da cui coloro erano minacciati.
Di questo andare entravano giugno e luglio, colle loro giornate noiose e mai più finite; e Giuliano si vide, dì più dì manco, alla vigilia di tornarsene medico a quel suo Dego sospirato. Di sua madre ebbe in quel tempo due lettere, mute su Bianca, e però di cattivo presagio. Se ne doleva, fantasticando su quel silenzio; ma ne scusava la madre, come donna prudente, che non voleva mandar attorno il nome della fanciulla, confidato alla carta. Gli erano di qualche conforto le notizie che essa gli dava di sé, della vita che menava rassegnata, dello spasso preso in quelle sue lezioni date a Tecla, della quale diceva che se la aveva tirata in casa, e che n’era lieta, perché cresceva di gentilezza ogni giorno, sicché egli nel tornare non l’avrebbe più conosciuta.
Queste cose piacevano al giovane, perché s’accordavano coi suoi pensieri, e, perché Tecla gli era sempre parsa degna di vita meno dura di quella, che, pel suo stato, doveva condurre, faceva conto di assecondare quel pietoso lavoro di sua madre, una volta che avesse sposato Bianca. Godeva al pensiero di poterle dare questa villanella, da tirar su creanzata.
Venuto così sugli ultimi di luglio, tornava una sera per chiudersi a studiare e prepararsi all’esame. Ma, sulla porta della casa dove abitava, trovò uno staffiere, che teneva pronto un cavallo bellissimo, vigoroso, sellato come per uno che v’avesse a montar su, per qualche viaggio non corto. Appena Giuliano gli fu accosto, lo staffiere si scoperse, e gli diede un biglietto della marchesa di G.... che il giovane lesse in un baleno, facendosi in viso come un panno lavato.
- Vostra madre è morente; - diceva la scrittura - partite su questo cavallo, ma subito. Alla mia villa di B... troverete altri cavalli. Servitevi, partite, chi sa se farete a tempo...
- Un momento; - esclamò Giuliano col cuore alla gola: e, volato in camera, si pose in gamba gli stivali armati di sproni; poi, così, com’era, senza badare a robe, a libri, a nulla di quel che lasciava, discese e montò in sella.
- Badi - gli disse lo staffiere - appena fuori di Bra, a man destra, in quella palazzina, troverà il gastaldo della signora Marchesa...
- Mi rammenterò di voi - rispose egli mettendo in mano a colui qualche moneta: - dite alla signora marchesa che io terrò la vita per lei; addio.
Spronando dalla parte di mezzogiorno, trovò la via del suo destino, e si mise su quella di trotto serrato.
Lo staffiere, badando alle spalle riquadre, al corpo snello, alle gambe di ferro del giovane, tornò dalla marchesa a dirle che questi era partito come un razzo e la gentildonna ringraziò il cielo, e pregò clze Dio tenesse la sua santa mano sul capo di Giuliano, per tutta la vita.
E in verità il giovane ne aveva bisogno, perché egli spronava di maniera, che quanti si imbattevano in lui, fossero a cavallo o a piedi, penavano a scansarsi, e gli davano dietro di basilisco e peggio.
Giunse a B..., a mezza via tra Torino ed Alba, che era l’aurora; e ai coloni, che già a quell’ora si avviavano ai campi, chiese d.‘1 gastaldo della marchesa per mutare il cavallo. Quello che aveva non poteva più reggere. Gli fu additato una sorta di maniero, lontano pochi passi dalla via maestra, dove un uomo stava sulla soglia, quasi avesse saputo di dovervi aspettare qualcuno. Costui era appunto il gastaldo, il quale, ravvisando il cavallo, si fece incontro al cavaliero; e, mentre guardava con occhio pietoso la povera bestia com’era conciata, sentiva da Giuliano che gli aveva a dare Utl altro cavallo. Smontare, togliere l’arnese di dosso a quello stanco, e sellarne un altro, zaino, accappucciato, di collo scarico e all’aspetto buon corridore, fu lavoro di poco tempo. I due animali baratt ;rono tra loro un nitrito, come se il nuovo chiedesse allo stanco, se il cavaliere fosse forte in arcioni; Giuliano, già in sella, spronò e, forse senza salutare il gastaldo, ripigliò la via.
E tornò a traversare borghi e castelli, non provando molestie di fame o di stanchezza. Più camminava, più gli pareva di diventar forte e fresco; al sole non badava, né al polverio, né ad altro: arrivare a Dego, ecco lo sprone che gli si era fitto nell’anima, più acuto, più tormentoso di quello, con cui egli insanguinava i fianchi al cavallo; il quale, se gli fosse bastata la lena, quel giorno di certo non avrebbe odorato biada né fieno, prima d’essere a Dego. Ma, alla fine, se non la compassione del cavaliere, potè la stanchezza; e il povero animale rallentò da sé la gran corsa. Allora Giuliano si trovò come riscosso da un sogno, che stesse facendo; e, alzato il capo, vide, in faccia e poco discosto, le torri di Alba. La voce del Tanaro gli suonò all’orecchio come quella d’un amico che gli parlasse col dialetto dei suoi monti; e, guardando la propria ombra sulla via, gli parve sì corta, che stimò il mezzogiorno molto vicino. Passando il ponte di legno che metteva nella città, pensò che quelle acque verdastre, spumanti, rumorose contro le barche, sarebbero scese, più basso, a mescolarsi con quelle della sua Bormida; sentì l’aria della sua terra, diede un’ultima occhiata dietro di sé alla pianura, all’Alpi lontane, in quell’ora, non come a sera, tinte di colori che paiono dell’altro mondo; poi, messosi dentro badò innanzi la via per dove andava.
Sotto i porticati che in Alba, come in quasi tutte le cittadette di quelle parti, sembrano essere stati fatti apposta per i signori, stavano i maggiorenti aspettando l’ora del desinare; altri, in brigatelle allegre passeggiando, altri gomitoni sugli sporti delle officine a chiacchierarsela cogli artieri alla buona. L’aspetto della città era allora più severo, e le torri brune parevano stare là ritte, quasi per ammonire i cittadini, che se non avessero atteso a procacciarsi ogni anno migliore ventura e vivere più civile, il passato, con tutto il diavolio di baroni, di bravi e di foderi medievali, avrebbe rifatto capolino dalle loro balestriere e dai loro merli, sto per dire, imbronciati.
Giuliano attraversò la città e andò a smontare all’altro capo di essa, a quella osteria chiamata una volta dello scudo di Francia, adesso dei tre Re, quasi per far dispetto ai Francesi, che l’anno prima n’avevano tolto uno dal mondo.
- Questo cavallo ha fatto più di venti miglia! - disse lo staffiere cui Giuliano diede le briglie, smontando nel cortile dell’osteria.
- Potete dire anche trenta - rispose questi - abbiategli cura. - E, lasciando a colui l’animale, passò dal cortile in una sala terrena dove si dava da mangiare ai viaggiatori.
- Di quei tempi era un gran bel vivere! - dicono i vecchi; e in verità in quelle cittadette mezze nascoste e quasi dimenticate si stava in apolline. Si desinava nelle osterie semplici e disadorne; e se il viandante, seduto a mensa, levando il capo dal piatto, non dava dell’occhio in uno specchio, a vedervi se stesso biasciare, in cambio di queste magnificenze, gli era messo in tavola molto ben di Dio, per poca moneta.
I vigneti fruttavano a dovizia, e, se avesse usato lavare i piedi agli ospiti in sull’arrivare, come ai tempi antichi, si avrebbe potuto farlo col vino, tanto ve n’era d’avanzo. I prati nudrivano le fienaie, per modo che carne e pane stavano tra loro a spesa poco diversa; epperò le osterie eran formicai di gente paesana e di viandanti, sui quali l’occhio materno dell’ostessa seduta al focolare, spandeva il dolce ricordo domestico, e l’ospite si stimava in casa sua.
Giuliano andò diritto all’oste, il quale era un ometto tondo, lucente nelle guancie, e tenuto in sussiego da tre o quattro giogaie, clze dal mento gli si digradavano alla sommità del petto, donde, tra lo sparato della camicia, uscivano petulanti peli grigi, a guisa dí gale. Nelle sue pupille pareva vi fossero due birri appiattati. A mirarne il naso vergolato di mille venuzze accovate sulla punta, si sarebbe detto che, da uomo di coscienza, ei non lasciasse uscire dalle suc botti un bicchier di vino, senza averlo assaggiato. Del rimanente era uomo avvisato molto, ma da mettersi a brani per fare servigio.
- Oste, - gli disse il giovane - la marchesa di Gasprèville, ha poderi qua in Alba?
- Poderoni! - sclamò l’oste, maravigliando come altri avesse mestieri di chiedere cosa che doveva essere nota a mezzo mondo.
- Ebbene - soggiunse Giuliano - ho un suo cavallo che voi, se vi fa comodo, manderete al suo gastaldo, appena sia riposato; poi, se me ne troverete uno per un paio di giorni, saremo d’accordo con pochi discorsi.
- L’oste dei tre Re serve chi lo comanda, e pel signorino ci ho un cavallo morello, sfacciato, con quattro gambe da cervo...
- Appunto, quello che mi occorre fra mezz’ora. Adesso vorrei mangiare...
- Vuol salir di sopra...?
- No..., starò qui.
L’oste s’inchinò, affilando l’uno contro l’altro due coltellacci da affettar le carni, e Giuliano andò a sedersi ad un deschetto, nell’angolo più solitario di quella sala. La quale era vasta, e vi stavano mangiando a diversi tavolini, brigate di mulattieri, dagli aspetti robusti; gente che soleva fare buon tempo, quando si trovava sicura dai gabellieri, coi quali, su per gli alpestri confini tra il regno e la repubblica genovese, faceva sovente a chi più ne toccasse, barattando anche qualche schioppettata, per amore del danaro che guadagnava a manate.
Il giovane diede un’occhiata fra quei commensali, se ve ne fosse qualcuno del suo borgo, o delle terre vicine, per chiedergli di sua madre; ma non v’era faccia che gli tornasse nota. Stette gomitoni aspettando il suo pasto, e pensava che, se egli fosse stato in quel luogo a mal fare, di cento volte, novanta vi sarebbe stato un testimonio delle sue parti, quando l’oste venne oltre, portando alto un pollo lesso di tal fragranza, che avrebbe fatto gola a un morto. Lo mise innanzi a Giuliano vicino ad una caraffa di vino paesano, e versandogli di questo, gli disse:
- Questo le parrà sulla lingua un rasoio. Se non fossi importuno vorrei chiederle una cosa. Ella è quel signore, smontato al mio albergo questa Pasqua, o giù di lì, con un suo servitore?
- Appunto.
- Ah! lo diceva pure io, che le fisionomie dei signori che mi fanno onore, non le dimentico! Anzi, ricordo che il suo servitore mi disse, che lei andava a Torino per farsi medico...
- Avete buona memoria: - disse Giuliano mangiucchiando; e l’oste, inchinatolo rispettoso, fece le viste di correre a un tintinnio di bicchieri, che veniva dall’altra mensa. Ma in cambio andò a parlare con un tale, vestito a modo, che, subito veduto Giuliano, lo salutò con certa dimestichezza, e facendo un segno come per farsi conoscere. Il giovane si levò da sedere, rispose cortese a quel saluto e a quel segno, al quale ne seguirono due o tre altri barattati rapidamente, poi si strinsero la mano, si riconobbero per essersi visti altra volta, sedettero e cominciarono a parlare basso tra loro.
Erano già molto innanzi coi loro discorsi, ma niuno ne avrebbe potuto raccogliere parola, tanto badavano a non farsi udire, quando colui, che ai portamenti sarebbe parso a chicchessia un vecchio amico di Giuliano, si mostrò stupito, e guardandolo negli occhi gli disse:
- Come? Eppure da ieri in qua non si parla d’altro fra noi...!
La retata di scolari e dei nostri fu fatta, o la polizia di Torino sta per farla. Via, pensate che io voglia rimproverarvi d’esservi posto in salvo?
- Ma io - sclamò Giuliano balzando in piedi, a guisa d’uomo oltraggiato, per modo che tutti i mulattieri che mangiavano là dentro si volse a guardarlo: - io non so nulla! Io partii ieri sera, e vado a Dego a vedere mia madre morente. Leggete. - Così dicendo frugava per le tasche del gibboncello, e, cavato il biglietto della marchesa di G..., lo dava a leggere a quello strano amico.
- Saranno state false nuove! - disse costui, letto il foglio, e stretta la mano al giovane, nel ridarglielo: andate al vostro destino; finché uno ha la mamma, non sospiri, dice il proverbio... Ma... via..., poiché non sapete nulla, nulla deve essere seguito; non vi lasciate cogliere dalla malinconia, e bevete alla salute di vostra madre.
E gli mescè che bevesse, come se Giuliano fosse uno suo ospite.
Ma il giovane, messo da quella novità in gran pensiero, non bevve né parlò. La sua persona sedeva a quel desco, ma l’anima sua era altrove, forse a Torino, forse a Dego. Forse egli pensava a tornare indietro, chiarirsi se davvero tanti giovani fossero stati carcerati come colui diceva, e poi rifar la via una terza volta, per correre al suo borgo nativo. E la marchesa di G..., e la brigata che aveva visto in quella casa, e quel biglietto, e sua madre morente. e forse già morta, erano immagini accozzate nella sua mente, a dargli un travaglio da non potersi patire. In somiglianti scompigli dell’animo, l’uomo si lasciava governare dal consiglio dell’amicizia, e Giuliano si mostrò pronto a dar retta al suo vicino, tosto che questi ripigliò, parlando basso più di prima:
- Animo, amico, la sventura è madre dei forti; se vi è cara la libertà, se vostra madre volete vederla ancora una volta, su a cavallo! e via di buona vcntura.
- Sì - rispose il giovane levandosi con un piglio risoluto - a cavallo! Oste...
L’oste accorse, ebbe lo scotto, e il nolo che volle del cavallo: poi Giuliano uscì, accompagnato nel cortile dall’amico. Dette co lui altre poche parole di congedo, montò in sella, e, mentre partiva, sentissi dir con affetto: - Tornando, rammentate che la casa di Ranza è casa vostra. Addio!
Codesto Ranza era della città d’Alba, caldo amatore di libertà e delle cose di Francia, e molto addentro nelle cospirazioni, che si formavano in quella regione. Egli si scoprì di là ad un paio d’anni, quando i repubblicani condotti da Buonaparte, furono nelle valli della Bormida e del Tanaro, dopo aver vinto a Montenotte, a Cosseria e a Dego, e diedero lena a molti di chiarirsi contrari al re.
Di lui fa cenno il Botta nelle sue storie, e, sebbene lo stimi cervello disordinato, e capace del pari di far perire la realtà per la ribellione, e la libertà per l’anarchia è giusto alla sua memoria: lo chiama uomo dabbene né senza lettere; e di certo non disse troppo.
Giuliano l’aveva incontrato a Torino alcune volte, a quei convegni notturni, ai quali, di quando in quando, si recavano gli amici delle città piemontesi, a fare accordi, a pigliar novelle, a conoscere nuovi compagni. Ora, cavalcando e divorando, colla mente, quelle altre sei od otto ore di cammino, che gli rimanevano per giungere a Dego, sentendo in cuore la voce del Ranza suonare quasi paterna, credeva che, per tutta la vallata, fossero uomini di quel pensare. Sicché l’aria gli pareva piena di spiriti generosi; tutto gli tornava più bello a vedersi in quei luoghi noti; e sin quel dolore domestico, verso il quale correva, gli si faceva più mite.
Man mano che s’avvicinava a’ suoi monti, l’aspetto della campagna, era come se la mano dell’uomo avesse fatto furia all’opera della natura. I fieni erano stati falciati, la mietitura fatta anche nei luoghi, ove le messi solevano venire più tardive; dovunque era un casolare, s’udiva un rumore di correggiati, si vedeva un ventolar di biade, e nugoli di pula che andavano all’aria lontani. Appariva per tutto la fretta di tirarsi in casa i raccolti, dalla tema dei Francesi, che, per sentito dire, prendevano, incendiavano, struggevano ogni cosa. Chiese novelle del paese, e di grosse come quelle che gli davano i montanari non ne aveva inteso mai. Seppe che di quei giorni erano arrivati in val di Bormida molti Alemanni, dicevano centomila, ma dei Francesi eran molti di più. Taluno osava chiedere a lui dove andasse, e sentito che a Dego, compiangeva il povero signorino, perché i repubblicani erano di là a poche miglia. Giuliano non badava a quella paura e tirava innanzi ristorandosi nell’aria delle montagne native.